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domenica 13 febbraio 2011

Joyless Jokers - Arms of Darkness


Guardo e riguardo più volte il packaging del nuovo cd arrivato qui nel Pozzo dei Dannati per capire se quello che ho fra le mani è il nuovo cd dei Dimmu Borgir o realmente quello di una giovane band vicentina che ha voluto fare le cose in grande, regalandoci una confezione cartonata degna dei gods norvegesi, con tanto di adesivi e spilla interna. Effettivamente si tratta dei nostrani Joyless Jokers, formazione veneta in giro dal 2005, che ci consegna questo EP di 5 pezzi di death mid-tempo, di matrice scandinava. Il cd apre i battenti con “Black Light”, song tellurica nel suo incedere, complice una batteria fulminea che esplode i suoi dirompenti colpi su linee di chitarra di scuola svedese, senza però ispirarsi ad una band ben precisa: forse echi dei primi In Flames si possono ritrovare in questi minuti iniziali del cd, miscelati alla rabbia degli Arch Enemy e alla tecnica dei Carcass, ma sia ben chiaro, i nostri non si lanciano mai in sfuriate alla velocità della luce, mantenendo costantemente il proprio sound ben controllato e controbilanciato da qualche sporadico inserto di tastiera. Con la successiva “Chapter to Forgive”, il five-pieces italiano pigia leggermente sull’acceleratore, con le tastiere che timidamente cercano di farsi breccia nel cuore dei brani, con lo scopo di donare maggiore personalità alle trame chitarristiche delle due asce Rudy Girardello e Michele Brunetti, che si divertono e ci divertono, rincorrendosi con dei solos non troppo complicati, ma assai efficaci nell’economia del brano. Il growling di Thomas è granitico, forse talvolta troppo statico, tuttavia risulta estremamente efficace nel suo intento, evitando che la band finisca per fare l’occhiolino a realtà death metal svedesi, dove di death ne è rimasto ben poco. Con la title track, la band dei 3 fratelli Girardello si lancia in un classica cavalcata metal, che trova una brevissima pausa dopo un minuto dal suo inizio, ma poi riprende a spaccare che è un piacere, anche se a metà brano un intermezzo tastieristico (attenzione ai volumi troppo elevati!), in pieno stile Children of Bodom, mi fa temere il peggio. Niente paura però, i nostri si riprendono e tornano a deliziare le mie orecchie con un solo portentoso e un finale in cui le chitarre si lanciano in un loop ipnotico, con Thomas a urlare dell’amarezza della vita. È il turno dell’attacco frontale di “Back to Ashes”: batteria rutilante, tastiere atmosferiche, riff glaciali provenienti dall’estremo nord, voci corrosive e di nuovo i 2 axe-men che si rincorrono, incrociano e tessono accattivanti linee di chitarra. “Shame” chiude con eleganza mista a dura irruenza miscelata alla potente melodia, un EP, che sancisce l’esordio di una nuova band nell’infinito mondo della musica estrema. Le premesse per fare bene ci sono tutte, la cosa importante è provare a intraprendere con personalità un proprio percorso musicale, cercando il più possibile di non avere come propria fonte di ispirazione gli ormai svuotati Figli di Bodom, ma cercando di sfruttare al meglio i propri punti di forza, la tecnica dei singoli, il buon songwriting, l’ottimo gusto per le melodie e la voglia di sperimentare, che non guasta mai. Il consiglio più grande che mi sento obbligato a dare, per evitare che un altro combo dalle belle speranze si perda per strada, è quello di non voler rimanere bloccato nello stagnante mondo del death melodico, ma sforzarsi di intraprendere nuove personali strade che li possano guidare verso il successo. Coraggio! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Voices of Decay - Overcome


