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giovedì 9 agosto 2012

R:I:P - ...Out to R:I:P All Nations!!!

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Pantera, Metallica
Uhhh!!! Altra sorpresa da una band a cui non avrei dato una lira dopo aver visto la cover del cd. La bomba ancora una volta arriva dalla Germania con questi semi-sconosciuti R:I:P, che altro non sono che il chitarrista dei Majesty, il vocalist dei Respawn Inc., un paio di membri dei Midnatsoll e l’ex tastierista degli Anguish, che rilasciano questo interessante debutto di death/thrash old style, riletto in chiave moderna. Devo ammettere che la traccia in apertura lasciava presagire l’ennesima delusione, invece già dalla seconda “Crushing the Lies”, la band mi sorprende non poco e il disco inizia a decollare e a piacermi parecchio. L’approccio pare metalcore, ma la presenza di una affascinante tastiera a stemperare l’arroganza del genere, un ottimo songwriting, un’energia dirompente, la presenza in un paio di brani di una dolce donzella alle vocals e l’inusuale voce (in versione clean, emo e Metallica style) di Fabian Pospiech, spiana la strada a questi ragazzi, per raggiungere una larghissima e più che meritata sufficienza. L’utilizzo dell’elettronica, intelligentemente inserita sui classici riffoni di chitarra (di scuola Pantera) avvicendati ai soliti breakdown, direi che aiuta molto i R:I:P a prendere le distanze dal genere, anche se magari in alcuni momenti riaffiora prepotentemente il background thrash dei nostri; niente paura, perché un attimo dopo, il quintetto teutonico ci spiazza con una trovata delle sue: un loop che si pianta nel cervello come in “Fade Away” o un’angelica voce (Christina Müller) come accade in “The Cold Place”, risolvono la situazione. Bravi, perché reinventarsi in un genere stagnante come il thrash è davvero difficile e la band, nonostante alcune ingenuità, ha saputo sfoderare una prova più che dignitosa. Se osassero ancora di più, sono certo che farebbero sfracelli; da tenere d’occhio la loro evoluzione… (Francesco Scarci)

(Twilight Zone Records)
Voto: 70

Morgana - Rose of Jericho

#PER CHI AMA: Heavy Metal
Terzo album di questa artista italiana, e, come menzionato da più parti, "Rose of Jericho" viene indicato come il suo miglior album. Avendo un background heavy metal, mi sarei aspettata un lavoro sullo stile Nightwish (i “nuovi” Nightwish, perché dubito sinceramente che un altro connubio lirica-melodic metal di Tarja Turunen possa riformarsi): invece l’album pecca di emozioni, di incisività. Tutte le canzoni sono musicate da Tommy Talamanca dei Sadist, tra cui spicca anche una cover di “Bang Bang” di Sonny Bono. Il sound che ne deriva è puro e semplice heavy metal, quasi come se fossimo tornati indietro nel tempo: la cosa che secondo me un po’ stona è proprio il tono di voce, troppo tirato verso il basso e con poche sfumature (come ci si aspetterebbe invece da una voce femminile, capace di giocare con i bassi e gli acuti). Per il resto, il lavoro si rivela tedioso e abbastanza ripetitivo: oserei dire anche superficiale, senza carattere. Da notare "Golden Hours", che sembra creata intorno alla voce e la sottolinea maggiormente, ma con gli strumenti costantemente tenuti leggeri. In "Lady Winter" qualcosa sembra cambiare, ma è solo una mera impressione: sebbene l’inizio sia più tosto del solito, tutto sfuma non appena il canto ha inizio. Solo verso metà si sente un po’ di cattiveria emergere, ma è tanto rinchiusa nel tono di voce troppo spesso tenuta a freno. "610" e "I Will not Turn Back" probabilmente sono le canzoni da cui traspare più malinconia rispetto alle altre tracce, visto che il suono si affida a lunghi assoli di chitarra elettrica nella prima, e note di pianoforte nella seconda. La già citata cover di "Bang Bang" è buona, anche se sembra più parlata: mi sarei aspettata una voce più suadente, capace di entrarti dentro, anziché una versione semi urlata. Propongo di provare a registrarne una versione più sensuale, magari aiutandosi con del buon vino rosso che riscalda il corpo e l'anima. "… And Kickin" è l’unico brano strumentale, in cui emerge la chitarra elettrica (con mille sfumature diverse, mentre la mano sinistra scivola arrivando agli estremi) e la batteria la segue a ruota: si direbbe quasi una delle migliori di tutto l’album. Tutto si conclude con una versione acustica di "Lady Winter". Finalmente ho capito che cosa riuscirebbe a darle un minimo di notorietà in più: un album di sole canzoni acustiche, che siano di Morgana o cover, ma senza altri strumenti che “cozzino” con il suo tono di voce. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music)
Voto: 50

