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domenica 14 settembre 2014

Structural Disorder - The Edge of Sanity

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Opeth, Dream Theater
Gli Structural Disorder sono una band progressive metal di Stoccolma, formatasi nel 2011. Dopo l'esperienza del primo EP, 'A Prelude to Insanity' (2012), offrono il loro primo full-lenght, 'The Edge of Sanity'. Un intro di sussurri e percezioni sonore scaglia direttamente l'ascoltatore a ricevere un pugno nello stomaco da "Rebirth", brano che lascia il segno per la sua immediatezza non priva di struttura. Scariche a blocchi dai ritmi irregolari si fondono alle striature progressive dalla tastiera di Jóhannes West, creando un connubio che sta a metà strada tra band come Meshuggah e Dream Theater. La voce di Markus Tälth passa dalle vocals pulite a un growl gutturale in un'alternanza tra i due stili che rimanda al frontman dei connazionali Opeth. Alla fine del cantato un lungo strumentale fa conoscere subito l'altra faccia più melodica e progressiva di questa band. E' ora la fisarmonica ad accompagnarci nel terzo brano "Peace of Mind", assieme alla voce pulita del vocalist. Questo duetto che rimanda a una vera e propria ballad spiazza positivamente, soprattutto per la collocazione del brano, ma a poca distanza dall'entrata di un'acustica ecco presentarsi a noi un pezzo bipartito, la cui seconda sezione è introdotta dalle tastiere che continuano anche successivamente all'entrata di tutti gli altri strumenti un giro ipnotico. Davvero dolci e intime le lyrics per un pezzo che trascende la classica semi-ballad metal, incontrando un genere quasi pop/rock. Il pezzo successivo, "The Longing and the Chokehold", dopo la perla minimalista precedente, è quasi come il risveglio da un sogno. Un riff rombante e aggressivo e una ritmica incalzante permettono appena di abituarsi al viaggio che sta per iniziare, per uno dei pezzi più significativi del cd. Nelle lyrics è il puro male a serpeggiare nella mente e a far tremare le membra, in una crisi psico-fisica interpretata da una linea strumentale potente e statuaria, impreziosita da molti stacchi e cambi d'atmosfera e da vocals altrettanto multiformi. Fantastico lo stacco di tastiere dopo il trillo alle chitarre a metà brano. Il finale, che è quasi una parata a ritmi cadenzati incessanti, rimanda a capisaldi death quali 'Deliverance' degli Opeth. "Funeral Bells" si dimostra un pezzo altrettanto aggressivo del precedente, ma le vocals, molto meno asservite alla musica, interpretano il testo in modo maggiormente espressivo. Alcune parti, come l'inizio, risultano quasi avantgarde e le altre, molto dirette e ruvide, strizzano l'occhio al thrash. Adrenalinica la parte finale, dal rombante tappeto di doppia cassa e la prolungata cesura vocale growl. E' il momento del primo strumentale dell'album. "Sleep on Aripripazol", nome curioso, derivante dal farmaco con il quale si curano schizofrenia e disturbo bipolare, quanto mai azzeccato visto che la band svedese presenta proprio due facce distinte nella sua musica: una dolce e l'altra aggressiva. Ed ecco un pezzo introdotto da un cadenzante ritmo di valzer in tempo ternario, in cui la fisarmonica (vero tocco di classe della band) fa da protagonista, assieme a scale cromatiche discendenti, arpeggi di tastiera e una base solida e dall'incedere pesante degli strumenti ritmici. Un intrigante stacco di basso di Erik Arkö e divagazioni melodiche di ogni sorta, accompagnano l'ascoltatore per un brano chiaramente e volutamente ipnotico. Chitarre in delay introducono "Corpse Candles", poi blocchi e poi ancora un cantato dolce ma intrigante e sofferto, mai sentito precedentemente nel cd. Parti in growl impreziosiscono momenti taglienti in un brano altrimenti più leggero nelle vocals, ma non certo nelle lyrics, che toccano riferimenti all'inferno dantesco. Di nuovo ritornano chitarre in delay e poi un calmo tema di fisarmonica con un basso davvero in rilievo e dal caldo suono, sulla base creata dalla batteria, poi un alternarsi di parti solistiche distribuite tra chitarra clean, basso e fisarmonica. Davvero meraviglioso l'assolo di chitarra conclusivo sulla potente base creata da batteria, basso e chitarra ritmica. Un brano davvero particolare e inaspettato che si affianca per importanza