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sabato 19 gennaio 2019

Pensées Nocturnes - Grand Guignol Orchestra

#PER CHI AMA: Avantgarde Orchestral Black Metal
Nel Pozzo dei Dannati, ci eravamo fermati alla recensione di 'Nom D’Une Pipe!', quarto disco uscito per la Les Acteurs de l'Ombre Productions, poi il successivo 'À Boire et à Manger' fu autoprodotto e finalmente oggi il ritorno per l'etichetta francese, con il nuovissimo 'Grand Guignol Orchestra'. I Pensées Nocturnes sono tornati, con altre dieci tracce all'insegna di una follia avanguardistica grottesco musicale. Non sbagliano un colpo i nostri trapezzisti parigini, con un lavoro che fin dall'artwork e il booklet interno, colpisce per fantasia e originalità. Li ho definiti dei trapezzisti, ma potrei aggiungere clown, giocolieri, funamboli, mangiafuoco, ammaestratori di pulci o addestratori di serpenti, il risultato non cambierebbe. La band nelle dieci tracce qui contenute ne combina, come sempre, di tutti i colori, dal black orchestrale con tanto di fisarmoniche incorporate di "Deux Bals Dans la Tête" alla tanghera "Poil de Lune", cosi ricca di una serie di citazioni musicali e letterarie al suo interno, da far impallidire un candidato al premio Nobel. Pura follia musicale, lo dicevo all'inizio, delizia per il mio palato e per i miei sempre più delicati timpani, che ringraziano solennemente. Ovviamente intersecato a questo delirio musicale, ci ritroviamo sempre il personalissimo black pomposo dei nostri, che talvolta dirotta nel swing ("L'Alpha Mal"), non dimenticandosi tuttavia come creare atmosfere orrorifiche da Luna Park del terrore. I Pensées Nocturnes sono dei fottuti geni, che tuttavia non potranno piacere a tutti, data la complessità estrema della loro musica, che trova riferimenti ancora con la lirica, il jazz, musica etnica e classica, avendo cosi modo di completare un quadro musicale che potrebbe avere le fattezze della 'Guernica' di Picasso, il tutto poi cantato in lingua madre, giusto per non rinunciare alla grandeur francese. La violenza prevale in "Les Valseuses", ma si sa quanto possa essere passeggera nella musica del quintetto transalpino, che tra controtempi ultra-tecnici, stop & go, inserti di musica anni '30, stralunatissime vocals e sax (che torneranno anche nella successiva, inizialmente oscura, ma poi dai profumi quasi caraibico-balcanici, "Gauloises ou Gitanes?"), c'è da divertirsi non poco. L'improvvisazione è la parola d'ordine per questi mattacchioni francesi, con cui francamente mi piacerebbe fare due chiacchiere per capire realmente quanto la loro psiche sia veramente deviata. Da colonna sonora "Comptine à Boire", una song forse leggermente meno fuori dagli schemi, che evoca un che degli Arcturus, ma che evidenzia sempre una certa abilità negli arrangiamenti, nella composizione e qui anche nei solismi, con una fuga di sax nel finale, davvero incredibile. C'è ancora tempo per gli ultimi minuti di follia con le rimanenti "Anis Maudit" e "Triste Sade". La prima ci conduce in un qualche nobile salotto dove tra lirica e jazz, c'è spazio anche per devastanti incursioni black. La seconda chiude invece, con una certa vena malinconica, quest'ennesimo e folle piccolo gioiellino targato Pensées Nocturnes. (Francesco Scarci)

