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martedì 10 aprile 2018

Hvíldarlauss Dauðr - Terrorforming

#PER CHI AMA: Post Black/Doom/Avantgarde
Gli Hvíldarlauss Dauðr sono una nuova creatura proveniente dalla terra d'Albione, e 'Terrorforming' rappresenta il loro debutto sulla lunga distanza dopo due EP ormai datati 2011 e 2013. La proposta del terzetto britannico è votato ad una forma di black metal crepuscolare. L'opener, "Heart and Soul Planted", lo dimostra con un sound che ha in un pianoforte i suoi soli tocchi di eleganza, e la cui matrice ritmica sembra invece muoversi in territori ovviamente black, con un tocco di punk ed una sagace oscurità che si riflette in una ricercata, anomala e riuscitissima porzione solistica. Decisamente più ritmata la seconda "Orbits", anche se l'originalità di Robert Hobson e soci, si riflette in parti di spoken words e spezzoni atmosferici, quasi a delineare una suggestiva ambientazione che richiama l'Inghilterra vittoriana di Jack lo Squartatore. Il sound è comunque melodico e il dualismo vocale contribuisce a smorzarne la ferocia. "Plateau" sembra percorrere un'altra strada che trova nello screaming di Rick Lester il solo punto di contatto con la fiamma nera: le ritmiche sono infatti qui più sbilenche, decisamente orientate ad un death metal ricco di groove, mai eccessivamente veloce o pesante, anzi in grado di strizzare l'occhio a forme più gothic/doom. Devo ammettere però che non è cosi semplice incasellare la musica dei nostri con un'etichetta ben precisa e forse sta qui la forza della band di Leeds che in "Night Walking" sembra andare ancor più a rilento, tra sonorità notturne, rallentate, l'ideale colonna sonora per una passeggiata nel bosco di notte. Con "Vulture" tornani i fasti (post) black, in una song aspra e più lineare rispetto alle precedenti, almeno nella sua prima parte visto che nella seconda metà si torna a divagare. Sonorità più alternative rock (si avete letto bene) in "Brocken Spectre" mi disorientano non poco; ci pensa fortunatamente una mitragliata post-black (che ritroveremo anche nella tiratissima "Return to Hvamm") a ristabilire l'ordine delle cose e rimettere i nostri sui corretti binari, anche se poi trovo francamente difficile capire cosa aspettarmi dalle note successive di questo mutevole lavoro. La title track chiude un disco tanto interessante quanto di impegnativo approccio, che permette di intravedere grosse potenzialità per la band inglese. Per ora dovrete accontentarvi di una versione digitale visto l'esiguo numero (25) di cd stampati, ma sembrerebbe che una nuova ristampa sia già in programma, stiamo a vedere ed intanto godiamoci le insane sonorità di 'Terrorforming'. (Francesco Scarci)

lunedì 9 aprile 2018

Slow Nerve - S/t

#PER CHI AMA: Alternative Rock
La Karma Cospirancy Records è una realtà giovane ma molto attiva, sgomita per farsi strada nella scena e lo fa con proposte originali e ricercate come gli Slow Nerve, una formazione beneventina snella ed essenziale, che propone un mix di showgaze, rock e alcuni sprazzi di free jazz tra ritmiche incalzanti e incastrate, ardite linee vocali sintetizzatori e chitarre a tratti aggressive a tratti decisamente atmosferiche. Il risultato è qualcosa di onirico, una musica da dormiveglia dove il sogno ha appena iniziato a generare le sue assurde immagini, o quel momento in cui appena svegli ci si ricorda di tutte le cose della propria vita, ancora non totalmente consapevoli di cosa sia veramente reale. Il debutto degli Slow Nerve apre con "Liquid Glass" dove la voce di Flaminia si libera come il volo di un gabbiano su un tappeto dalla ritmica sbilenca e sugli accordi di synth che come nuvole su un cielo uggioso d’inverno, coprono lo spettro sonoro, generando lunghe scie bianche. L’attitudine è aulica e leggera, pur sempre mantenendo una certa classe nella scelte armoniche e di arrangiamento, le band che mi vengono in mente sono i Blonde Readhead e i Flaming Lips, a tratti anche i Muse. Gli Slow Nerve riescono comunque a distinguersi con una propria originale interpretazione del genere, qualcosa che in Italia non si vede spesso e che lascia ben sperare per il nostro underground. Si passa poi ad "Asia" uno dei pezzi più significativi del disco, forse quello che maggiormente esprime la carica onirica della band che ipnotizza con suoni intensamente eterei, sostenuti da una batteria che insiste nell’inciampare e continuamente rialzarsi creando un effetto allo stesso tempo statico ma lanciato in una corsa forsennata sospesa a mezz’aria e senza meta, come quando si sogna di volare o quella sensazione di cadere all’infinito, per poi accorgersi di essere stesi immobili sul letto. Il mio pezzo preferito però è senza dubbio "Libellula", potrei ascoltarla per ore, oltre a racchiudere tutte le caratteristiche del sound degli Slow Nerve, è anche l'unico pezzo dove vediamo utilizzato l’italiano: “perché il raziocinio è soltanto raziocinio e soddisfa soltanto la capacità raziocinativa dell’uomo” il messaggio espresso non mi è estraneo anzi lo sento comune a molti, è un’arringa accorata sulla cecità in cui quotidianamente viviamo, intrattenuti dalle nostre piccole contingenze ci dimentichiamo sempre di non essere solo oggetti da profitto, cavie da laboratorio del mondo dell’agire gerarchico e organizzato. “La natura agisce tutta insieme” dice Falminia, la natura non si cura delle nostre credenze, dei nostri stereotipi e costrutti mentali, la natura distrugge e crea, culla e punisce, la natura pervade ogni cosa dell’esistenza e noi non ne siamo parte, noi siamo la natura in prima persona. Una menzione infine, va fatta anche a "Dive Splendida" chiusura in stile Explosions in the Sky in vena di suonare riff alla At the Drive In, ove il basso si rende protagonista e trasporta la musica verso uno scenario psichedelico e svuotato, un limbo sonoro dove il sogno ha lo spazio necessario per allargarsi fino al suo limite massimo solo per poi risolversi simmetricamente nel violento turbinio metrico inziale. Slow Nerve è un progetto in divenire che sicuramente ha molto ancora da dire, attendo impaziente il prossimo lavoro sperando che i ragazzi non escludano un utilizzo più esteso dell’italiano che personalmente mi ha davvero colpito e che renderebbe il progetto ancor più unico. (Matteo Baldi)