C’è sempre più fermento nella scena italiana, ed ecco arrivare da Bolzano una interessantissima realtà, i Voices of Decay, creati dall’ex Graveworm Lukas Flarer e in giro addirittura dal 1997 (ma io dormivo che non li conoscevo?) e con già un full lenght alle spalle. Cercando in internet, la domanda che è sorta spontanea è stata “Possibile che non ci sono notizie in italiano su questa band? Solo news o interviste in tedesco, segno che ancora una volta in Italia, non diamo giusta rilevanza a chi merita davvero e il più delle volte, gli artisti cercano fortuna all’estero”. Dopo questa polemica travestita da riflessione, mi appresto ad ascoltare questo roboante album di death melodico: 11 pesanti tracce per più di 50 minuti di musica che sinceramente vi sapranno conquistare fin dal primo ascolto. Si parte con l’aggressività controllata di “Dear Mortal Man” che evidenzia già da subito la compattezza dei suoni del quartetto altoatesino, che decisamente denota di essere molto navigato a livello di esperienza. La qualità della band emerge a mio avviso con le successive “Superficial” e “Rising Tide”, 2 song diverse da un punto di vista di velocità d’esecuzione, la prima più sostenuta e più feroce mentre la seconda più tranquilla e ammiccante verso sonorità modern metal, ma comunque entrambe caratterizzate da un sound estremamente cadenzato, con i nostri che palesano scelte azzeccate a livello compositivo, buon gusto per le melodie, mai troppo ruffiane, dandovi infine per scontata l’eccellente caratura tecnica del combo bolzanino. La voce di Menz si dipana tra gorgoglii death metal molto piacevoli e clean vocals che strizzano un po’ l’occhiolino allo swedish death di Soilwork e Scar Symmetry. La ritmica pesta che è un piacere, basti ascoltare “Who” per capirsi, con la prova devastante e precisa di Christoph dietro le pelli, e soprattutto per quei suoni un po’ disturbanti e disorientanti che caratterizzano un po’ tutto il cd, altro punto di forza di questo “Overcome”, che unisce la potenza del death metal teutonico alla melodia tipica del metal scandinavo, il tutto condito con discreti quantitativi di groove tipico americano in grado di regalare quell’ultimo ingrediente necessario a rendere questa release davvero interessante. Altri brani da segnalarvi sono “Energy”, che incentrata sempre su un sound mid-tempo (trade mark dell’intero cd), presenta in secondo piano, suoni futuristici (chi ha parlato di Fear Factory?) di chitarra misti a tastiera davvero intriganti, cosi come pure la successiva “The Picture”, in grado di stordirci con minimalisti interventi delle tastiere, sempre comunque relegate in secondo piano, ma dall’effetto veramente pungente e trascinante. Sono convinto infatti che se mancassero questi leggeri artefatti tecnologici, l’album scivolerebbe via nell’anonimato generale, invece grazie all’utilizzo intelligente delle keys inserite in un contesto di violenza controllata, l’album godrà di una più che buona longevità. Bella scoperta ho fatto in questo periodo, ce ne fossero di band come queste in giro, la mia professione di recensore sarebbe molto più facile e piacevole! (Francesco Scarci)