al quarto di quest'opera e forse lo supera. Subito l'inizio di "Child in the Ocean" riporta, prepotenti, le grigie e melanconiche immagini di 'Damnation' (Opeth). Ma poi l'associazione viene subito contraddetta da una sezione rabbiosa, crossover, quasi gridata dal vocalist verso la fine, e poi un altro cambio d'atmosfera, chitarre acustiche e cori dalle venature quasi pop/rock, e di nuovo le atmosfere iniziali, senza un attimo per abituarvisi. Un pezzo coraggioso, dato che può fare impazzire un'amante della varietà (come il sottoscritto), come far ubriacare e spiazzare chi non ama particolarmente le contaminazioni. "Sins Like Scarlet"...quando l'ascoltatore pensa di aver già ascoltato tutto ecco che viene stupito ancora da questo breve intermezzo sonoro parlato. Vengono ripresi temi e parti di testo già sentite precedentemente ma in veste nuova e distorta. Con inquietanti ambientazioni sonore e una recitazione da parte del vocalist che ricorda addirittura le stravaganze surreali di Mr.Doctor, vocalist e fondatore della band italo-slovena Devil Doll. Introdotto da una sezione strumentale, "The Fallen" si presenta con un materiale concettualmente simile a "Rebirth" ma una struttura più scorrevole, libera e dai contorni meno netti e di più d'ampio respiro. Un tema in delay di chitarra che viene poi ripreso da tutto l'insieme strumentale. Un assolo di chitarra ben confezionato precede uno stacco e una sezione sussurrata atmosferica minacciata da basso, scariche di chitarra ritmica e un ritmo cupo di batteria che continua fino al ritorno della parte iniziale a chiudere la struttura tripartita. Ora un secondo strumentale affascina le nostre orecchie. Una stupenda chitarra elettrica solista dipinge "But a Painting", un quadro fatto di suoni. Un momento breve ma intenso che riporta alla mente le evocative immagini create da Brian May nell'indimenticabile "Bijou, Queen" e incorona con un'aura di rispetto questa magnifica prestazione chitarristica. "Pale Dresses Masses", penultima traccia, con il suo incipit di delicate note stoppate alla chitarra clean accompagna in un'atmosfera completamente diversa, quasi prog rock e nel suo liricismo offre vedute di più ampio respiro. Le lyrics si fanno più distese, forse perché una mente tormentata ha finalmente trovato pace in ricordi belli e lontani che vivono di nuovo. La title track chiude quest'opera molto vicina a un masterpiece. E' un sunto di tutto ciò che è questa poliedrica band, rappresentandone il punto d'arrivo e la risoluzione del concept, la cui musica verso la fine è cambiata fino a toccare generi molto lontani da quelli proposti inizialmente. Nella parte iniziale dominano cori e ritmi distesi, fino a raggiungere uno stacco improvviso e tornare alla band che ha aperto il cd. Ancora un cambio d'atmosfera con l'improvvisa entrata di una chitarra acustica, la fisarmonica e poi un coro polifonico. Poi un ritorno al tema principale e un nuovo stacco con chitarra clean a note stoppate con delay, prima della parte conclusiva che chiude definitivamente quest'album di ben 70 minuti. Come una vera e propria suite, questo imponente pezzo si presenta come il più lungo del cd e dell'opera il più significativo. Possedere questo lavoro significa aver tra le mani un potenziale compositivo e discografico enorme, specie se considerata la giovane età dell'ensemble. La varietà del lavoro è davvero un punto di forza e denota una maturità a una voglia di sperimentare notevoli. Anche le capacità tecniche dei musicisti, come la batteria del non ancora citato Kalle Björk o la chitarra e piano di Hjalmar Birgersson, sono molto al di sopra della media, che pure, tra le band scandinave, è molto alta. L'unico margine di miglioramento, oltre che nella creazione di un sound il più personale possibile, sta nel songwriting, che spesso risulta un po' oscuro nei concetti e dispersivo nell'espressione, appunto doveroso, semplicemente mirato al miglioramento di una già ottima band. Molto semplice e d'impatto nella sua modernità l'artwork di Anton Näslund e Joel Sjömark, professionale il lavoro di mixaggio e produzione a cura di Scott Crocker. Una band che sicuramente merita di stare nella collezione di ogni appassionato di progressive nel senso più ampio e positivo del termine. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 85