(Karma Conspiracy Records - 2017)
Voto: 75

https://slownerve.bandcamp.com/releases

Misbegotten - Keeping Promises

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrashcore
Era il 2007 quando è uscita la quinta release degli austriaci Misbegotten e sinceramente era la prima volta che li sentivo nominare, segno che proprio dei fenomeni non fossero, e lo split-up dopo questo 'Keeping Promises' lo testimonia. La proposta del quintetto, in giro addirittura dal 1993 e che ha supportato band del calibro di Obituary, Pro Pain e Grip Inc., è decisamente noiosa e abulica. Non inventano nulla di nuovo con queste dieci tracce, i nostri sanno solo spararci in pieno volto, un mix di thrashcore sorretto dalle tipiche sporche chitarre hardcore e altre (e forse qui sta l'unico vero elemento interessante) che talvolta richiamano riffs di scuola Iron Maiden (nella opener è ben più palese questa influenza). Le rozze vocals di Andreas Forster, la ritmica selvaggia, i soliti breaks e qualche discreto assolo o bridge, rendono 'Keeping Promises' il tipico album che nulla ha da chiedere, se non un rapido ascolto, solo da chi mastica quotidianamente questo genere di musica. Gli altri, per carità, si tengano alla larga. (Francesco Scarci)

(Noisehead Records - 2007)
Voto: 55

https://www.facebook.com/MISBEGOTTEN-191361580872/

Campos - Viva

#PER CHI AMA: Electro Folk, Black Heart Procession
Chitarra acustica riverberante, sporcata da un'elettronica crepitante e sabbiosa ("Am I a Man", "Cargo Cult"), persino prossima a una specie di trip-hop decostruito ("Uneven Steps"), o subliminalmente tribale ("How My Son"). Rileverete fin dai primi accordi quella profondità di suono affascinante e scura, repentina e spaventevole come il freddo che sopraggiunge nel deserto. C'è molto dei primi Calexico, quelli di 'The Black Light', per esempio, ma anche Tim Buckley ("You Keep Thinking"). Nel prosieguo la vegetazione musicale si dirada ulteriormente. Nel deserto rimangono un filo vitale di chitarra, una voce disidratata e miraggi sonori elettronici ("Space", "Storm"). Il vostro viaggio lisergico nel deserto sta prendendo una brutta piega ("Far Away"). Sentite la vita sfuggire in un afflato, quando finalmente il sole sorge nuovamente. Quel sole mattiniero e sonno-folkeggiante che filtrava dalla tapparella di Beck in "Morning Phase" ("Freezing", "Straight Ahead"). Siete salvi. Vi è andata bene, stavolta. Ma ricordate: mai assecondare i seducenti consigli del Re Lucertola. (Alberto Calorosi)

(Aloch Dischi - 2017)
Voto: 75

https://alochdischi.bandcamp.com/album/viva

domenica 8 aprile 2018

Deadly Carnage - Through the Void, Above The Suns

#PER CHI AMA: Post Metal/Blackgaze, Novembre, Alcest, Shining, Neurosis
Seguo con interesse l'evoluzione musicale dei romagnoli Deadly Carnage sin dagli esordi; lo dimostra il fatto che su queste stesse pagine ho recensito quattro dei loro ultimi cinque lavori e non ho che potuto apprezzarne e sottolinearne la loro progressione sonora. 'Through the Void, Above The Suns' era un lavoro che aspettavo con grande curiosità per tastare il polso della band di Rimini dopo l'ottima performance di 'Manthe' e la virata verso sonorità di "alcestiana" memoria dell'EP 'Chasm'. Ebbene, il nuovo disco, un concept votato a tematiche cosmiche, combina di tutto un po', dagli ultimi ammiccamenti alla band francese a forti reminiscenze che ci conducono addirittura ai britannici The Blood Divine, li ricordate, la band nata per mano di Darren White, dopo la fuoriuscita dagli Anathema? Perché dico questo? Perché il nuovo vocalist dei nostri, Alexios Ciancio, prima solo chitarra e synth nella band e che ora ha assunto anche il ruolo di cantante, ha uno stile che si avvicina appunto a quello del bravo Darren, cosi sofferente e disperato nelle sue linee vocali. È palese già da "Matter", ancor di più con la splendida ed inquieta "Hyle", due brani che mostrano nuove influenze per i nostri che provengono sia dal post/sludge metal (per la prima traccia) che dal death doom albionico (nella seconda). Un pezzo strumentale, "Cosmi", ci conduce a "Lumis", una song che sembra riprendere quel retaggio del passato dedito al depressive black e coniugarlo con la nuova dimensione sonora dei nostri, in un nuovo folgorante ibrido tra Shining e The Blood Divine (chissà poi se la band è d'accordo con la mia disamina), lanciato in un potentissimo assalto post black, in stile Wolves in the Throne Room a occupare la seconda parte del brano, prima che il suo umor nero venga smorzato da sonorità assai vicine ai nostrani Novembre. Tutto chiaro no? L'ascolto dell'album è un'autentica epifania di suoni e umori che rendono questo 'Through the Void, Above The Suns' un lavoro di grande spessore. Spettacolare a tal proposito quella che ho già eletta a mia traccia preferita, "Ifene": cantata in italiano, è un flusso sonico di sonorità post black emozionali con un cantato pulito ma sofferente, atmosfere decadenti e drammatiche, una sorta di versione black di 'The Silent Enigma' degli Anathema, che a metà brano virerà verso quelle splendide malinconiche melodie tanto care ai Novembre, grazie e soprattutto ad un coro carico di una spinta emozionale davvero di grande impatto, da ascoltare e riascoltare fino alla nausea, perché i brividi che ha prodotto sul mio corpo era tempo che non li provavo. Un altro indovinato intermezzo strumentale, "Fractals" e arriviamo a "Divide", dove torna prepotente l'influenza degli Alcest più violenti, almeno nella parte iniziale del brano, con il cantato eccellente di Alexios molto vicino per stile a quello di Neige, mentre la seconda metà del pezzo assume connotati decisamente più sognanti che tirano in ballo, questa volta solo a livello vocale, la band di Carmelo Orlando. Arriviamo all'ultima onirica "Entropia", un concentrato mellifluo di suoni post metal e blackgaze, un ibrido tra Neurosis e Alcest che sottolinea l'eccezionalità di un pezzo ed in generale di un album che potrebbe anche diventare una pietra miliare della scena metal italiana. A chiudere, un plauso anche per il curatissimo digipack e le splendide immagini contenute nel booklet interno. Disco riuscitissimo e stra-raccomandato! (Francesco Scarci)