(TB Records)
Voto: 75

Doppelgänger - Goat the Head


Carico il CD e me lo sparo tutto d’un colpo e il primo pensiero è: “mmm, mi sa che mi sono perso qualcosa...”. Allora decido di ripararmi il cd ma la sensazione è la medesima: “mmm, mi sa che ho ri-perso qualcosa...”. Terzo tentativo. Mi arrendo. I norvegesi Doppelgänger prendono tutto quello che riguarda melodia, eleganza, pulizia del suono, ricerca nella composizione e lo ignorano bellamente. Va bene divertirsi suonando, va bene non legarsi troppo a stili, ma qui si esagera. Eccovi un disco death metal tiratissimo, armato di un rudezza disarmante e aggravato da una cacofonia violenta di suoni e voci. Nel packaging si definiscono “cavernicoli primitivi contemporanei”: come dargli torto. Infatti, io me li vedo vestiti di pelli d’orso che eseguono i pezzi usando ossa e pellami di animali estinti mentre il cantante emette urla belluine. Eccovi un lavoro in cui tutte le tracce si confondono, tanta è la loro similitudine. La voce growl è adoperata oltre il mio limite di sopportazione; tutta la parte strumentale è completamente asservita ad una potenza selvaggia priva di schemi. Nessuna cosa è definibile come assolo o virtuosismo. Potrebbe essere anche divertente, sinceramente io userei questo “Goat the Head” come colonna sonora di una gara di headbanging. Vero poi che la sensazione di già sentito compare molto, troppo rapidamente. Due cose salvano il cd dal mio dimenticatoio istantaneo: la brevità e la terza traccia. Grazie a Dio, i nostri hanno creato song brevi; tutto il platter fortunatamente finisce in 33 minuti: se ne durasse anche solo 5 in più, credo che nessuno lo ascolterebbe più di una volta nella vita. L’unica canzone che spunta dall’anonimato è appunto la terza traccia, “This Tube is the Gospel”: qui una voce femminile pulita, veramente molto bella (assieme a cori lontani), insieme al growling di Per Spjøtvold, creano un contrasto spiazzante che ho trovato davvero piacevole. Un appunto volante anche sull’immagine in copertina: credo sia un omaggio “blasfemo” alla cover di “The Miracle” dei Queen, dove i volti dei componenti si fondevano in unico viso (Come dite? Quella era meglio? Sì, concordo). Un album quindi sconclusionato, grezzo, casinista e ripetitivo, ma attenzione, non tutto è da buttare. Solo per veri amanti del death metal tout-court, senza troppe pretese. E ovviamente, indicatissimo per le gare di headbanging! (Alberto Merlotti)

(Aftermath music)
Voto: 50

Shelter of Leech - No One Else Around


Infilo il cd nel lettore e subito, come un fiume in piena vengo piacevolmente investito da un flusso di sensazioni/emozioni positive. Si tratta dei giovani veronesi Shelter of Leech che allietano questa mia domenica di febbraio, con la terza release targata Kreative Klan Records. “No One Else Around” si apre con la sorprendente “Every”, che mette immediatamente in chiaro qual è la direzione intrapresa dal quartetto veneto: un sound che vive di una commistione tra crossover, nu metal, thrash e heavy classico, reso estremamente interessante dalla voce di Davide Macchiella, abile nel passare da clean vocals a momenti evocativi fino ad altri in cui, una timbrica più marcatamente sporca, trova il sopravvento. La musica della band risulterà sicuramente derivativa alle vostre orecchie, ma in fondo in fondo “un chi se ne frega” ci sta tutto. Se nella opening track, sono cenni di Tool o System of a Down ad emergere, nella successiva “K.O.”, i nostri rendono omaggio ai Pantera (qui Davide fa un po’ il verso a Phil Anselmo), con un sound pesante e con una song diretta “in your face”, ricca di spunti melodici ma anche di tanta aggressività. Con “Fix Me”, riemerge ancora il fantasma dei Tool, per il suo spettrale incedere e l’abile lavoro alle percussioni di Bruce Turri. Tuttavia ancora una volta il punto di forza dell’act italico, rimane la performance alla voce del buon Dade, sostenuto comunque brillantemente dagli altri musicisti. Il suono volutamente sporco dà l’idea poi di trovarsi nei pericolosi sobborghi di qualche metropoli americana. L’intermezzo rumoristico della title track interrompe la vincente proposta dei primi tre brani, e ci traghetta in una parte un più intimistica con “Recollect”, un po’ meno brillante delle altre song, anche se ci offre un discreto assolo nella sua parte centrale. Con “Golden Age”, il four pieces veronese ci riporta indietro di qualche anno con una song che esordisce con una vena molto rockeggiante e assai tranquilla, per concludersi in un arrembante e incandescente finale, dove il puzzo di sudore si mischia allo stridore della chitarra. “State of Grace” viaggia tra melodie “tooliane” e aperture a la Bokor, mentre “Get the Hell Outside” è probabilmente la mia traccia preferita: inizio affidato a basso/batteria seguite da una chitarra bella possente e corposa, con delle linee vocali veramente ispirate e chorus da brividi, con un finale affidato ad un parte acustica. Il cd dei Shelter of Leech, prosegue su questa linea mostrandoci una band capace di catturarci con una proposta immediata, pregna di melodia e ricca di aggressività. L’esercizio da fare ora, sarà prendere decisamente più le distanze da tutte quelle band citate in questa recensione e donare maggiore personalità alla propria proposta, ma sono convinto che i nostri non ci deluderanno. Talentuosi ed estremamente interessanti in prospettiva futura! (Francesco Scarci)