sabato 24 dicembre 2016

Eternal Samhain - Storyteller Of The Sunset And The Dawn

#PER CHI AMA: Symph Black/Death
La RNC Music rilascia finalmente il tanto atteso primo full length dei veronesi Eternal Samhain, , 'Storyteller Of The Sunset and the Dawn', che ci consegna una band in eccellente stato di forma, sebbene siano passati ben cinque anni dal mini cd di debutto, 'Obscuritatis Principium, Proxima Est Omnibus Damnatio'. Freschi peraltro di un nuovo contratto con la label russa Φono Records (la Metal Blade d'oltrecortina), il quintetto veneto, che abbiamo già avuto modo di ospitare sulle nostre pagine ed un paio di volte in radio, torna quindi con nove tracce nuove di zecca. Dopo il declamatorio intro in latino, si scatena l'inferno grazie al black sinfonico di "Cathedral", che chiama in causa interessanti paragoni per la band: se da un lato l'apporto delle orchestrazioni, erette da intelligenti keys (ad opera del turnista Hati), evocano inequivocabili accostamenti con Dimmu Borgir e Old Man's Child, l'architettura spesso elaborata dei brani, tra cambi di tempo e stop'n go, chiama in causa invece il devastante e sinfonico approccio dei nostrani Fleshgod Apocalypse. Insomma, mica male no? Il fatto poi che questa traccia, cosi come le successive, non si dilunghi in inutili trame ritmiche, agevola non poco, una più semplice assimilazione del sound. Tra i vari pezzi, vorrei citare "Ode al Vento", song da cui è stato estratto anche un video e che vede lo screaming comprensibilissimo di Taliesin, misurarsi con l'italiano a livello delle liriche, mentre la canzone, oltre ad offrire un ottimo break centrale, propone un'epica cavalcata sorretta da sontuose tastiere, accompagnate da una sempre elegante sezione ritmica affidata a zanzarose chitarre in tremolo picking. L'esperimento ben riuscito dell'utilizzo dell'italiano tornerà anche in "Cenere", lunga traccia sinfonica mid-tempo, che nella sua ottima progressione, propone uno spettacolare parlato, sulle orme dei primi Maldoror e Aborym, in un brano di sanguinolento black vampiresco che mi ha evocato anche i disciolti Seed of Hate e i teutonici Ancient Ceremony. Si prosegue con la magniloquenza della quarta "Vox Populi, Vox Dei", song che accentua ancor di più la componente orchestrale del quintetto italico, ma che allo stesso tempo, vede la proposta dei nostri, più devota alla fiamma nera. Un breve intermezzo ambient e si sfocia nel riffing brutale di "Trinux Samonia", che avvicina maggiormente gli Eternal Samhain ai più famosi colleghi umbri dei Fleshgod Apocalypse. Anche la voce in questo caso, abbina al cantato in scream, soluzioni più vicine al growling. La musica prosegue intanto sulla stessa matrice, abbinando melodiche chitarre black (qui anche con uno splendido solo) con teatrali synth, che divengono più preponderanti (forse troppo) con "King of Yourself", in cui, il flusso sinfonico della band viene investito, nella seconda parte del brano, da un'interpretazione al limite del death metal. Detto della traccia più bella del disco, "Cenere", l'album si chiude con la tiratissima title track che sancisce un come back discografico in grande stile (anche per ciò che concerne il formato in digipack con un artwork colmo di simbolismi); per questi ragazzi, che ora possono contare anche sull'importante appoggio di una grande etichetta, si può anche sognare, mantenendo però sempre i piedi ben saldi al terreno, perché per emergere di lavoro ne serve ancora parecchio. (Francesco Scarci)