(A Sad Sadness Song - 2018)
Voto: 85

giovedì 5 aprile 2018

The Night Flight Orchestra - Amber Galactic

#PER CHI AMA: Hard Rock/Glam, Rainbow
Anche stavolta i riferimenti sono nitidi e ben scanditi: l'hard-glam chiassoso dei Kiss pre-disco ("Sad State of Affairs"), i Rainbow di 'Bonnett' obbligatoriamente in apertura proprio come accadeva nei due dischi precedenti (stiamo parlando ora di "Midnight Flyer") oppure quelli subliminali di 'Rising' (nel finale di "Space Whisperer" un inchino riconducibile a "A Light in the Black"), il 101%-proof-melodic alla J-L Turner (per esempio il singolo "Gemini"), il saxy-rock dei Supertramp mid-settanta ("Just Another Night"). La conclamata similitudine di "Domino" con "Africa" è invece pretestuosa. Piuttosto, allora, con "Pamela" individuerete parecchi Toto-VII-ismi almeno anche in "Josephine". Ma si apprezzi, in ogni caso, la sfacciataggine. Alla terza uscita, il manierismo fluo/dinamico melodic-rock dei T-N-F-O fluisce straordinariamente consapevole nel suo cipiglio ortocentricamente vintage (prima ancora di sentire il disco fate caso alle copertine), eppure impeccabilmente prodotto e sempre freschissimo di idee, ciò che accade piuttosto di rado nel reviviscente, patinatissimo universo nu-melodic. Niente male per un supergruppo che si esprimeva in growling dai tempi dell'asilo. (Alberto Calorosi)

martedì 3 aprile 2018

Cucina Sonora - Evasione

#PER CHI AMA: Elettro sperimentale, Kraftwerk, Aphex Twin
A beneficio di eventuali languori auricolari, è opportuno sapere che la specialità della casa offerta dalla Cucina Sonora consta di evoluzioni a trazione pianistica architettate sull'insistente ripetizione di arpeggi oppure giri di accordi (prestate orecchio al senso di incombenza generato dal semplice mood poliritmico in apertura di "Rianimazione", destinata poi a decomporsi in un dissonante monologo pianistico, oppure alla sensazione tecno-barocca emanata, per esempio, dai bridge di "Ring"). Spetta all'elettronica il compito di stuzzicare ulteriormente gli appetiti, emanando fragranze pump-up-the-vintage (ad esempio nel singolo "Evasione"), spacey ("Stazione Lunare" naturalmente), a tratti indomitamente prossime ("Dissolution", "Ignoranza" e di nuovo "Ring") a certa elettronica danzereccia di prominenza europea (penso a J-M-Jarre, gli ultimi Kraftwerk e ai penultimi Tangerine Dream) o a certo (evitabile) dance-pampsichismo etnico novenove/zerozero alla Claude Challe individuabile nelle atmosfere dichiaratamente lounge di "Cocktail", ma anche in "Startup" e ne "La Danza delle Rane"). Bene: gradite un dessert? (Alberto Calorosi)

(Toys for Kids Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/cucinasonora/

Roommates - Fake

#PER CHI AMA: Post Grunge/Hard Rock
Un southern voluminoso ma ispido, senz'altro devoto studioso di storia antica (Lynyrd Skynyrd, qualcuno si ricorda ancora gli Atlanta Rhythm Section?), sì, ma analogamente prossimo al più recente nichilismo alcaloide germinato in quel di Seattle nel primo lustro dei novanta (ritroverete la disperata profondità di suono degli ultimi Alice in Chains di Staley nelle due canzoni che aprono l'EP, "Light" e "Blow Away"; quando parte "Fakin' Good Manners" non riuscirete a non canticchiarci sopra "Nothingman" dei Pearl Jam) ma anche a un certo highway-punk americano metà ottanta ("Black Man Guardian") e a cert'altro sofficissimo e confortevolissimo face-between-your-tits-rock ("Empty Love"). Osserverete che la copertina unisce (neanche troppo) curiosamente un'estetica biker-rock a un logo eminentemente death metal. Chissà poi perché! (Alberto Calorosi)

(Nadir Music - 2017)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RoommatesRock