(Kreative Klan Records)
Voto: 70

giovedì 10 febbraio 2011

Cryptic Wintermoon - Fear


Voglio essere estremamente sincero con voi: comprerei questo disco solo per l’intro country-western “21 Guns” che si chiude nella ipnotica successiva “Pride of Australia” con lo stesso chorus spaghetti-western. Finalmente i tedeschi Cryptic Wintermoon sfoderano una buona prova dopo qualche passo falso commesso nel passato. “Fear” è un buon album da cui ripartire alla ricerca di se stessi e di una propria ben definita identità e il fatto di staccarsi completamente dalla Massacre Records e autoprodursi, dimostra secondo me, una profonda presa di coscienza da parte dei nostri; per carità la strada è ancora lunga, però si possono già intravedere importanti passi in avanti. Continuando il percorso intrapreso in passato anche con “Fear”, il combo teutonico affronta tematiche legate alla Prima Guerra Mondiale, che a quanto pare è una vera e propria ossessione. La musica poi, continua a muoversi su coordinate stilistiche melo-death di stampo scandinavo (Dark Tranquillity per la precisione, ascoltare “Down Below” per capire) ma rispetto al passato sono molto meno scontate o palesemente copiate. 11 tracce (più intro e outro) che ci consegnano una band nel culmine della propria forma, capace di toccare il proprio apice compositivo nella già citata iniziale “Pride of Australia”, lenta e oscura ma assai orecchiabile, con le feroci “Tales from the Trenches” e “Hellstorm Infantry”, le meditabonde “One of Your Sons is Coming Home” e “God With Us” e il sinfo-black di “The End” che sembra uscita più che altro da “Stormblast” dei Dimmu Borgir. Sicuramente avrei privilegiato una produzione più potente e meno secca/glaciale che un penalizza inevitabilmente il sound dei nostri, cosi come magari lavorerei maggiormente sulle vocals, ancora un po’ sottotono rispetto alla qualità degli altri musicisti. Certo, non si poteva pretendere di arrivare ad un capolavoro immediatamente però, facendo qualche miglioria qua e là (anche al suono delle chitarre troppo ronzante per i miei gusti), direi che ci potremo presto attendere un’ottima prova dall’ensemble germanico. Sono estremamente ottimista per il proseguo dei Cryptic Wintermoon, perché è proprio vero il detto “sbagliando si impara” e credo che i nostri abbiamo fatto tesoro degli errori commessi in passato, tanto da attendere quasi un lustro per poter pubblicare il seguito del non tanto fortunato “Of Shadows... and the Dark Things You Fear”. Gradito ritorno sulle scene di una delle band storiche del panorama metal tedesco! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