Maroon - The Cold Heart of the Sun

#PER CHI AMA: Death/Metalcore
Un inizio al limite del grind apre questo capitolo dei teutonici Maroon, fautori di un metalcore, per una volta suonato come si deve. La solita premessa va fatta: i Maroon non inventano nulla di nuovo, ma ci mettono le palle e tante buone idee in questo concentrato furibondo di death metal (di scuola svedese) miscelato all’hardcore. Si parte alla grandissima con “(Reach) The Sun”, canzone diretta, violenta con una bellissima melodia di fondo e con un assolo che pesca a piene mani dalla musica classica. Il quintetto tedesco prosegue nel farci a brandelli anche con “Only the Sleeper Left the World”, ma sempre con grande intelligenza, quasi da farmi gridare al miracolo per l’ottimo lavoro, in un ambito che ha ben poco di interessante da regalare. Ragazzi, che bomba questo “The Cold Heart of the Sun”: ogni brano è una sorpresa, nonostante nelle sue note siano raccolti gli stilemi classici del genere. Chitarre arroganti si alternano attraverso cambi di tempo da urlo a mid tempos assai ragionati, sfuriate selvagge ci aggrediscono in modo serrato, growling vocals assassine sbraitano tutta la frustrazione del combo di Nordhausen; breakdown, tanta melodia e assoli vertiginosi, completano un album che si può definire sicuramente vincente. Se siete amanti di sonorità death/metalcore nord europee, non contaminate dalla cultura americana, questo disco farà sicuramente al caso vostro. Godetevelo a tutto volume! (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 75 
 

mercoledì 8 agosto 2012

Sioum - I Am Mortal, but Was Fiend

#PER CHI AMA: Post Rock, Progressive
Shhh… silenzio, spegnete la luce e rilassatevi con la musica dei Sioum, trio strumentale dell’Illinois che mi ha inviato questo interessante cd (e pure elegante per la sua lussuosa confezione in digipack, con quelle sue splendide rappresentazioni artistiche all’interno del booklet), fatto di suoni progressive post space rock. Se potessi parlare di techno post rock, forse riuscirei a spiegare al meglio questo “I Am Mortal, but Was Fiend”, release di grande spessore, di difficile assimilazione, e di forte impatto emotivo. Sicuramente le tonalità cosi tetre lo rendono un prodotto assai singolare che abilmente ed amabilmente, riesce a miscelare suoni appunto post con l’ambient urbano (e la seconda “Pillars” ne è l’emblema assoluto), il tutto corredato da un’altissima perizia tecnica, che per un attimo mi ha fatto credere di avere fra le mani un lavoro di techno metal. Suddiviso in un trittico, verosimilmente un concept album, la band statunitense nella sua prima parte “Accession” mostra il lato più oscuro della loro forza, trascinandoci in un buco nero di nefaste emozioni, che sanno anche di depressive rock, dove con “Shift”, i nostri toccano il loro apice compositivo, sia in fatto di tecnica che di creatività. “Drifting Away” chiude il primo ciclo, “Chambers” apre invece il secondo capitolo, “Intervals” con dei synth che mi si incuneano rapidamente nel cervello pericolosamente, folgorandomi del tutto i miei ultimi neuroni rimasti. Ma una sorta di ninna nanna mi restituisce la calma placida del sonno, del relax; torno a richiudere gli occhi e lasciarmi andare in una visione onirica del viaggio intrapreso con l’ascolto di questo sorprendente esempio di musica rock, che risponde al nome di Sioum. Ipnotici. Surreali. Originali. Atmosferici. L’ambientale “Continuum” chiude il secondo capitolo e lascia posto alla rinascita del terzo movimento “Rebirth” e le sue quattro apocalittiche tracce, che chiudono uno degli album, in ambito post, più insoliti, mi sia capitato di ascoltare. Ora sono curioso di dare un ascolto alla nuova release in uscita prossimamente. Audaci visionari. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Souldeceiver - The Curious Tricks of Mind