Job for a Cowboy - Genesis

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death
Il debutto degli statunitensi Job for a Cowboy, 'Genesis', è stata una sonora mazzata nei denti. Era il 2007, quando la band di Glendale (Arizona) debuttò dopo l’EP d'esordio 'Doom', con un lavoro veramente cattivo. Dieci brevi tracce, per poco più di 30 minuti di musica, in cui i nostri cambiano rotta, dopo le sonorità deathcore degli esordi, purificando il loro sound in un ferale death metal tipicamente made in U.S.A. L’assalto sonoro comincia con “Bearing the Serpents Lamb” e prosegue attraverso tracce più o meno interessanti fino alla conclusiva “Coalescing Prophecy”. Abbandonata completamente l’influenza hardcore, il quintetto lancia un attacco violento, diretto e ultratecnico, palesando ad ogni modo un buon senso per la melodia (seppur estremamente limitata) unita ad una discreta dose d'imprevedibilità, in grado di conferire all’act americano una certa personalità, nonostante la giovane età. La produzione di 'Genesis', a cura del maestro Andy Sneap, è poi assai pulita e perfettamente bilanciata, fondamentale per donare all’intero lavoro quella potenza in più, a valorizzarne enormemente il risultato. La musica, mai banale o monotona, spinge che è un piacere, prodigando sfuriate death caratterizzate da una tecnica individuale di fondo superiore alla media: ascoltate la performance del batterista, oserei dire mostruosa, mentre la voce del vocalist si mantiene sempre su livelli growling simil cavernosi. Difficile identificare una band a cui il combo s’ispira, segno quindi di una maturità già raggiunta dopo un solo lustro di esistenza che preluderà alle grandi cose fatte poi nel futuro. (Francesco Scarci)

(Metal Blade Records - 2007)
Voto: 80

https://jobforacowboy.bandcamp.com/album/genesis

venerdì 30 marzo 2018

Drone - Head-on Collision

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Pantera, Fear Factory
Se non avessi letto la biografia, mai avrei immaginato che i Drone fossero tedeschi, dato che il loro sound richiama fortemente tutto il giro americano di band dedite al nu-metal, sporcato da un thrash molto "Panteroso". Egregiamente prodotti da Andy Classen, il quartetto teutonico ha rilasciato nel 2007 questo buon debutto: potenti ritmiche thrash metal costituiscono l’intelaiatura di 'Head-on Collision', accompagnate da sofisticati arrangiamenti e dall'eccellente voce (sia in versione clean che growl) di Mutz Hempel che, fatti suoi gli insegnamenti del vocalist dei Fear Factory, dà prova di essere un cantante già dotato di carisma e personalità. Tutti i pezzi mostrano una band dalle idee ben chiare, capace sia tecnicamente che dal punto di vista compositivo. Gli 11 brani hanno un elemento comune: oltre ad essere tutti belli incazzati, hanno una componente melodica, data da degli arrangiamenti, che stemperano questa furia e con le backing vocals di Marcelo e Martin che inevitabilmente ci invogliano a cantare con loro. Non posso non sottolineare poi la prova del batterista Felix, tecnico e fantasioso, abile a dettare i tempi per tutta la band e a garantire, con i suoi muscoli, un esito finale davvero soddisfacente. Se dovessi segnalare un brano, vi suggerisco “Jericho”, vero connubio tra la scuola thrash americana ed i suoni cibernetico-industriali dei Fear Factory. Dopo questo lavoro, la band sassone ha rilasciato altri tre dischi, che forse un ascolto lo meritano eccome. (Francesco Scarci)

(Armageddon Music - 2007)
Voto: 70

https://www.facebook.com/DroneMetal

Xiu Xiu - Forget

#PER CHI AMA: Experimental Electro Pop
Al di là del consueto elettro-trionfalismo industrial-messianico ("Queen of the Losers" e quasi tutte le canzoni successive) intriso di consueti white-rumorismi anni tardonovanta più ("Hey Choco Bananas") o meno ("Jenny Gogo") grattugiosi e dal consueto piagnucoloso vocione goth-wave ottantiano (ovunque, ma fin insopportabile in "At last, at Last" e "Jenny GoGo", la canzone che qualcuno in rete ritiene fantasiosamente dedicata alla fidanzata di Forrest Gump) non sempre (più precisamente quasi mai) opportunamente analgamati; al di là di tutto questo è possibile che gli sporadici momenti di attenzione siano catalizzati dai (consueti) sentori digital-softcore della introduttiva "The Call", (inconsapevolmente?) scanzonante i Prodigy e certi decadentismi dark-glam fine-novanta, e cantata da una specie di Mark Hollis con la faccia ficcata nel barattolo della maionese in duetto con una specie di Mark Hollis con la faccia ficcata nel barattolo della senape. Oppure dalla linea di basso indubbiamente badalamentiana, evidente reminescenza del precedente tributo a Twin Peaks, che introduce la canzone più intrigante e materica del disco, soprattutto per via del testo. Nell'opinione di chi scrive, il singolo "Wondering" ha la pretestuosità elettro-pop di una outtake dei Goldfrapp, ciò che dovrebbe fornire una precisa collocazione qualitativa, in considerazione della kelviniana opinione del sottoscritto nei confronti dei Goldfrapp. Ascoltate questo album e poi fate esattamente ciò che vi suggerisce il suo titolo. (Alberto Calorosi)

(Polyvinyl - 2017)
Voto: 50

http://www.xiuxiu.org/

Styx - The Mission

#PER CHI AMA: Hard Rock
L'ultimo album in studio degli Sty(ti)x (suvvia, il precedente 'Cyclorama' era del 2003) è un temerario sci-fi concept sulla prima missione umana su Marte, prevista, nell'opinione di Superpippo Shaw, nell'anno del signore 2033 (dilettatevi a individuare nei testi sbragonerie del calibro di "Hands on the wheel of my rocket mobile / and I'm a hundred million miles from home", dalla song "Hundred Million Miles From Home"). Quattordici stazioni narrativamente ultracanoniche a formare una specie di Via Martis motorizzata. Accensione dei razzi (una Asia/ticissima "Overture" power-prog), decollo (la Uriah-propulsiva "Gone Gone Gone", indovinato primo singolo), distanza da casa (il glam clap-clap di "Hundred Million Miles From Home"), paura di non farcela ("Trouble at the Big Show"), considerazioni (la gilmouriana "Locomotive"), cartoline dallo spazio profondo (i Queen-of-the-world ipermelodici di "Radio Silence"), esistenzialismo cosmico (la ponderosissima Queen-tale "The Greater Good"), un altro po' di esistenzialismo cosmico ("Time May Bend"), atterraggio/casini-col-motore/paura ("Red Storm"), no-ovviamente-è-tutto-a-posto ("All Systems Stable"), apertura del portellone ("The Outpost"), conclusioni/ faccenda-del-piccolo-grande-passo/ pippone-saluti/ ringraziamenti (una power-melo ancora più Asia/ticissima "Mission to Mars"). Il sedicesimo album degli Styx si colloca sulla rotta astral-melodic-hard-ruffianesimo tracciata tra il 1977 e il 1981 dagli alter-ego degli Sty(ti)x, i Prolyfix (quattro album in sei anni. Decollo: 'The Grand Illusion', atterraggio: 'Paradise Theatre'), senza utilizzare una singola molecola di propellente all'idruro di nostalgismo e destreggiandosi con consumata perizia e comprovata professionalità all'interno di una vera e propria tempesta di asteroidi del ridicolo. Vi pare poco? (Alberto Calorosi)