Synthetic Waterfall - Rising of the Aeon


Devo ammettere di sapere ben poco di questo combo transalpino e di essere stato in grado di trovare ben poche informazioni a riguardo del quintetto di Ile de France, tuttavia, quando ho infilato il Mcd nel lettore del mio stereo, ho pensato immediatamente di essermi sbagliato nell’origine della formazione (e in effetti Timo e Jaakko Virmavirta di certo non possono dirsi francesi). Eh si perché il sound di questi ragazzi richiama le nordiche melodie dei Kalmah, spruzzate qua e là con epiche galoppate in stile Children of Bodom e con inaspettate aperture progressive. Wow! Già dall’iniziale title track mi rendo conto delle enormi potenzialità di questa sconosciuta e misteriosa band e già mi sfrego le mani in attesa di conoscere quali saranno le evoluzioni sonore successive a questo “Rising of the Aeon”, Ep che risale alla primavera 2009 ma che solo oggi finisce tra le mie mani. La seconda “Angels Will Cry”, già prende le distanze dalla prima song e concentra le sue energie su un extreme metal (sarebbe scorretto parlare di death) dalle forti venature progressive/avantgarde: lo si capisce dall’utilizzo di ipnotiche clean vocals, da fantasiosi giri di chitarra e da un bel suono di basso messo lì, in primo piano, accompagnato da discreti inserti di tastiera. Peccato un po’ per la registrazione non proprio all’altezza, però via via che il mio lettore cd prosegue nella sua lettura, mi rendo conto che questi ragazzi abbiano delle idee alquanto stravaganti: l’inizio di “Regrets of Time”, ne è la prova, con soffuse melodie, quasi mistiche, che lasciano presto il posto all’incursione di ritmiche arrembanti, poi ancora atmosfere soffuse, un po’ in stile Anathema, ma decisamente più elettriche, però accattivanti, sorprendenti e disorientanti. Mi aspetto infatti che determinati suoni escano dal mio stereo, ma puntualmente le mie aspettative vengono prontamente confutate dalla linea di condotta di questi 5 strani ragazzi francesi. L’ultima “The Stigmatas for my Play” riprende nel suo incedere iniziale, le tematiche finlandesi dell’epilogo del Mcd, ma nemmeno dopo 40 secondi, tutto è già stato stravolto e nuove sonorità escono dalle casse un po’ titubanti del mio stereo, che non ha ben più chiaro se quello che stiamo ascoltando è death, prog, epic, gothic o semplicemente una interessante e sperimentale forma di rock. Complimenti per la proposta, che mi ha confuso un po’ le idee ma mi ha piacevolmente sorpreso per il risultato. Ora li aspetto impazienti al varco di un lavoro ufficiale. Bravi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

Zora - Gore


Mamma mia che mazzata nei denti mi si prospetterà nell’ascoltare questo disco. Lo si evince immediatamente dall’attacco dell’iniziale “Hipocrisy”, che apre questo selvaggio lavoro dei calabresi Zora (che vantano tra le proprie fila anche 2 elementi dei conterranei Glacial Fear), album di debutto dopo due Ep di pregevole fattura per gli amanti di questa musica. Il genere proposto, come avrete intuito è un seminale brutal death senza alcun compromesso. Riffs violentissimi e acuminati, vocals che sembrano uscire dallo scarico del lavandino, ritmiche schizofreniche e un assalto sonoro degno delle migliori band americane. Ipertecnici, incazzati fino alla morte, brutali e talvolta geniali per alcune loro intuizioni, questi sono gli Zora, che poggiando il proprio sound sugli insegnamenti della scuola statunitense, sfoderano una prova di carattere, andando a rompere gli schemi preconfezionati, con la loro lucida follia. Ascoltate “Kill Who Kill You” per capire di cosa è capace questo trio di Vibo Valentia, che non si limita nel ripetere pedissequamente gli insegnamenti dei maestri d’oltreoceano, ma rileggono il tutto in una chiave strettamente personale. C’è sicuramente la necessità di lavorare ancora molto, inseguire giorno dopo giorno i propri obiettivi personali per raggiungere i traguardi desiderati ma siamo comunque sulla buona strada… Pazzi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 65