giovedì 11 settembre 2014

Clawerfield - Engines Of Creation

#PER CHI AMA: Cyber Industrial, Djent, Tesseract, Meshuggah
La scena svizzera sta crescendo veramente tanto con band interessanti che si affiancano ai vecchi classici, Samael, Eluveitie o Coroner. Sto parlando di act quali Abraham, Fate Control, Voice of Ruin e per ultimi, questi Clawerfield di Thun. Sonorità fresche e cariche di groove arrivano dalla piccola cittadina svizzera. Un concentrato di suoni cibernetici che si coniugano alla perfezione col djent dei grandi act mondiali. Dopo l'intro "Nautilus", che comunque anticipa le sonorità del quartetto elvetico, ecco l'attacco di "Emotion Zero": bei riffoni a dettare i tempi, ottime keys che disegnano atmosfere tra il cyber, l'industrial e lo space metal, e le vocals di Adrian Wasser che si muovono tra un fantastico growling, il clean e l'effettato elettronico. Meshuggah, Scar Symmetry e Tesseract, l'influenza di queste band converge nel sound, assai notevole, dei Clawerfield. C'è chi parla di modern metal, chi semplicemente di djent, a me piace pensare che questi ragazzi, al secondo album, abbiano centrato in pieno il loro obiettivo, in qualunque modo vogliate definire il loro genere. 'Engines of Creation' è un lavoro ammiccante che saprà catturarvi con le sue melodie ruffiane, con la grinta di chi vuole riuscire nel proprio intento e sa che ce la può fare. "Halo" ne è la dimostrazione palese: song mid-tempo che coniuga il rifferama aggressivo nord europeo con bei chorus, melodie catchy e qualche frangente synth pop. Preoccupati del risultato finale? Niente paura perché il quartetto spacca anche se a risuonare nel mio stereo c'è la traccia più paracula dell'album, "Drop RMX - Redemption (Drop RMX)", song orientata sul versante elettro industrial EBM. Con la title track si torna a ritmiche serrate, stop'n go e harsh vocals. L'animo dei Meshuggah prende nuovamente possesso dei nostri anche se non tardano ad arrivare i coretti, le voci pulite e le tastiere (e un ottimo assolo) a mitigare il temperamento ribelle della band del canton Berna. A chiudere l'elegante digipack, ecco la feroce "Symbiosis" che martella che è un piacere, mostrandosi alla fine come la song più abrasiva dell'album, dal carattere più forte e compatto, che non si nega comunque al versante più melodico dei nostri e in cui maggiormente entrano in gioco le influenze dei Tesseract, soprattutto a livello di atmosfere. 'Engines of Creation' si rivela un gran bel disco che potrà conquistare non solo gli amanti di queste sonorità dall'animo futurista. I Clawerfield alla fine sono proprio una piacevole scoperta di quest'ultimo scorcio d'estate, non c'è che dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 75 