(RNC Music - 2016)
Voto: 75

martedì 18 ottobre 2016

Stormtide - Wrath of an Empire

#PER CHI AMA: Symph Death, Whispered, Tengger Cavalry
L'artwork del debut album degli Stormtide concede largo spazio alla fantasia: montagne incantate, templi e druidi, lasciano presagire ad un che di epico e fantasy che potrebbe tradursi in suoni power metal. Mai ipotesi fu cosi azzardata e soprattutto sbagliata dal sottoscritto. I sei australiani si lanciano infatti in sonorità death sinfoniche che incorporano pesanti elementi orientaleggianti. La title track apre le danze con un sound che in alcuni frangenti mi ha evocato i taiwanesi Chthonic e il loro black folklorico ricco di sonorità della cultura dell'estremo oriente o, per rimanere in Cina, la musica degli Stormtide potrebbe essere assimilabile a quella dei Tengger Cavalry, mentre se guardiamo in Europa, l'accostamento più plausibile sarebbe con i finlandesi Whispered ed il loro "samurai" sound. Fatto sta che gli Stormtide mi piacciono e mi convincono sin dal primo pezzo in cui, complice una ricerca spasmodica di melodie dell'estremo oriente, identificano le tastiere come elemento cardine su cui si vanno poi ad inserire tutti gli altri strumenti, compreso il growling del frontman, Taylor Stirrat. Certo, questo potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio per chi mal sopporta brani stracarichi di orchestrazioni sinfoniche, ma a quel punto meglio lasciar perdere e volgere la propria attenzione altrove. Qui tutto quello che dovete e potete aspettarvi, sono brani stracolmi di melodie che scomodano in un modo o nell'altro altre influenze derivanti dal viking ("As Two Worlds Collide") che chiamano in causa Einherjer e Amon Amarth. I nostri provano a essere un po' più aggressivi con robuste linee di chitarra ("Dawnsinger"), ma inevitabilmente si torna a cavalcare quello che è il genere che identifica gli Stormtide: un melo death aggressivo per ritmiche e vocals, corredato da fiumi di tastiere che guidano l'intero evolversi dei brani. Immaginate dei Children of Bodom in versione più orchestrale, anche se poi in un brano come "Conquer the Straits", i ragazzi di Melbourne hanno il merito di picchiare come fabbri e, sebbene le cinematiche tastiere rispolverino un non so che dei Bal Sagoth, ci ritroviamo fra le mani una traccia ruggente ed incazzata. La durata delle song si assesta quasi ovunque sui 4-5 minuti, permettendo una più facile memorizzazione delle stesse, sempre traboccanti di groove. La cosa che convince è poi un approccio musicale che volge il proprio sguardo all'heavy metal classico piuttosto che agli estremismi sonori di altri esponenti di questo genere. Anomalo il break di basso centrale di "Sage of Stars", che mostra una ricerca di originalità da parte dell'ensemble australiano, in un genere ove è parecchio difficile inventarsi qualcosa di mai sentito. In fatto di liriche, inevitabile che i testi contengano storie di rovina (la ballata folk "Ride to Ruin"), eroismi ("A Heroes Legacy") o gesta malvagie. 'Wrath of an Empire' non può che essere un album epico che trova ancora il tempo di sorprendere con quella che è la mia canzone preferita, "Ascension", non la song più veloce del lotto, ma quella che a suo modo, trova anche punti di contatto con il black metal. Il disco si chiude con un pezzo, "The Green Duck", che invece sembra strizzare l'occhiolino ad un viking/power che, per quanto mi riguarda, non apprezzo più di tanto, ma che comunque non modifica il mio personale giudizio di un disco che, pur non presentando grandi novità, ha comunque il merito di coinvolgerci per oltre 42 minuti di buona musica. (Francesco Scarci)

venerdì 25 dicembre 2015

Attila Bakos - Aranyhajnal

#PER CHI AMA: Progressive/Epic, Nightingale, Bathory
Mi ero già incazzato in occasione del precedente progetto del buon Attila Bakos, i Taranis, per lo scarso interesse mostrato nei confronti di un artista eccellente. Torno ad arrabbiarmi oggi, in occasione della recente uscita dell'album solista del polistrumentista magiaro. Attila esce con il full length d'esordio, 'Aranyhajnal', fuori esclusivamente in digitale, e proprio qui risiede la mia rabbia, la mancanza di un'uscita fisica per un album di questa caratura. Il lavoro contiene otto tracce che si muovono nella scia di un metal progressivo che lascia ampio margine di manovra alla musicalità del mastermind ungherese, che abbiamo visto coinvolto anche in altre band, come Thy Catafalque, i norvegesi Quadrivium e con i Woodland Choir. Come per il progetto Taranis, anche in questo caso Attila sembra ispirarsi a certa musica nordica e penso a Dan Swano, Bathory o agli Arcturus, nomi di una certa rilevanza, la cui spiritualità, magia, passione e una forte emotività, sembrano rivivere nelle song del sempre bravo Attila. La opener "Ősi Szó" evidenzia sin da subito l'elevata componente orchestrale messa in scena, che si miscela con una certa vena malinconica riscontrabile nelle splendide linee melodiche di chitarra, su cui si stagliano le epiche vocals del frontman, sempre in grado di trasmettere suadenti emozioni, grazie alla sua estesa linea vocale (che arriva a toccare il falsetto nella successiva "Életerő"). Una certa rilevanza la giocano anche i synth, abili a tessere splendide ed eteree melodie, duettando con la chitarra, dotata, nella seconda traccia, di una vena più folkish. Se "Lángolj" mi ricorda a livello ritmico qualcosa dei primi Nightingale, "Ármány"sembra rievocare lo spirito di Quorthon e dei suoi Bathory più epici. Non importa poi se Attila canta tutto in rigorosa lingua magiara, la release acquisisce connotati ancor più esotici che la rendono addirittura più interessante. Il disco trova modo anche di lanciarsi nell'iperspazio dello space rock, e non solo perchè l'apertura ambient di "Áldás", le palesi influenze classiche, la dirompente voce di Attila (che qui trova modo anche di sfondare nel growling), i break acustici, certi splendide digressioni etniche, rendono questa lunga traccia di oltre 12 minuti, la mia favorita tra le otto. "Sziklák Szívén" è un altro pezzo dal mood triste, ma di sicuro impatto, che oscilla tra il progressive e un approccio più violento. "Lépj át" sembra nella prima parte una ninna nanna, poi fortunatamente si riprende e dà modo a Bakos di dar sfoggio della sua preparazione tecnica, sciorinando un altro vibrante assolo. Brividi lungo la schiena, che si concludono con la fragranza estiva di "Az éj Rejtekén" che chiude questa nuova interessante opera firmata Attila Bakos. Mi raccomando ora: 'Aranyhajnal' per alcun motivo dovrà passare inosservato. (Francesco Scarci)