#PER CHI AMA: Swedish Death, Soilwork
Questa volta ho voluto provare ad ascoltare il cd senza nemmeno leggere la biografia della band, affidandomi esclusivamente al mio istinto: a giudicare dal ritmo serrato e dalla voce furiosa, sembrerebbe stessi ascoltando un lavoro di una band scandinava (vedi Illdisposed o Meshuggah). Invece si tratta di un ensemble totalmente nostrano, forte, permettetemi il termine, cazzuto; inserire il cd nel lettore il lunedì mattina ti carica completamente (e spero vivamente mi porti a terminare la settimana in fretta e in forze). Parlando brevemente della band, si può dire che questo sia il loro secondo lavoro (senza contare il demo di 5 canzoni nel 2007, anno della loro fondazione) e il primo introducendo l’uso della chitarra a 7 corde, caratterizzato da parti di death metal e altre di thrash. “Hundred 25”, come detto precedentemente, ha un ritmo incalzante che non lascia un secondo di respiro: doppia grancassa martellante, voce growl, chitarre che sembrano lame di un frullatore. “My Closet Embrace”, invece, si distingue dalla precedente per le chitarre che presentano un alone di melodia, con un assolo nella prima parte del brano: per il resto è aggressiva e cattiva quanto basta. In “Suiciding” le chitarre cambiano registro e diventano malinconiche, accompagnando in modo eccelso il growl (ma come fa a tenere lo stesso tono per tutte queste tracce? Sarei sinceramente curiosa di sentire la sua vera voce): vuoi per rilevare il tema centrale, vuoi anche per cambiare in modo da non scadere nella noia, ma l’assolo in sottofondo è veramente notevole. “Mary Ann” inizia con dei suoni distorti presi da una televisione (ricorda tanto le scene degli horror di serie B, dove la tv è sintonizzata su un programma assurdo quanto inquietante, magari in bianco e nero): man mano che prosegue, il growl di Francesco Meo tende addirittura a spostarsi sul melodico (e qui mi vengono in mente i primi Korn, se non per la grancassa come schiacciasassi), con un altro assolo di Alessio Rossano davvero in forma smagliante. In “The Pressing” fanno capolino le tastiere: non hanno un grande spazio, ma creano un’atmosfera sospesa tra l’incubo e realtà (è dall’inizio del lavoro che mi sto immaginando un film horror/splatter che possa accompagnare quest’album): altro assolo del chitarrista Alessio Rossano, prima di una rullata di Alessio Spallarossa (che soprannominerei anche “spacca braccia”, da tanta furia palesata). “Phase C” è solo strumentale (e ci credo, anche il cantante dovrà riprendere un attimo fiato e voce), ma rimanendo sempre con un ritmo veloce e potente. “Icon of Your God” e “Relapse” tendono ad essere meno ansiose, ma più profonda: sebbene il ritmo rallenti, ciò non cambia l’autorevolezza e la cattiveria del combo. Con “Bone Sacrifice” le cose prendono una piega più liberatoria: la batteria è portata all’estremo, mentre la chitarra di Luca Mosti gioca sapientemente con la sette corde, a volte pizzicando e altre volte suonando a fondo. Il tutto mentre Francesco Meo dà fondo alle sue profonde capacità canore. L’album non poteva terminare senza un’altra instrumental track: qui il pianoforte si rende protagonista, ricreando l’atmosfera cupa e inquietante già sentita nel sesto brano (e cercando di placare gli animi tempestosi che hanno caratterizzato l’intero lavoro). L’unica pecca è la lunghezza di “Eternally”: 2.03 minuti di nulla, come se avessero voluto aggiungere qualcosa all’ultimo secondo, ma con un risultato inconcludente. Non sarà però questo a cambiare la mia votazione, comunque positiva, anzi, ci sono alte probabilità che il prossimo lavoro sia addirittura migliore e un maturo. (Samantha Pigozzo)