Numbers - Three

#PER CHI AMA: Progressive, Metalcore, Post-metal, Periphery, Protest The Hero
Si chiama 'Three', ma questo lavoro dei Numbers (da Seattle) è in realtà il loro vero debutto come full-lenght, dopo due EP. Carne al fuoco ce n’è parecchia, fornita soprattutto da voci e tastiere, suonate entrambe dal frontman Kyle Bishop. La voce passa dagli harsh vocals (gestiti in modo per nulla banale) del metalcore ad interessanti costruzioni melodiche – timbro pulitissimo, fantasia, melodie catchy quanto basta, ottima tecnica soprattutto nel registro più alto. Le tastiere (onnipresenti nei brani e in quasi tutti gli intro e gli outro) insistono particolarmente su costruzioni di pianoforte e strings, limitando gli inserti industrial, di synth e drums elettroniche a pochissimi episodi. Il risultato è particolarissimo: un pianoforte che arpeggia su riff appena spruzzati di math e sfuriate di doppia cassa, dona un colore completamente diverso al brano. Non pensate quindi ad un clone di Fear Factory e Pitchshifter: l’atmosfera generale è tutt’altro che cupa e oppressiva, e le scelte stilistiche sono decisamente più orientate alla melodia prog e al postcore moderno che al metal pesante. I tredici brani passano velocemente, rivelando l’intensa personalità del quartetto di Seattle e l’omogeneità del loro stile pur nel mash-up di generi. Si passa da pezzi più melodici (“Thruth Bender”, “Recreate”) con ritornelli indovinatissimi a violenti episodi metalcore (“Sicken”, “Shortly Broken”), senza mai perdere il filo. Capolavoro assoluto resta “Undertow”: oltre 11 minuti di brano in cui i Numbers lasciano il giusto spazio a ciascuno degli strumentisti, costruendo un’architettura sonora a cavallo tra ambient, prog, jazz e metal, che lascia senza fiato dal primo all’ultimo minuto. Il disco chiude con un altro piccolo gioiello, “Ghost in the Room” – penalizzata forse dalla posizione nella tracklist – in costante tensione tra Protest The Hero, elettronica e con un inserto jazz da antologia. Batteria, basso e chitarra svolgono un buon lavoro, intendiamoci, pur senza nulla di particolarmente originale. Ma senza tutta questa tastiera “classica” – che darà senz’altro fastidio ai puristi del metal – e le incredibili capacità vocali e melodiche di Bishop, temo che i Numbers sarebbero solo un gruppo come tanti altri. Bravi e originali. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 75

Ushas - Verso Est

#PER CHI AMA: Classic Rock, Deep Purple, Led Zeppelin
Questo cd sembra essere arrivato dal passato, direttamente dal cruscotto di una Delorean munito di flusso canalizzatore che va a whisky e sigarette. Dico questo perché 'Verso Est' è un concentrato di hard rock inglese vecchia scuola, senza tanti fronzoli a livello di post-produzione, ma basato esclusivamente su chitarre, ritmica e voce che sale senza timore. A questo bisogna aggiungere del sano rispetto per la cultura orientale, come il titolo dell'album suggerisce e tanti anni passati tra fumosi locali con gentili donzelle che danzano sui tavoli e bicilindrici che rombano nel parcheggio. Il quartetto romano ripercorre il meglio dei Deep Purple e Frank Zappa, cantando in italiano e stando ben lontani da stilismi moderni. I suoni sono molto classic rock, come si può capire già dalla prima traccia "Fuorilegge" che scorre veloce con bei riff di chitarra e il cantato che domina ovunque. La voce è matura, ma raggiunge tonalità alte e si diverte a giocare con arrangiamenti in continua metamorfosi. Anche l'assolo conferma le doti tecniche del chitarrista e la sezione ritmica corre a perdi fiato, sostenendo il gioco. Intro e outro con un bel rombo di bicilindrico, a conferma del legame che unisce la band e il mondo delle due ruote. "Io Non Sono Qui" ci va giù pesante con una batteria lineare, ma che batte a più non posso e chitarre a profusione per un altro brano classico negli schemi e nello sviluppo. I cori arricchiscono un testo leggermente ripetitivo, ma dopotutto non bisogna sempre infarcire le canzoni con tematiche filosofiche. "La Via della Seta" è una ballad che ripercorre un ipotetico viaggio da occidente fino alla Cina, cullando l'ascoltatore con suoni delicati e riff ricchi. Un'altra bella prova che mette in luce le doti poliedriche dei nostri quattro musicisti capaci di mettersi in gioco anche con brani meno energetici, ma comunque godibili. "Maledetta Notte" torna a scuotere i nostri timpani con riff distorti che viaggiano a fil di rasoio con batteria e basso, mentre la voce vibra e urla furente per tutti i tre minuti abbondanti della traccia. Breve break centrale che permette all'ensemble di riprendere la struttura iniziale e chiudere dopo poco. Indubbiamente una band che potrebbe insegnare molto a livello tecnico e sonoro, anche se non si sposta molto da quei gruppi che hanno fatto la storia del rock anni '70. Brani ben suonati e allo stesso semplici, senza pretese e desiderio di lanciarsi in qualcosa di nuovo seguendo le mode del momento. (Michele Montanari)