(UMe - 2017)
Voto: 75

http://styxworld.com/band

The Pit Tips

Felix Sale

Rapture - Paroxysm of Hatred
Et Moriemur - Epigrammata
Exalter - Persecution Automated
 

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Francesco Scarci

Arkona - Khram
Ketha - 0 Hours Starlight
Rivers of Nihil - Where Owls Know my Name
 

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Alain González Artola

Profundum - Come, Holy Death
Three Eyes of the Void - The Moment of Storm
Minneriket - Anima Sola

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Five_Nails

Horn - Retrograd
Amon Amarth - Jomsviking
Drudkh - Їм часто сниться капіж (They Often See Dreams About the Spring)

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Absu - Absu
The Antichrist Imperium - The Antichrist Imperium
Averse - The Endesque Chants
 

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Michele Montanari

Atomic Mold - Hybrid Slow Food
Hell Obelisco - Swamp Wizard Rises
Netherlands - Hope Porn

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Matteo Baldi

Dumbsaint - Another Scene
Porcupine Tree - Deadwing
Boris - Noise

mercoledì 28 marzo 2018

Profundum - Come, Holy Death

#FOR FANS OF: Symph Black/Death
Profundum is a rather new project formed in the southern American city of San Antonio, Texas. This band is a side project of R and LR, pseudonyms of two quite active musicians who have several projects, all of them related to the extreme scene. In fact, R whose real name is Ryan Wilson, has a very interesting band called The Howling Void, which plays symphonic funeral doom. Other projects are nevertheless, more related to death and black metal. Profundum represents a combination of their previous projects though it remains firmly rooted in the black metal sound, with a strong atmospheric touch and including some other influences.

After a promising EP entitled 'What no Eye Has Seen', R and LR focused their efforts in order to give life to their first full album. It didn’t take too long until 'Come, Holy Death' was released by the German underground label Heathen Tribes in 2017. Profundum´s debut came in a nice digipak, sadly without booklet, and with an eye-catching artwork, which fits perfectly well the album´s musical concept. Without having the lyrics, I can hardly decipher their meaning, but the song titles have a sinister touch dealing with creation, void and darkness in general. The listener will realize that both music and lyrics are perfectly compatible. Musically, the album can be tagged as atmospheric black metal with a generous presence of the keys, which play a major role. Apart from that, it seems that both members try to import some influences from other projects. The use of powerful growls by LR is a good example of the death metal influence. Anyway, he also uses classic shrieks which also sound quite competent. It’s interesting to point out that the growls are usually accompanied by some slow moments which sound quite death-doom esque, making a great contrast to the usual fast pace that the majority of tracks have. In those sections both vocal styles are usually used. The album opener “Sentient Shadows” is a nice example and clearly shows how the band combines both resources in a very well executed way. The combination of fast black metal sections and beautiful and mesmerizing keys, with slow paced doom-death metal sections is something very habitually used in this record, and it works fantastically well.

All the tracks maintain a very similar structure and level, which I must admit is quite high, but my personal favourite is “Tunnels to the Void”. The track has a slow start including as usual some majestic keys. This section is abruptly finalized when the drums change the pace to a much faster one, nevertheless the grandiose keys still lead the pack and they truly sound magnificent. I personally consider this song a truly majestic and hypnotic experience. Production wise that R and LR gave the album a certainly old school touch. Like in the 90s', the instruments sound like it they were recorded far from the microphones, especially the guitars and drums. On the other hand, vocals and keys have a greater presence in the mix making a great contrast between the hypnotic and atmospheric side and the most brutal one.

In conclusion, Profundum released an excellent debut, which is a great piece of atmospheric black metal seasoned with some death and doom influences. These influences make the album even more interesting. As I have already mentioned, the keys play a major role and they are truly excellent and grand during the whole record, being the best ones I have listened to since a long time. A truly great start! (Alain González Artola)


martedì 27 marzo 2018

Horn - Retrograd

#FOR FANS OF: Pagan Black
Over a year since the release of 'Turm am Hang', Horn has returned in proper form with 'Retrograd', promising more incredible and inspiring black metal from a Westphalian bedroom. While this latest album is considerably shorter than the previous release from the dawn of 2017, the album's meatiest moments offer that familiar and glorious electric notation that rises to fury with its slamming snare to truly conquer realms and rule with an iron fist. Nerrath is no stranger to adopting the eclectic, beefing up his black metal ensemble with classical instruments and this comes across well as cello, violin, and folksy drumming introduce and march away with allusions to the intensity they bookend.

The title track comes with the fury of a storm as a howling gale of guitar calls out from drumming thunder to shred windsocks and sails alike, dooming hapless merchants with immense waves while casting their goods into the sea. Despite the misfortune of distant others, the king's flotilla has made landfall intact. On the shore comes the stomp and snare of a winding trail of warriors as Horn violently takes numerous villages, slaughters their inhabitants, and brings a new province into the fold. Glory is there in violin and lute to sing songs of the victorious dead while the reality is a smashing appraisal of the newly acquired realm despite the melancholy of interring the individuals unable to appreciate the riches of the fresh conquest for which they have fallen.