(Nadir Music)
Voto: 70
 

King of Coma - King of Coma

#PER CHI AMA: Noise, Industrial
Di questo one-man-band si conosce gran poco: dal sito della sua etichetta discografica, emerge che è tedesco e la sua peculiarità sta nel fatto di essere un “noise mongering one man band” ; in italiano lo si può definire uno “smanettone di rumori”, anche perché tutti i brani sono sì strumentali, ma con un’accozzaglia di rumori messi assieme, senza un filo logico. Sempre dal sito, possiamo leggere che si tratta di un album di 21 minuti, composto da 7 tracce di durata varia (si va dai 0,31 minuti della traccia più breve ai 4,21 minuti della più lunga) che assomiglia più ad un giro in ottovolante sotto acido: non c’è definizione migliore, in quanto è totalmente incomprensibile e psicotico. Ma non il psicotico violento, bensì un psicotico introverso, dedito più al trip individuale. Una delle cose curiose rispetto a questo primo lavoro di Michael Van Gore, è che le tracce non hanno titolo: semplicemente si susseguono una dopo l’altra, caratterizzate da ogni tipo di rumore (da suoni metallici, come se stesse battendo il ferro su un’incudine, a rumori d’intermittenza, a qualche nota industrial appena accennata con la drum machine): provando a chiudere gli occhi, sale un senso di vertigine e d’inquietudine degna del migliore incubo. Sembra strano, ma scrivendo con il cd in sottofondo ad un volume medio, aiuta parecchio a concentrarsi: le sensazioni sono talmente mutabili da secondo in secondo, che non basterebbe un’intera giornata per decantarle. Decisamente consigliato per chi cerca un suono totalmente alternativo e impensabile nemmeno dalla mente più bacata che possa esistere. (Samantha Pigozzo)

(Self)
Voto: 70

mercoledì 1 agosto 2012

Pirate - Left of Mind

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle, Mr. Bungle
Devo essere sincero, inizio ad adorare sempre più la Bird’s Robe Records e la sua sfrontatezza nel produrre band, decisamente fuori dall’ordinario. Fino ad ora nessuna delle release rilasciate dalla label australiana riesce a trovare pari nel panorama musicale mondiale. Ciò che stupisce è che poi tutte le band sotto contratto con l’etichetta di Sydney, siano provenienti dall’enorme nazione oceanica. Non ultimi questi Pirate, che si distinguono ancora una volta per una proposta musicale fuori dall’ordinario, una fusion di stili e sfumature che partendo dal rock progressive anni ’70, si fonde con le colonne sonore, per trovare ampio sfogo nella follia delirante di un sax impazzito, come accade nella opening title track o la strumentale “Rough Shuffle”. Pazzi, sicuramente influenzati da quel bontempone che risponde al nome di Mike Patton e una qualsiasi delle sue creature, Mr. Bungle o Fantomas. I Pirate nelle otto tracce a loro disposizione ne combinano davvero di tutti i colori, cosi non stupitevi se in “Animals Cannibals” emergono echi dei Faith No More o di un certo alternative americano, comunque sempre contaminato da suoni freschi e moderni, perché di certo nel corso dell’ascolto di “Left of Mind” incontrerete suoni abili nel passare da sonorità rock old style con montagne di sintetizzatori stile seventies, a suoni stralunati o ambient, fino a sfociare nel jazz (sicuramente complice la presenza del famigerato sax). Le voci poi sono schizoidi, quasi la risposta australiana agli americani Primus; ma i nostri non si fermano certo qui, sono un uragano di genialità, e nella loro immaginaria musica, finiscono per convergere anche accenni di The Mars Volta, la sperimentazione dei Radiohead, l’oscurità dei A Perfect Circle, il tutto suonato nella vena metallica progressive dei Cynic. Si, insomma l’album dei Pirate è qualcosa che va accuratamente ascoltato e ponderatamente digerito, perché di certo non rimarrete delusi di fronte a cotanta ispirazione e genialità. Matti da legare! (Francesco Scarci)