(Agoge Records - 2013)
Voto: 70

Mindwarp – Mindwarp EP

#PER CHI AMA: Heavy Psych strumentale, Tool
Dopo quello, ottimo, dei Manthra Dei, l’italianissima Acid Cosmonaut Records dà alle stampe anche il debutto dei Mindwarp, confermandosi una delle realtà piú attente alle sonorità heavy psych della penisola e non solo, dato che le sue release stanno trovando ottimi riscontri anche fuori dei confini nazionali. I Mindwarp sono un trio (la formazione è quella classicissima chitarra-basso-batteria) di Brindisi, nato dalle ceneri dei Southern Cult, dedito ad un ispirato rock strumentale con fortissime componenti psych, che guarda sí ai classici del passato ma con i piedi sempre ben piantati in una contemporaneità che rende questo loro EP molto godibile e attuale. Pur penalizzate da una produzione non certo impeccabile, queste quattro tracce (per poco piú di venti minuti) si fanno apprezzare per compattezza, personalità e solidità di scrittura, doti queste molto difficili da trovare nella grande maggioranza delle uscite affini a questa per genere, anche in ambito internazionale. Come suggeriscono il nome della band e la disturbante illustrazione di copertina, i Mindwarp propongono una musica che asseconda e accompagna l’ascoltatore verso l’esplorazione di diversi livelli di coscienza. Quello che salta subito all'occhio è l’ottima tecnica dei tre musicisti – di cui vorrei sottolineare la prestazione “tentacolare” di Marco Mari dietro le pelli – sempre funzionale alla costruzione del brano e mai fine a se stessa. Un ottimo esempio di quanto detto sopra è "Haarko – Haari", che “sporca” di psichedelia "Floydiana" le progressioni geometriche dei Tool. E anche altrove i Mindwarp dimostrano di aver mandato a memoria le strutture che hanno fatto grande la band di 'Lateralus', tanto che in piú di un versante, sembra quasi ne propongano una versione strumentale (le stilettate chitarristiche di "Adrenochrome", la complessità di "Excuse Me, I Have to Go to Space Now", i tribalismi hard della conclusiva "Iramocran") ricordando in questo gli australiani Dumbsaint. L’unico versante sul quale, a mio avviso, c’è ancora da aggiustare il tiro, è la tendenza a lascianrsi andare quà e là a qualche atteggiamento da jam-band (ad esempio nella coda di "Adrenochrome", quando l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un’improvvisazione in studio non molto ispirata). Ma sono piccolezze, che nulla tolgono al valore di un lavoro dall'alto contenuto lisergico. Promossi in attesa di ascoltare un album intero. (Mauro Catena)