lunedì 23 novembre 2015

Foret d'Orient - Venetia

#PER CHI AMA: Black/Death Mediterraneo, Janvs
Venezia: oggi forse la città più famosa al mondo, in passato simbolo di raffinatezza nel XVIII secolo, città assoluta padrona dei mari ai tempi delle Repubbliche Marinare. Oggi Venezia viene celebrata dai Foret d'Orient, figli orgogliosi di quella leggendaria terra di Dogi, abili marinai, grandi artisti e commercianti. 'Venetia' è il titolo appunto del full length di debutto del quartetto di amici che abbiamo già avuto modo di conoscere con il loro EP, 'Essedvm' e anche dal vivo in una intervista radiofonica. I Foret d'Orient tornano con un sound un po' rinnovato rispetto agli esordi. Levatisi di torno l'aura magica che ricordava i Nihili Locus, oggi, con una maggior consapevolezza nei propri mezzi, il quartetto veneto propone sette tracce che probabilmente appariranno di primo acchito, meno ricercate che in passato, ove il sound era ancorato a un black atmosferico a tratti barocco. Ascoltando "A Reitia", la traccia dedicata a una divinità venerata dagli antichi Veneti, ci troviamo di fronte un sound più secco, che potrebbe richiamare gli Janvs o gli Spite Extreme Wing, anche se a differenza delle band di Matteo Barelli, la componente mediterranea qui si conferma assai presente nella matrice musicale dei nostri, grazie alla presenza dell'arpa di Sonia Dainese, che riesce a dare alla musica dell'ensemble veneziano più ampio respiro, grazie alle sue suggestive orchestrazioni. "Dal Mare alla Terra" ha un selvaggio attacco black su cui si stagliano le mastodontiche e cavernose vocals di Roberto Catto che esaltano, ovviamente, la grandezza della Repubblica di San Marco. La ritmica è convulsa, largo spazio viene lasciato al basso di Marco Barolo e al drumming funambolico di Emiliano Rigon. Pregevole l'assolo di Marino De Angeli, che non è invece un membro ufficiale della band, pur avendo suonato tutte le chitarre sul disco. Con "Lepanto", i nostri celebrano la battaglia navale omonima che vide opposte le flotte dell'impero Ottomano a quelle Cristiane (costituite da spagnoli, veneziani, genovesi e forze dello Stato Pontificio). La song è una descrizione, ovviamente in italiano (come tutto il disco d'altro canto), di quelle ore di violenza in cui il Leone di Venezia si distinse per la forza delle sue galee che diedero la vittoria alla coalizione cristiana. La musica sembra seguire la descrizione di quegli eventi in un saliscendi emozionale tra ruggiti di chitarra, arpeggi e delicati tocchi di pianoforte. "Sogno de Vis" è una splendida song che vede la presenza di una forte componente sinfonico barocca al suo interno, ove sembra di essere d'improvviso immersi in suoni del '700 con tanto di spinetta e archi. La traccia narra poi le vicende dell'isola di Lissa, che faceva parte della Repubblica di Venezia ma dopo la Seconda Guerra Mondiale, venne invece inglobata nella Jugoslavia. "Dominio da Mar" è dirompente nella sua serratissima ritmica ammorbidita da delicati tocchi di arpa e da uno splendido break centrale in cui compare come guest vocalist, l'epico e "arcturiano" Luca Grandinetti dei Fearbringer (in realtà presente in 4 tracce su 7). La band si muove qui (e negli altri pezzi) in frequenti cambi ritmici assai tecnici, di cui vorrei sottolineare ancora una volta l'importanza affidata al basso metallico di Marco. Il gran finale è una splendida sorpresa, affidata com'è ad "Adagio in Sol Minore", un pezzo famosissimo del compositore veneziano Tomaso Albinoni (noto per essere stata colonna sonora di film, o la base di in un vecchio brano di Mina, musica per cartoni animati o videogames). Il risultato, qui riarrangiato da Antarktica con le parti di arpa suonate dalla brava Sonia, è semplicemente da applausi, da pelle d'oca. Insomma 'Venetia' è un inno all'immenso patrimonio culturale di Venezia, alle sue tradizioni e al suo popolo che si sente (giustamente) fiero delle proprie origini. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 80