Edema - Default


Un inizio della serie “Il Signore delle Mosche” apre il debutto dei piacentini Edema, mi raccomando da non confondere con i pur sempre emiliani Enema! Se non avessi letto nel booklet interno del cd, i nomi dei quattro musicisti, avrei certamente ipotizzato che la nazionalità di questo quartetto death metal fosse nord europeo. Questo perché la caratura tecnico-compositiva dell’act italico è decisamente elevata per i nostri pur buoni standard. Ciò che magari frega un la band è un po’ quella mancanza di personalità che li possa far uscire dal solito affollatissimo calderone che è il panorama metal. La proposta degli Edema alla fine è un chiaro techno death di “Meshugghana” memoria, anche se sarebbe totalmente ingiusto fermarsi a questa superficiale definizione: comunque un classico rifferama dei godz scandinavi, stop’n go, inframmezzi acustici, alternanza di tempi pari e dispari, melodie distorte che già dall’iniziale “Crawling Unreason”, mostrano la pasta di cui sono fatti questi ragazzi. Si prosegue con le successive “Generator”, “Onirical” e la title track con un unico imperativo “Annichilire le fragili menti degli ascoltatori”. Devo ammettere che il risultato finale è estremamente positivo per una band alle prime armi (si fa per dire, perché comunque i nostri sono in giro dal 2004) e che i presupposti per trovare una propria strada, con un tocco di personalità in più ci sono eccome… Ottima la produzione, che esalta enormemente i suoni di “Default”, mettendo in primo piano una eccellente e devastante ritmica che nella ferale “My Sweetest Whore” ha un che di brutal death di chiaro stampo americano, con cervellotici giri di chitarra degni dei grandissimi Infernal Poetry. La conclusiva “Unequal Desease” chiude un lavoro che non fa altro che confermare le eccelse qualità e le grandi potenzialità che questa band potrà garantire in un futuro, speriamo, non troppo lontano. Ipnotici! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 70

Criminal Hate - Ataraxia


La nascita di questo combo siciliano è addirittura datato 2001, quindi quasi un decennio di vita per questa band underground di Catania, che solo ora riesce a dare alle luce il proprio debutto discografico (del 2005 un EP, “Regression of Human Race”). “Ataraxia” è un tipico esempio di black death influenzato dal sound vampiresco dei Cradle of Filth in primis: aspettatevi quindi una release abbastanza tirata, che come i loro maestri ai tempi migliori, non disdegnano quelle inquietanti melodie e ambientazioni horror a supportare l’estremismo sonoro (mai eccessivo a dire il vero). Quello che ne viene fuori è un lavoro che, pur essendo abbastanza derivativo, si lascia piacevolmente ascoltare, anche se credo che l’emivita (per dirlo in termini farmacologici) di questa release, non sia delle più lunghe. I Criminal Hate ci sparano in faccia queste otto tracce in grado di alternare feroci cavalcate black, con le keys ad arricchire in modo mai troppo invadente, il sound del trio catanese, a momenti in cui minacciosi rallentamenti la fanno da padrone. Diciamo che c’è ancora da lavorare molto per ottenere dei buoni risultati, tuttavia, “Ataraxia” rappresenta già un discreto punto di partenza da cui crescere e prendere il volo. Il terzetto siculo si muove con estrema disinvoltura all’interno di un genere che ha visto uno scoraggiante declino negli ultimi anni e quindi mi rende felice vedere che c’è ancora qualcuno che si dà da fare per mantenere viva quella tenue fiammella di black sinfonico e “The Curse of Anubis” (ma anche la successiva “Empire of Insanity”) possono essere considerate la summa dell’intero lavoro accorpando soluzioni sinfo-black con elementi goticheggianti. Per chi è in cerca di emozioni quasi del tutto andate, i Criminal Hate possono ancora rappresentare la speranza per un futuro migliore… in chiave black sinfonico sia chiaro! (Francesco Scarci)