While a tempest conjures a beastly invasion on the coast, “Bocksfuss” sees the invaders and ousted defenders meet in barbaric battle deeper into the wilderness. Walls of spears and shields slam into each other with bone breaking thrusts that stab into each opposing line and are quickly repelled with swift sword swings and axe hacks. In harrowing climax the guitars issue blending notes, thick as blood pouring from mortal wounds as they redouble their efforts to shriek out of this press of battle and be heard above the wails of the defeated. As each side fights to exhaustion, the invaders dig in their back feet in preparation for a second wind of assault. The quick strike of a folksy lilt fires synapses as aching muscles are invigorated by the machinery of masterful men whose discipline drives this determined victory. “Garant” garrotes unit after unit as the conquering army's redoubt routs its foe, now turned into a paltry scramble of fleeing men as the field lies littered with the fallen and writhing with wounded warriors. While one side licks its wounds, punished for its audacity in attempting to defend its land from such an onslaught, “Die Einder” sees that a journey is not finished with a single victory. As Arthur Wellesley, the Duke of Wellington, declared, “nothing except a battle lost can be half so melancholy as a battle won”, and the melancholy of a victory at such expense as this would leave any force demoralized before it plunges onward into continuing its campaign.

Still, the deeper appreciation of such militaristic struggle within Horn could also be surmised by Maynard James Keenan who argued, in the song “Vicarious”, that “we won't give pause until the blood is flowing”. Horn is a band that appreciates the bloodshed necessary to achieve its aims and attempts to honor the victorious dead without forgetting the sorrow of loss that such victory inevitably entails. Unlike in 'Turm am Hang', each moment of celebration is met with sullen realization as this fresh force fights in foreign forests. This balance is met more melancholically in 'Retrograd' as venturing from a homeland hof into hostile territory prophesizes not only numerous dangers ahead but also forces conquerors into costly confrontations resulting in Pyrrhic pushes. (Five_Nails)

The Conformation Change - Far From Home

#PER CHI AMA: Alternative/Post Rock
I The Conformation Change (TCC) sono una band nata in una piccola località sul lago di Garda, un lampante esempio di come vivere in un paese non ha alcun effetto su una mente libera che ha voglia di scoprire e di osare artisticamente. Tristemente il progetto è finito appena prima di rilasciare 'Far From Home', un disco che sarebbe stato davvero molto interessante vedere diffusamente suonato live. Le influenze della band spaziano dai generi più estremi a quelli più introspettivi, a me vengono in mente i Massive Attack per la preponderanza di tappeti di bassi e sintetizzatori, ma anche i Cult of Luna nelle parti meno aggressive o i My Sleeping Karma per la misticità e la spazialità che i TCC riescono a raggiungere. Il disco si apre con "5:33", pochi sordi tonfi di cassa intermittenti per introdurre un ambiente dilatato e labirintico, in stile trip hop bristoliano. La musica descrive nella mente uno scenario impossibile come quello che suggerisce la copertina: le balene volano sopra i grattacieli come gigantesci dirigibili viventi che viaggiano lentamente tra le nuvole, sotto gli occhi per niente stupiti dei passanti. È tutto normale a quanto pare, ed è normale che non sia normale. Il disco presenta una varietà di stili e di concetti di canzone decisamente eclettica, tra tutte "Deeper" è forse il mio pezzo preferito. La profonda linea di basso la fa da padrona per buona parte del brano, abbellita da chitarre spaziali e riverberate che descrivono a grandi cerchi concentrici, un ambiente dalle caratteristiche familiari ma con qualche particolare che lascia spaesati, come a voler dire che non è tutto immediatamente evidente ma che è necessario osservare più intensamente per cogliere l’unicità di ogni cosa. Si continua con l’incredibile viaggio allucinogeno di "The Edge", il brano forse più complesso del disco con il più vasto spettro emozionale, ove si passa dal languido scrosciare di arpeggi al duro imporsi di riff sludge, fino a parti senza ritmica imbevute di strani suoni elettronici che fungono da perfetto collante alla moltitudine di strumenti in gioco. La canzone risulta spesso sospesa il che crea un effetto ipnotico, ma in realtà è proprio il modo in cui i TCC riescono a trasmettere queste parti ferme che rende interessante la composizione, una su tutte il cambio di intenzione a circa 4 minuti dove, dopo una pausa ritmica, entra il synth e il riff di chitarra, un esempio di come la band sia in grado di dosare le proporzioni tra gli ambienti e i cambi tra di essi. Nel pezzo di commiato “Backward”, il synth ancora una volta ha un ruolo fondamentale: la stesura di tappeti sonici sulla malinconica e ciclica ritmica di batteria fanno da sfondo a un intreccio di chitarre decadenti e sconsolate, una giusta chiusura all’intricato percorso di 'Far From Home'. I TCC sono riusciti a concentrare in una quarantina di minuti una notevole moltitudine di stili, tenendo sempre una linea propria e una buona dose di originalità. 'Far From Home' è alla fine come un quadro dipinto e ridipinto un milione di volte, gli innumerevoli strati si sovrappongono l’un l’altro in un'infinita danza di colori tutti tra loro complementari, nessuno potrebbe esistere senza gli altri e tutti insieme creano una profonda sensazione di pace e di equilibrio, sensazione che permea la musica dei TCC in ogni momento. (Matteo Baldi)