lunedì 26 gennaio 2015

Talvienkeli - Blooming

#PER CHI AMA: Symphonic Metal, Nightwish 
Ma che sorpresa! Ho tra le mani l'EP di debutto dei Talvienkeli, lo inserisco nel lettore, chiudo gli occhi e inizio a sentire le prime note. La prima cosa che spazia nei miei pensieri è l'avvertire quell'aria finlandese che evocano le sue note, come nelle canzoni dei Nightwish. Apro il booklet e i nomi sono francesi: è questa la cosa inaspettata, una band Lionese che richiama le atmosfere magiche proprie della Finlandia. 'Blooming' è il primo lavoro di un ensemble nato solamente nel 2012, ma che racchiude tutta la grazia e la spigolosità di cui si veste il symphonic progressive metal. L'EP si apre con "Tormented" dall'inizio soave e magico, che riesce a catapultarmi in un'altra dimensione di note metal, scoccate da tastiera e batteria. Le voci si alternano come nel cartone la "Bella e la Bestia", con la parte femminile mezzo soprano e la parte maschile baritono mescolato al growl. Non a caso, la parte soprano è accompagnata dalle note di pianoforte, mentre la parte più estrema è accompagnata dalla batteria, più ruvida e selvaggia. Si nota subito quanto questa composizione sia adattata anche all'orchestra (di cui parlerò più avanti): parti leggiadre composte da archi e organo si alternano infatti a parti più oscure e minacciose composte da chitarre e batteria, alternandosi spesso e contrapponendosi come il bene verso il male. La parte finale accentua il senso di angoscia fino a trasformarsi in totale liberazione con un grido aggraziato. Qualcosa di diverso accade in "Giant" che ammicca carica e furiosa, riuscendo a sottolineare l’avvenenza della voce di Camille Borrelly, accompagnata da quella riservata di Sandre Corneloup, mantenuta un poco più in ombra. Sullo sfondo, mentre la chitarra ripete un riff molto energico che va a fondersi con la batteria, le tastiere costituiscono la matrice sonora dei nostri. Lasciate pure andare la ragione, perché è impossibile non seguirne il ritmo incalzante. Prima citavo i Nightwish: la traccia tributo al loro sound è "The Tricked and the Trickster" dove le tastiere sono preponderanti, gli acuti e le parti growl si mescolano alla perfezione e nella parte finale, la voce di Camille sembra quasi il grido d'aiuto di una fanciulla imprigionata, sentita solo dal suo galante carceriere demoniaco. "Crossfade" è l'ultima traccia che riporta in modo velato il leitmotiv appena passato, rallentandone l'andatura e concedendo più spazio alla ritmica. In questo pezzo si possono sentire le due voci all'unisono, che diventano così una unica e completa. Il ritornello principale (Why can't you see your life sounds empty? Wake up, wake up, wake up and live... now it's time), infonde una bella carica adrenalinica. L'EP si chiude con la versione orchestrale di "Tormented" ed è la chiusura di un cerchio perfetto fatto di occhi chiusi e della miriade di sensazioni di cui solo la musica è capace di dare. Consiglio più ascolti per cogliere la bellezza e le molteplici sfumature che 'Blooming' ha da offrire. Potrei scrivere intere pagine su tutte le impressioni che ho avuto ascoltando questo disco, ma mi fermo qui e chiudo semplicemente con un "Parbleu! Magnifique!". (Samantha Pigozzo)