(Criminal Intent Records)
Voto: 65

mercoledì 9 febbraio 2011

Klabautamann - Merkur


Devo essere sincero, per iniziare ad apprezzare questo disco mi ci sono voluti veramente tantissimi ascolti perché “Merkur”non è di sicuro uno di quei lavori che ti si stampano immediatamente nella testa o sei è in grado di apprezzare fin dal primo momento. Certo è che, quando il sound dei tedeschi Klabautamann, inizia ad insinuarsi nelle nostre menti, tutto diventa alla fine estremamente interessante e coinvolgente. Partendo da una remota base black metal, l’act teutonico costruisce il proprio sound, basandosi sui sacri insegnamenti degli ultimi Enslaved (quelli di “Vertebrae” o “Isa” tanto per capirci, fino ad affondare le proprie radici nel psichedelico “Monumensium”) o dei deliranti Fleurety, senza dimenticare che l’alone progressive che aleggia intorno a questa release, si ispira ai gods svedesi Opeth, ma riletti in chiave black piuttosto che death. Tutto questo, non per dire che i nostri crucconi siano dei bravi copioni, ma solo per farvi capire che quello che ne viene fuori è un qualcosa di alta classe e di comunque stranamente originale. Non tralasciamo poi le tipiche sfuriate black come in “Herbsthauch” o “When I Long for Life”, dove il duo di Meckenheim mostra veramente di saper far male con il tipico tagliente rifferama nord europeo. Ciò che poi ci stupisce in mezzo a queste tiratissime ritmiche e spiazza completamente, sono quei sorprendenti momenti di atmosfera solenne, dove divagazioni jazz, acustiche o avantgarde, riescono a sorprenderci alla grande per la loro classe cristallina, genuina e geniale. Quello su cui lavorerei maggiormente in mezzo a tutto questo ben di dio, è forse la voce, che renderei decisamente meno lacerante nel suo screaming ferino, cedendo il passo a un tono più oscuro o pulito. Che altro dire su questa new sensation tedesca? Se siete alla ricerca di musica cerebrale, seducente e assolutamente non scontata, “Merkur” farà di certo al caso vostro. Affascinanti! (Francesco Scarci)

(Zeitgeister)
Voto: 80

Sweet Insanity - Believe in Some Kind of Truth


Apprezzabile il gesto, ma darci dentro! I Sweet Insanity sono una band della provincia di Bologna che si forma del 2005. Registrano il loro primo EP autoprodotto, "Welcome To The Theater", tra il novembre 2006 e il febbraio 2007. Nel 2008 vengono messi sotto contratto dalla loro attuale etichetta, l’Hurricane Shiva. Mi capita tra le mani questo loro primo lavoro di ampio respiro. Inforco le cuffie e si parte. Si sente subito chi ha influenzato lo stile di questi ragazzi: il debito nei confronti dei “Four Horsemen” mi fa venir voglia di lasciare stare. Superato questo momento d’impaccio, mi rituffo però nell’ascolto. Per carità, nulla di nuovo sotto il sole: le canzoni sono suonate bene, le chitarre e le percussioni ci sono, i ragazzi ci sanno fare, con assoli puliti e la batteria bella potente quando serve. Ecco, la voce del cantante, molto melodica per il genere, mi lascia un po’ perplesso: s’incunea bene nelle sonorità ma pare non essere abbastanza potente e caratteristica. Il disco ha una sua linea, seppur non originale. “Believe in Some Kind of Truth” si apre con un’arpeggiata “Zeia Mania”, cui segue poi “Ready to Burn” un po’ più tirata (chi dice che ricorda “Fuel” dei Metallica?) che dà il “là” per i brani seguenti. “Conflict” è la prima traccia che si discosta dalle altre, con una parte melodica che permette alla voce del singer di poter spaziare liberamente. Questa vena meno potente si ritroverà più avanti anche in “Angel”. ”Libido”, con parti vagamente orientaleggianti e un finale particolarmente veloce, ha un qualcosa di personale e caratteristico cosi come pure “Funeral Lullaby” che prende le distanze dal resto delle song; melodica con arpeggi, in altri tempi sarebbe stata indicata come la “power ballad” del disco. Senza infamia e senza lode le altre tracce di questa release, a parte “Sons of the Dust” che ha l’aggravante della lunghezza. I testi delle canzoni sono semplici e diretti, cosa apprezzabile, ma forse un po’ troppo. Grossa pecca di questo lavoro è ahimè la bassa qualità di registrazione, davvero una produzione migliore avrebbe meglio portato alla luce le doti della band. Pur con questi limiti, mi sento di considerare questo LP positivo. Chi cerca le sonorità di “Re-Load” (sempre che esistano persone che ne siano in cerca), potrà trovare questa fatica addirittura divertente. Possono fare di meglio e sganciarsi magari dal lavoro e dalla forte dipendenza di altre band, sempre che lo vogliano e non si divertano già abbastanza così. Migliorabili! (Alberto Merlotti)