lunedì 26 marzo 2018

Hecate - Une Voix Venue d’Ailleurs

#PER CHI AMA: Black
Ecate, la dea madre, colei che regnava sui demoni malvagi, sulla notte, la luna, i fantasmi, i morti e la negromanzia. E su questi temi di miti, storia e letteratura, ecco insinuarsi la mefitica figura dei francesi Hecate proprio a ricordare la divinità greca, anche e soprattutto a livello di artwork. La musica poi dell'ensemble di Tours è votata ad un black primordiale, che lungo i sette brani di questo 'Une Voix Venue d’Ailleurs', trova modo di dar voce a una proposta arcigna, oscura che emerge veemente già a metà dell'opener "Silentium Dei", con un sound che non cede a troppi compromessi se non quelli di un corrosivo flusso black. "Consolamentum" apre con un bell'arpeggio, quasi una liturgia a onorare la dea madre e sulle cui note pizzicate di chitarra, s'instaura poi lo screaming fetido di Veines Noires in una traccia che corre malata con un approccio ferale vicino al post black, sebbene non manchino i cambi di tempo e le aperture melodiche in un caotico trambusto sonoro che non lascia troppo scampo. La furia del quintetto della valle della Loira viene mitigato solo nell'incipit della terza "Héraut Aux Balafres", un'altra song che di certo non vede deporre le armi da parte del combo transalpino, anzi sembra divenire sempre più battagliera. Un bel riffone dal sapore rockeggiante apre invece "Une Charogne", una traccia che trova poi modo di abbandonarsi al caos supremo. "Nous Enfants de Personne" è un altro brano che parte più delicatamente prima di trovare ampio sfogo nei vagiti sguaiati del frontman e in una porzione ritmica sempre estremamente serrata e veloce che strizza l'occhiolino ai mostri sacri del black svedese. Ancora tocchi raffinati di piano nell'inizio di "La Prunelle des Éveillés" (ma li troveremo anche al suo interno) e poi un caustico impasto sonoro che si dimena tra tiepidi rallentamenti e sfuriate assassine che si placano solo in un finale a cavallo tra suoni estremi ed orchestral-avanguardistici. Gli ultimi otto minuti sono affidati alle bordate di "Le Bruit du Temps", un pezzo che bilancia frustate black con passaggi più classici e dichiara finalmente la fine delle ostilità di questo secondo aspro lavoro degli Hecate, un viaggio di sola andata per l'aldilà. (Francesco Scarci)

domenica 25 marzo 2018

Etruschi from Lakota - Giù la Testa

#PER CHI AMA: Blues Rock, Rainbow
Il secondo indiavolato album degli Etruschi from Lakota propone un cozmik-folk rutilante e pireticamente imbevuto di danza barra militanza. Nel calumet, una devota e circostanziata attenzione nei confronti del rock italiano, tutto il rock italiano, eppure permeata da (mica tanto) sparute, stuzzicose velleità citazionistiche (Jimi Hendrix innanzitutto, "Hey Joe" nell'incipit di "Super", oltre alla dovecazzutamente devota "Jimi", ma anche i Rainbow di "Still I'm Sad" in "Stivale", o i Led Zeppelin di "Moby Dick" in "Super" e... beh, divertitevi a individuare le altre). Le canzoni si trovano all'intersezione di traiettorie musicali sovente diametrali, penzolanti e pericolosamente libere. Se vi aggrada, il gioco degli abbinamenti si fa mano a mano più ardimentoso. Beck vs. Pan del Diavolo ("Eurocirco"). Rainbow vs. Skiantos ("Stivale"). Dr. John vs. Lucio Dalla ("Giù la Testa"). Beck vs. Rino Gaetano ("Bidibi Bodibi Bu"), Portishead vs. Afterhours ("Quando Vedo Te"), Jimi Hendrix vs. Biglietto per l'Inferno (la super-lativa "Super"). C'è tanto altro nel disco. Ma svelare tutto qui sarebbe un vero peccato. (Alberto Calorosi)

(Phonarchia Dischi - 2017)
Voto: 80

https://www.facebook.com/EtruschiFL/

sabato 24 marzo 2018

Porno Teo Kolossal - Monrovia

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
Pasolini dichiarò che con il suo film, Porno-Teo-Kolossal, scritto per Eduardo de Filippo, avrebbe concluso la sua carriera di regista. Ahimè, di quel suo progetto rimangono solo poche decine di pagine, a causa della sua prematura scomparsa. In tributo al poeta maledetto, ecco arrivare questa band torinese con un sound che avrebbe reso fiero l'indimenticabile intellettuale italiano. 'Monrovia' è il secondo cd rilasciato da questi folli musicisti, un trittico di pezzi di complessa assimilazione che narrano dell'Isolotto 5, un santuario poco distante dalla capitale della Liberia, Monrovia appunto, ove vivono 66 scimpanzé, sopravvissuti ad una serie di sperimentazioni attuate nel New York Blood Center e ora pensionati in questa sorta di Monkey Island. I 1401 secondi di "Trip to Monrovia" sono un ipnotico viaggio verso l'ignoto, sorretto da suoni ambient e drone ultra avanguardistici, che svelano la contorta natura di questi artisti e delle difficoltà che accompagnano l'ascolto di un simile lavoro. Un album che non è da vivere come un lavoro musicale, piuttosto direi un'esperienza sensoriale, un filmato senza immagini, un esempio di arte complessa in cui confluiscono non solo arti figurative, ma pure visive, ove l'unico suggerimento che mi sento di dare è quello di socchiudere gli occhi e vivere al 100% ciò che l'ascolto di simili sonorità può offrire. Dal coro litanico di bambini, alla tribalità di un drumming dal forte sapore etnico, alla tiepida comparsa di chitarre in acido per giungere ad atmosfere surreali che non possono che generare fenomeni catartici. Scrivevo all'inizio di un lavoro di difficile assimilazione, lo confermo dopo i 23 minuti della sua sperimentale opening track, una song che sembra provenire dai sogni più distorti e psichedelici dei Pink Floyd più visionari, in grado di minare la nostra salute mentale, con suoni alla fine quasi alieni. I successivi 1113 secondi della title track non sono da meno: sembra quasi essere giunti nel centro della capitale africana e lì abbandonarsi agli odori e suoni di una città in totale fermento. Peccato solo che quelle voci che si sentono in sottofondo siano in italiano, sarebbe stato forse più suggestivo udire magari vocalizzi africani. Ovvio, poi non sarebbe passato quel messaggio provocatorio che emerge durante l'ascolto della traccia, parole non gettate al vento ma messaggi chiari e mirati, inseriti in un contesto sempre più alienato ed alienante che trova modo di rigenerarsi in un break acustico prima di una seconda metà del brano in cui si spiega esattamente cosa fosse l'isola delle 66 scimmie e la metafora di quell'isola con il mondo attuale. Quello che poi ho trovato più potente e drammatico allo stesso modo è stata una frase "il futuro è il medioevo". Parole pesanti, presagio di un futuro non troppo distante da quello che sta accadendo al nostro mondo malato, che s'insinuano in un suono schizofrenico, imprevedibile e totalmente insano. Si giunge cosi stremati ai conclusivi 1049 secondi di "End of the Dark Side", una song che sembra, almeno in apparenza, avere una struttura ancorata al concetto di brano tradizionale, ma che dopo una manciata di secondi, appare chiaro che tradizione, normalità o quant'altro, non fanno parte del mondo stralunato dei Porno Teo Kolossal che si districano attraverso riverberi, propagazioni psych rock progressive, derive droniche e deformazioni spazio temporali che ci conducono indistintamente in ogni angolo del nostro universo. Alla fine 'Monrovia' è un'esperienza sonica, consigliata solo ad un pubblico adulto estremamente illuminato. (Francesco Scarci)