(Self - 2014) 
Voto: 85 

lunedì 25 marzo 2013

Öxxö Xööx - Rëvëürt

#PER CHI AMA: Death Sinfonico, Progressive, Misanthrope, Devin Townsend
Questo è un album eccellente. Fine. Spero di essere stato abbastanza chiaro e diretto, e auspico che voi abbiate colto fin da subito il mio più schietto suggerimento. Gli Öxxö Xööx sono una band, un trio (o forse un duo, ma probabilmente lo potrei anche considerare come un progetto solista, ma ancora non mi è chiaro), formato da Laurent Lunoir, che si occupa un po' di tutto (voce, strumenti, visuals), Laure Le prunenec, responsabile delle backing vocals, del piano e delle chitarre in sede live; infine Igorrr, che segue il programming. "Rëvëürt" rappresenta il debut cd di questa schizoide ed imprevedibile band transalpina, che non fa altro che confermare lo stato di grazia di cui, da alcuni anni, il paese dei nostri cugini, gode. Vi domanderete a questo punto perché tutto questo entusiasmo da parte mia: fondamentalmente perché la musica contenuta in "Rëvëürt" (che sta per "rivolta del cuore") è fresca, originale ma soprattutto vibrante: "Agorth" apre le danze con il suo incedere sintetico (complice un’esplosiva drum machine), oscuro, sinfonico ed epico, senza dimenticarci anche le parole avanguardistico, cibernetico, progressivo e sperimentale. Insomma provate ad immaginare una sorta di ipotetico ibrido tra Misanthrope, Fear Factory e Devin Townsend, che ne dite, potrebbe interessarvi? A me parecchio. Il lavoro del combo transalpino coglie subito nel segno e se non fosse per quell'eccessivo, quasi esagerato (e penalizzante alla fine) uso del sintetico battito, forse staremo parlando di un vero e proprio capolavoro, che al popolo metallaro è quasi passato del tutto inosservato. Quindi a me l'onore di dar valore a una band di ottimi musicisti, che ispirandosi alla delirante follia del genietto canadese di cui sopra, rilascia queste nove splendide tracce, in cui si amalgamo alla perfezione tutti quegli aggettivi citati qualche riga più in su, aggiungendo poi per ciascuna delle tracce, altre splendide etichette: "Terea" è una song dal forte sapore barocco, dove ampio uso è lasciato al piano e alla vena orchestrale, con le vocals del bravo Laurent, raramente a scadere nel trito e ritrito growling, ma anzi assumono toni dark-operistici, mescolandosi alla perfezione con l'incedere esplosivo dei suoi suoni. Gli Öxxö Xööx pare stiano narrando storie di scandali alla corte francese nel 1600,con le atmosfere che si caricano di dense nubi oscure. "Ama" nel suo criptico avanzare, assume un’intensità che si avvicina a quella dei nostrani Ecnephias (anche a livello delle vocals), con un sound velato di quello spirito gotico che tanto piace a Mancan e soci. L'opera, perché alla fine di opera si tratta, mette in scena i quasi tredici tragici minuti di "Ctenophora": song avvolta da un feeling oscuro e malinconico che palesa anche le influenze doom dell’ensemble francese. Non aspettatevi una conclamata omogeneità di fondo nella musica dei nostri; anche qui si parte spesso in un modo e poi nel corso della riproduzione, il tutto evolve, dirigendosi verso il teatro dell'assurdo, verso i suoni dell'assurdo, verso l'assurdo... la musica che esce dalle casse del mio stereo somiglia in realtà a quella di una spinetta rinascimentale, inserita ovviamente in un moderno contesto d'avanguardia che trasuda drammaticità ed epicità da ogni suo poro e che alla fine denota una spiccata personalità di questi individui che non hanno nulla da perdere... Non so se quello degli Öxxö Xööx sia metal o musica sinfonica, sicuramente la violenza del drumming o la rabbia infusa dal cantato potrebbero indurmi a catalogarla come tale, ma il feeling che si respira, quello che mi cattura e alla fine quanto mi rimane nelle orecchie e nella testa è in realtà la musica che mi sarei aspettato di udire da musicisti di corte se fossi vissuto 4-500 anni fa. Peccato solo che all’epoca, la drum machine fosse solo delirante immaginazione. Spettacolo. (Francesco Scarci)


(Apathia Records)