(Hurricane Shiva)
Voto: 65

Maninfeast - How One Becomes What One Is


Che bello l’underground, cosi pullulante di band ai più sconosciuti, pullulante di band che meriterebbero peraltro un contratto più di un qualsiasi altro gruppo, magari già affermato. Questa premessa perché la scoperta di oggi arriva dal sottobosco lusitano ed è ancora una volta sorprendente quante cose interessanti possano annidarsi là sotto. Signori e signore vi presento i Maninfeast, act proveniente dal Portogallo, formatosi poco più di un anno e mezzo fa e capace di rilasciare questo introspettivo Ep di 5 pezzi. La musica proposta? Non è cosi semplice da descrivere, complice il perfetto mix tra sonorità provenienti dai più disparati ambiti musicali. L’apertura è affidata a “Speaking Void”, song tranquillissima, quasi una lunghissima intro a cavallo tra il rock progressive e l’ambient. La successiva “Ewige Wiederkunft” mi fa immediatamente drizzare le orecchie: per quella sua apertura arabeggiante, ho forse un desiderio recondito di sentire nuovamente le sonorità dell’Ep d’esordio dei loro conterranei Moonspell. Questa mia speranza persiste per qualche minuto, in cui il quartetto di Lamego ci ipnotizza con il loro sound quasi psichedelico, per poi strozzarsi quando i nostri iniziano a premere un po’ di più il piede sull’acceleratore (in realtà mai più di tanto). Il sound dei Maninfeast si potrebbe descrivere infatti come “oniric metal”, per quella sua (già matura) capacità di catapultarci in un’altra dimensione, quasi sognante con lunghe soffuse ambientazioni, in cui esplodono saltuariamente rocciose chitarre e qualche vocals al limite del growl. La terza “Keynesian Model” è un ponte di raccordo, al limite della musica elettronica per quei suoi stordenti loop di synth (ad opera di Francisco Pina), con “Beyond Blindness”, song ancora una volta dall’incipit oscuro con le vocals di André Lobão che si alternano intelligentemente tra un mood assai sporco (quasi stile Sepultura) e uno più pulito, mentre le ritmiche viaggiano sospese tra il progressive, la musica etnica, l’ambient e il sound psichedelico ala Tool. A chiudere il Mcd ci pensa “Magic Stones”, la song più metal delle cinque (e quella che mi piace anche meno tra l’altro), in cui la voce di André adotta uno stile più alternative, mentre le ritmiche più tirate rispetto ai brani precedenti, hanno un certo flavour stoner. Concettualmente vicino alla filosofia di Friedrich Nietzsche, al pensiero del teorico di Lord John Maynard Keynes e anche al libro di Madame Blavatsky, “How One Becomes What One Is” ci mostra una nuova realtà proveniente dal Portogallo, che ci fa ben sperare per il futuro. Forti della produzione affidata a Guilhermino Martins (ThanatoSchizO), tra l’altro anche in veste di guest come tastierista nella seconda traccia, I Maninfeast rappresentano a mio avviso la new sensation dal Portogallo. Promossi a pieni voti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70