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giovedì 17 marzo 2011

Helllight - …And then, the Light of Consciousness Became Hell…


Se fino ad oggi avete sempre associato il Brasile al gioco del calcio, belle donne, spiagge assolate o nel mondo della musica ai Sepultura o ai Sarcofago, beh da oggi, sappiate che le tenebre degli Hellligth caleranno sulla vostra testa, oscurando il sole nel cielo. Da San Paolo ecco giungere nuvole cariche di pioggia che diffonderanno la pestilenza infernale voluta da questo cupo duo. Beh se questa mia breve introduzione non vi è sembrata abbastanza chiara, stiamo parlando di un combo, giunto già al traguardo del terzo lavoro, dedito ad un funeral doom che lascia ben poco spazio a squarci di luce. E lo si capisce immediatamente con il titolo della opening track, “The Light that Brought Darkness”, della serie “Lasciate ogni speranza voi che entrate” e a ragione perché si viene immediatamente avvolti da un senso di assenza totale di ossigeno, quasi a perdere i sensi, storditi da cotanta desolazione. Sapete che cos’è la cosa meravigliosa di tutto questo fiume di tristezza che ci travolge fin da subito? Che è a dir poco incantevole, sbalorditivo per intensità, stupefacente per il suo essere cosi inatteso e imprevedibile. La russa Solitude Productions questa volta ha pescato bene dall’altra parte del mondo con una band dalla classe cristallina che conquisterà dapprima i fanatici di un genere, il funeral doom, e poi potrà a mio avviso aprire le menti di chi è cosi prevenuto nei confronti di una tipologia di sound che, all’opposta di quanto si possa credere, è in grado di regalare esaltanti momenti di musica e gli Helllight ne sono la palese dimostrazione, con un album che per quanto possa sembrare inavvicinabile, (se pensiamo ad esempio solo alle lunghissime durate dei pezzi sempre attestati sopra i 12 minuti), riesce a sorprenderci ad ogni passo. Dopo l’eccellente traccia posta in apertura, capace di regalarci con gli ultimi 5 minuti attimi di solennità profonda, con la seconda “Downfall of the Rain” ci immergiamo in sonorità grevi che trovano il loro maggior slancio nell’inserto pianistico posto a metà pezzo. Pesante e opprimente, il duo carioca lavora ai nostri fianchi con un suono al limite della legalità, fatto di chitarre possenti e ultra slow a verniciare alte montagne innevate, riff sorretti poi da un encomiabile lavoro ai synth di Fabio De Paula (sembra il nome di un giocatore di calcio del Chievo) e da un growling vigoroso che talvolta ci regala attimi di pace con un cantato pulito che mi ha rievocato il buon Alan Nemtheanga, nella sua apparizione nei nostrani Void of Silence. Menzione ulteriore ci tengo a farla per alcuni squarci chitarristici di notevole spessore e di scuola classica, che palesano anche una certa preparazione tecnica dell’act sudamericano. Citazione finale per “Children of Doom”, la mia song preferita, che probabilmente mostra il lato più “etereo” (passatemi il termine) dei nostri, ma che comunque sancisce la mia adorazione per una band di cui non ne conoscevo l’esistenze fino a ieri. Peccato infine per una pessima copertina che con la musica dei nostri ha ben poco da spartire. Comunque sublimi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80