giovedì 14 giugno 2012

Aquilus - Griseus

#PER CHI AMA: Black Orchestrale, Progressive, Colonne Sonore, Opeth, Morricone
Ne Obliviscaris, Germ, Woods of Desolation ed ora quest’ultimi Aquilus… potremo quasi parlare di New wave of Australian metal, una schiera di band che hanno ricevuto la pesante eredità degli ormai disciolti e fenomenali Alchemist e che portano avanti un discorso di metal assai sofisticato a 360°. Aquilus quindi nelle pagine del Pozzo a soverchiare ogni amante della musica metal, con la loro lunghissima proposta di metal emozionale, che strizza l’occhio al progressive sound degli Opeth, all’ambient di Burzum, alle colonne sonore di Ennio Morricone, senza dimenticare la musica classica dei grandi maestri dell’800. Ragazzi, Aquilus è un progetto che per la sua complessità e per i suoi significati intrinseci, non farà altro che lasciarvi a bocca aperta per le sfumature musicali in grado di emanare, e mi dà enorme gioia vedere come un’altra attenta etichetta italiana abbia potuto fare centro in un modo cosi eclatante. Bravi i ragazzi dell’ATMF Production ad aver assoldato questa one man band che risponde in realtà a Mr. Horace Rosenqvist, uomo dotato di una personalità fuori dal comune, capace di concepire una simile opera d’arte che solo con la prima eccezionale song, “Nihil”, mostra le immense doti a propria disposizione, miscelando un inizio che si barcamena tra sonorità sinfoniche e qualcosa di più estremo, prima di abbandonarsi ad una lunga epica e sontuosa parte orchestrale, da lasciare senza fiato. Sono strabiliato dalla proposta del mastermind australiano, ma la strada per giungere al termine di questa release è lunga e lastricata di splendide sorprese. Ed è cosi che si apre “Loss”, altro brano che fa delle atmosfere sognanti, il suo punto di forza, prima di cedere il passo a parti black sinfoniche, con gracchianti growling vocals, sorrette da ariose e sinuosi parti ambientali, costituite da pianoforte ed eleganti arpeggi. Un po’ più dei Dimmu Borgir più orchestrali, molto vicini alle colonne sonore dei grandi maestri del passato e del presente, più oscuri di entità estrema quali Emperor o Limbonic Art, più strazianti dei gods del death doom, quali My Dying Bride o Saturnus, gli Aquilus sbaragliano in ogni modo la concorrenza, sfoderando una prova a dir poco magistrale, fatta di suadenti melodie, ritmi da brivido, emozioni che a poco a poco scalano i miei sensi fino a raggiungere un’orgasmica vetta, che credevo fino ad oggi irraggiungibile. La successiva “Smokefall” ha tutti gli elementi per evocare il sound degli Opeth e forse nel primo minuto e mezzo, è anche quella che mi convince meno, ma niente paura perché il nostro amico Horace poi, al solito, parte per la tangente e troverà il modo di disorientarci con le sue trovate a dir poco originali. E cosi lentamente si prosegue nell’ascolto di questo lavoro assai camaleontico, che ha il pregio di evolvere brano dopo brano, scaldarmi il cuore, riempirmi di gioia, ma anche tanta malinconia come la struggente “In Lands of Ashes”. Meraviglioso. In Australia deve esserci gran fermento nell’ultimo periodo perché insieme alla Francia rappresenta la nazione che sta sfornando il maggior numero di band interessanti. Con “Latent Thistle” capisco che l’amico “aussie” si trova a proprio agio anche in frangenti più propriamente death metal; certo non pensate di trovarvi chissà che cosa in mano di estremo, tanto è sfuggevole la proposta del bravo Horace, che sguscia come un’anguilla nelle nostre mani, tanto l’eclettismo palesato anche in quest’altra song, come anche nelle successive che via via si susseguono nel corso di un lavoro che stupirà non poco gli addetti ai lavori, ma che mi sento in obbligo di suggerire a tutti gli amanti di sonorità metal, black, prog, death, neo-folk, classic, heavy, thrash, gothic, post o dark che siano… tanto tutto convoglia dentro a questo fantasmagorico lavoro che equiparo senza alcun timore, per classe, idee, originalità e mille altre sfaccettature, all’album d’esordio dei connazionali Ne Obliviscaris. Australia, ultima frontiera per il metal, la fermata è obbligatoria! (Francesco Scarci)