(Acid Cosmonaut Records, 2014)
Voto: 70

martedì 9 settembre 2014

Godsire - Progenitus

#PER CHI AMA: Melo Death, The Project Hate, primi Scar Symmetry 
Mi piacerebbe davvero sapere come Ettore Rigotti, mastermind dei Disarmonia Mundi, nonché produttore, sia venuto a contatto con questi Godsire, band melo death di Singapore, per la quale si è occupato del mastering di questo 'Progenitus'. Della serie il mondo è assai piccolo. Poco importa se le mie curiosità non possano venire soddisfatte, mi lancio all'ascolto di questo EP di 4 pezzi davvero avvincente ma dalla durata un pochino risicata, sedici minuti. Tanto basta infatti al trio formato da Ishaan Kumar (basso), Ty (chitarre e tastiere) e Clarence Chong (vocals), per convincermi della bontà del loro esplosivo sound che irrompe con la furia bestiale di "Panoptic Universe", in cui una bocca da fuoco sostituisce un drummer in carne ed ossa, mentre le chitarre incendiano l'aria che è un piacere. Come un bel panzer i nostri avanzano monolitici, tra un riffing serrato, growling vocals e tiepide melodie di sottofondo. Diciamo che è con la successiva "Cybernetic Wyvern" che mi esalto maggiormente della proposta di questi ragazzi. Vuoi per le tiratissime e gradasse chitarre, per un'effettistica di sottofondo affidata a flebili tastiere che guidano la linea melodica della canzone, o forse semplicemente per le vocals super aggressive di Clarence, ma il pezzo mi piace davvero molto. La carica energetica che emana, quella voglia di headbanging sfrenato che sonorità dell'ultima ora non ispirano più, mi mandano in visibilio. "The Crossed Out God" continua a pestare dannatamento, senza mai perdere però il senso della melodia, seppur qui la drum machine tocchi vette di robotica alienazione, con il pezzo che risente in un certo verso anche di influenze industrial, che già si erano comunque palesate nei pezzi precedenti. La song trova anche modo di interrompere per alcuni secondi il proprio ritmo incandescente, per poi riprendere con i bombardamenti finali che ci introducono a "Android Psycho Shocker", la traccia più folle e carica di groove del lotto, in cui maggiormente si sollevano le influenze elettroniche del trio asiatico, in definitiva la mia preferita. Non un momento di stanca, non un passaggio sbagliato, chiaro che con 16 minuti a disposizione, sia decisamente più facile non sbagliare. 'Progenitus' si conferma un ottimo antipasto a qualcosa di più succulento che non tarderà (lo auspico) ad arrivare. Bravi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