(The Bird's Robe Records)
Voto: 85

De Profundis - The Emptiness Within

#PER CHI AMA: Black Death Progressive
Beh, con un nome del genere, che cosa aspettarsi, se non un sound dedito al death doom? Sbagliato! “Delirium” sembra infatti confutare la mia tesi da quattro soldi, con il suo attacco che appare all’insegna del death più brutale, con delle ferali growling vocals in evidenza. Con calma il combo britannico, prova ad ingrigire la propria proposta, affiancando alla ferocia delle ritmiche arrembanti, quell’oscurità tipica della nebbiosa terra d’Albione: un intrigante suono di basso, delle linee acustiche di chitarra frammiste ad un elegante assolo, con la voce pulita quasi recitata, posta in primo piano. Se il buongiorno si vede dal mattino, il cd che ho fra le mani, sembra scottare parecchio. “Silent Gods” mette in evidenza ancora una volta, l’irruenza del bassista, neppure la band inglese volesse risultare come un mix tra Cynic e Death, per poi scatenare nuovamente la propria violenza, in una sorta di death progressivo, che nelle sue parti più tranquille, pesca palesemente dalla tradizione doom britannica, grazie alla sua vena malinconica. Cosa di poco conto però, in quanto il quintetto, quando schiaccia sull’acceleratore, si ritrova addirittura in territori black, non proprio di loro competenza. Sono frastornato, perché non capisco se la release mi riesce a catturare oppure no. Certo, quando “This Wretched Plague” attacca con quella sua melodica parte di chitarra, mi sembra di avere a che fare un po’ con gli Opeth, un po’ con i Death, poi i nostri vogliono strafare, pestando di brutto e imbruttendo di molto la propria proposta, non incanalando la musica nella giusta direzione. Insomma, pur essendo un grande fan della musica estrema, faccio fatica a digerire la proposta dell’act del Regno Unito. Black, death, progressive, gothic, doom si incontrano o forse meglio dire, si scontrano, in una miscela pericolosa, difficile da manipolare se non si è dei fenomeni ed ecco, i De Profundis non lo sono per nulla, quindi il rischio di commettere qualche grossolano errore c’è e si sente. Da qui la frittata: troppa la voglia infatti di dar sfoggio a tutte le proprie potenzialità che alla fine i nostri perdono per strada il loro vero obiettivo, e quindi ecco che tra buone song, se ne avvicendano altre un po’ troppo scontate che sicuramente suonano come già sentite. Davvero un peccato, perché un pezzo come “Twisted Landscapes” a me piace un sacco, ma poi c’è puntualmente qualcosa che stona e fa scemare il mio interesse. Anche “Release” cattura per la sua dinamicità, certo se poi i nostri tenessero a freno la propria vena techno thrash/death, il risultato sarebbe certo migliore. Si insomma, avrete capito, i De Profundis le carte in regola per fare bene le avrebbero anche, se le giocassero meglio, “The Emptiness Within” rischierebbe di essere addirittura un capolavoro. (Francesco Scarci)

(Kolony Records)
Voto: 65