(ATMF)
Voto: 90
 

giovedì 3 maggio 2012

Germ - Wish

#PER CHI AMA: Black, Space Rock, Elettronica, Ewigkeit
Disorientato. Ecco l'effetto infertomi dal primo ascolto del debut album di questa one man band australiana che risponde al nome di Germ, che combina grandi aperture melodiche, con rare ma feroci sfuriate post black, fino a divagazioni dal flavour rock psichedelico. Apertura affidata a “An Overdose on Cosmic Galaxy”, che propone un qualcosa di simile da quanto fatto recentemente dagli svedesi AtomA (ex Slumber), con un sound etereo, arioso, easy listening e forse un po’ ruffiano, rovinato solamente da delle clean vocals fastidiose di Tim Yatras (già in Austere, Nazxul e session dei Woods of Desolation). Ma ecco che a scombinare e disorientarmi del tutto, ci pensa lo screaming efferato del mastermind, che seppur su un tappeto cibernetico assai possente, mi fa piombare nei miei incubi più spaventosi. La seconda traccia continua la sua opera di stordimento: base affidata ad una specie di space rock (ricordate gli Ewigkeit) però con le urla brutali a farsi portavoce della rabbia contenuta nell’animo tempestoso di Tim, che si alternano con un cantato pulito, finalmente all’altezza. L’elemento portante di tutte le song è sicuramente l’elettronica, la cui influenza è da indirizzare al grande Jean Michele Jarre, il che rende la proposta del nostro artista, veramente bizzarra e inedita. Non fosse per alcune galoppate epiche, di sporadici ma veementi stacchi black e delle già menzionate strazianti performance vocali, probabilmente saremo qui a parlare di un qualcosa che ha più connessioni con il rock, piuttosto che con l’ambito estremo. E proprio in questo risiede la forza di questo lavoro, che nella quarta “Breathe in the Sulphur/A Light Meteor Shower” vede il suo apice artistico compositivo, con orchestrazioni da brivido che si stagliano su una base lugubre come se il giorno fosse portato a notte, da un’inquietante eclissi solare, assoluto presagio di morte. Splendida. Seppur alcuni possano storcere il naso per una ridondante ripetizione nelle ritmiche, poco importa, c’è da divertirsi comunque nell’ascolto di questa avvincente opera; sono le ambientazioni depressive, le elucubranti percussioni psichedeliche, la fusione di generi cosi estranei tra loro, a rendere “Wish” il mio più chiaro desiderio di questa primavera. Si prosegue con la follia EBM di “Gravity”, prima che l’aussie man si lanci nuovamente alla carica con una serie di song che, lasciatemelo dire, di metal hanno ben poco. “Flower Bloom and Flower Fall, but I’m Still Wait” si sorregge sull’onnipresente base orchestrale, mettendo in mostra uno splendido assolo, “Infinity” funge da intermezzo allucinogeno prima del feroce attacco finale inferto da “Your Smile Mirrors the Sun”. Insomma un altro signor album che arriva dall’Australia, in attesa di venire catapultati nei fantastici universi di Ne Obliviscaris e Aquilus. Australia, fucina di talenti infinita! (Francesco Scarci)

(Eisenwald)
Voto: 85

sabato 23 ottobre 2010

Amphitryon - Drama

#PER CHI AMA: Death Orchestrale
Chiudo gli occhi e con "Archéia" eccomi calato nella massonica atmosfera di questo "Drama", vero e proprio cammino iniziatico in quindici gradi proposto dagli Amphitryon. Entro solo nel mio gabinetto di riflessione e perseguo, privo di ogni affidamento dogmatico, la mia rinascita. Avverto, nell’aria, l’odore dello zolfo, del sale. Melodie oscure e misteriche che riescono a solleticare, incuriosire e perché no, sorprendere l’ascoltatore. Avremo ben sei guide o, per tenerci al passo coi tempi, sei avatar ad accompagnarci in questo nostro onirico viaggio sonoro: gli Amphitryon, appunto, band francese di Boulogne-sur-Mer attiva dal non troppo lontano ’96. Anfitrione è il nome del mitologico personaggio greco col quale i nostri amici hanno deciso di battezzarsi. La leggenda lo vuole figlio di Alceo, re di Trezene e nipote di Perseo, eroe che sfidò Medusa. Ma di che sostanza stiamo parlando? Di cosa sono fatte queste canzoni? Dal punto di vista canoro assistiamo ad un Galileiano dialogo dei massimi sistemi: voce growl maschile da una parte a contrapporsi con due voci femminili, pulite, a volte sussurrate, dall’altra. Personalmente interpreto queste ultime come un tentativo di riportare in vita l’ormai dimenticato mito delle vestali, vergini che sanno ben gestire quel fuoco sacro sprigionato da canzoni come “Pantheon”, ad esempio, dal retrogusto “Carmino Buranico”: concedetemi questa licenza poetica. La traccia successiva, “Paths of Dementia” è a mio parere il pezzo forte del disco, mette in luce le perfette armonie tra chitarre dal riff distorto tanto amato dai metaller e controtempi di batteria. Il disco si chiude con Samsara, pezzo dalle curiose sperimentazioni canore che prevedono anche una seppur breve incursione in stile “tibetano”. Ascoltare per credere. “Drama” comprende, oltre al CD, anche un DVD che ripropone le stesse tracce presenti sul CD. Da notare, però, che in questo caso la durata del video è di circa cinque minuti più lunga rispetto la versione audio. Questi minuti aggiuntivi sono stati utilizzati per prolungare (a mio parere appesantendoli) l’intro e l’outro del concerto. Sul DVD sono inoltre presenti interessanti contenuti tra cui le biografie di tutti i componenti del gruppo. L’impressione finale che questo disco mi ha lasciato è quindi quella di un lavoro ben congegnato, sicuramente originale, che merita di essere ascoltato. (Rudi Remelli)

(Manitou Music)
Voto: 75