Humut Tabal - The Dark Emperor Ov The Shadow Realm

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Absu, Unanimated, Emperor
Humut Tabal, nel Pantheon mesopotamico, era il nocchiero degli Inferi, dotato di testa d'aquila, quattro mani e piedi. Da qui traggono ispirazione i nostri blackster texani, per quanto riguarda il loro monicker. Gli Humut Tabal vengono da Dripping Springs e 'Dark Emperor ov the Shadow Realm' rappresenta il secondo infernale lavoro dopo il debut del 2009 e un paio di split cd in compagnia di Weoran e Plutonian Shore. La band riparte là dove aveva lasciato, ma con una maggior consapevolezza dei propri mezzi, con un sound che da un punto di vista chitarristico, sembrerebbe provenire dalle lande scandinave, mentre nella sua globalità suona "Made in US" al 100%. Otto le tracce a disposizione per godere dell'oscura ferocia offerta da Grimzaar (chitarra, synth e voce), AED (basso) e il devastante Njord alla batteria. Le danze si aprono con la lunga "Across the Boundless Land ov Death", song che mostra una certa maturità a livello di songwriting e che abbina la brutalità del black americano (un po' influenzato anche dal death metal) con le taglienti melodie del nord Europa. Roboante nel suo incipit la seconda "Through the Forest and Twisting Shadow", song che si muove tra ritmiche maestose a la Emperor e un taglio vocale che sa di Cradle of Filth, stagliandosi su velocità al fulmicotone che vengono spezzate da un mid-tempo centrale, in cui a porsi in maggiore evidenza è il potente suono del basso e delle vibranti chitarre conclusive. Si continua a pestare con "Furious Winged Helldaemons Soar" song che miscela il thrash metal statunitense anni '80 con il black a stelle e strisce, pesantezza e velocità allo stato puro. Con "Alone, in Purest Silence", i ritmi tornano umani ma si innalza una coltre di fumo spettrale che mi richiama gli Absu in salsa svedese, e ci prepara alla violenza disarmante di "The Misanthrope ov the Barren Waste Becomes", scheggia impazzita che si muove tra gli Unanimated più corrosivi e l'imponenza degli Emperor. Colpi di artiglieria pesante aprono "Wielder ov the Daemon Blade", vi avevo accennato alla potenza di fuoco del drummer no? La song in realtà potrebbe essere comparabile ad una semi ballad (passatemi il termine vi prego) in stile primi Cradle of Filth, che comunque trova modo di sfociare in un gothic black dalle tinte sinfoniche. Con l'ipnotica "In the Shade ov Lord Satan's Wings" (in assoluto la mia traccia preferita) e la conclusiva folkeggiante title track, il tumultuoso sound degli Humut Tabal riesce a condensare tutte le proprie influenze in modo assai convincente: Emperor, Dissection, Cradle of Filth, Absu, Immortal, Testament e Black Funeral, finiscono tutti per sgomitare nei solchi di queste due song, defininendo nuove Colonne d'Ercole al genere. Humut Tabal, la rinascita dagli inferi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

Twinesuns – The Leaving

#PER CHI AMA: Drone, Ambient, Sunn O))), Khanate, Wijlen Wij
Quando nel 1994 uscì 'Zero Tolerance for Silence' di Pat Metheny, questo destò molto clamore nel panorama musicale internazionale. Considerato una specie di stregoneria sonora, la sua indole sperimentale estrema non fu digerita da tutti, puritani e non, ma chi lo apprezzò lo fece veramente, gustando tutta la sua arte nel gettare le basi per i suoni della chitarra elettrica del futuro. Una musica controversa iper distorta fatta di una sola chitarra, disturbata e disturbante che portava le conoscenze tecniche del mitico Pat Metheny nei meandri allucinogeni di un altro chitarrista geniale, futurista, sperimentatore di distorsioni ai confini della realtà, il mitico Thurston Moore dei Sonic Youth. Dopo alcuni decenni le teorie e questo modo di intendere la musica, mescolato alle gesta eterne dei Black Sabbath, viene riesumato e sviscerato, rinominato e rivitalizzato con termini nuovi, come drone, ambient, doom, funeral, e finalmente portato alla luce e giustamente gratificato. Il duo svizzero composto da Thor Ohe e C., sfodera questo ottimo primo album licenziato via Hummus Records nel 2014 con annesso stupendo artwork, ricercato e curatissimo ideato dallo stesso Thor Ohe. Musica enorme, difficile, dall'animo antisociale, introspettivo e trasversale, oscura, meditativa, perversamente costruttiva, malata, fatta di sole chitarre atte a creare altissime muraglie e deserti infiniti di distorsione, rumori, feedback, suoni reali ed irreali al rallentatore, astratti e pesantissimi. Cinque brani mastodontici ideali per una fuga intrisa di misantropia, da gustare per la qualità di registrazione, non di facile accesso ai non iniziati al genere, aggressivi, funerei, e intrisi di doom. Inseguendo i pionieri Sunn O))) ed i Khanate, ripensando ai paesaggi depressi di Wijlen Wij e percorrendo la via mistica dell'avanguardia sperimentale, gustatevi questo signor album...e tremate, le streghe son tornate! (Bob Stoner)

(Hummus Records - 2014)
Voto: 75