(Dischi Bervisti / Bam Balam Records - 2018)
Voto: 80

Sundran - S/t

#PER CHI AMA: Post/Techno Death
Il post metal non ha ancora esaurito tutte le sue cartucce. Dalle più svariate parti del mondo continuano infatti ad emergere nuove realtà devote a questo genere e ai soliti maestri Isis e Neurosis. La band di oggi arriva dal Canada, West Coast per l'esattezza. I Sundran sono infatti un trio di Vancouver, formatosi quattro anni fa e con all'attivo un EP, 'Another Place', e questo nuovo omonimo album di debutto. Partiamo subito col dire che, sebbene si citino Mastodon e Gojira tra le loro influenze, francamente poco o nulla di questi riferimenti ho trovato nella musica dei nostri. Si perché, "Diving" e soprattutto la seconda traccia, la title track, palesano nel loro "tiepido" incedere, influenze mai troppo celate provenienti piuttosto dai bostoniani Isis. Una ritmica lenta e fragorosa, stemperata da una musicalità sempre all'insegna di una ricercatezza melodica, urla potenti ed un'ambientazione costantemente cupa e misteriosa, con raffinati giochi di chitarra che potrebbero semmai richiamare i Tool nei loro chiaroscuri, costituiscono gli ingredienti chiave della musica dei Sundran. La voce del frontman si conferma uno dei punti di forza dell'ensemble canadese, cosi come le sezioni introduttive cosi atmosferiche di ciascun brano. "Vexed" è pezzo bello pesante: ritmica compassata, qualche cambio di tempo, soprattutto quello che interrompe con una deflagrazione post-black, l'avanzare angosciante dei tre musicisti. Buona l'idea di tenere incollati tutti i pezzi tra loro come se ci fosse un sottile filo invisibile che li tiene uniti l'uno all'altro. Ecco perché non mi accorgo neppure che nel frattempo sia esplosa nel mio stereo la psicotica "Scavengers", visto questo flusso continuativo del disco. Forse qui emergono alcune citazioni che riportano ai Gojira, con quelle sue chitarre sincopate e una veemenza generalizzata che avvolge l'intero lavoro e alla fine mostra ottimi spunti in un ambito che sembrava aver detto tutto o quasi. Il sound è qui davvero grosso, il classico muro imperforabile che ci introduce alla quinta song, "Impasse", una scarica adrenalinica di tre minuti di chitarre ribassate, un cartavetroso screaming che si alterna con un growling assai possente. Il sound si fa comunque sempre più poderoso e nella strumentale "The Fly", sembra essersi tramutato definitivamente in bordate death metal, a cui aggiungerei anche l'aggettivo techno. A chiudere il disco, ci pensa "Sink", l'ultima mastodontica traccia che si muove tra sonorità sludge, post-metal, black e techno death, che rappresenta la summa di un cd davvero intrigante che ha l'ultima sorpresa in serbo per noi, ossia la riproposizione di tutti i brani in formato strumentale. Come prima opera, direi decisamente ben fatto. Mi tengo però mezzo punto più basso, perché credo fermamente nelle potenzialità ancora inespresse di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 75

giovedì 22 marzo 2018

Black Banana - The Great Wazoo

#PER CHI AMA: Psych/Hard Rock
I Milanesi (di provincia) Black Banana (BB) s'incontrarono qualche anno fa per dar vita ad un progetto scanzonato che trasuda hard rock vecchia scuola. Nonostante le evoluzioni dei generi, le contaminazioni con l'elettronica, folk ed altro, i BB hanno scritto dieci brani (più una cover) con l'obiettivo di creare un vademecum per nostalgici e novellini. 'The Great Wazoo' si presenta in un digipack semplice e curato, prodotto dalla Verso del Cinghiale Records, piccola etichetta indipendente che ha diverse band punk/rock interessanti nel proprio catalogo. "Stop Runnin'" ha la responsibilità di aprire l'album dei BB e si parte di brutto con chitarroni spavaldi, basso molesto e batteria pulsante per una brano veloce e pieno di groove. Il cantato in inglese regala l'atmosfera giusta, grazie anche alla grinta e con i cori che rafforzano là dove serve. Già in questi tre minuti abbondanti si sentono tutte le influenze che hanno forgiato i BB, il meglio dell'hard rock degli ultimi trent'anni soprattutto d'oltreoceano. "The Devil's Lips" parte veloce e gioca molto sugli stop & go che movimentano la struttura del brano, a cui vengono saggiamente aggiunti allunghi di ritmo, assoli e quant'altro. Anche il testo non si smentisce, restando sui temi cari dell'hard rock quali alcool, donne e tutto quello che fa bruciare una vita altrimenti scialba e piatta. Saltando qualche traccia si arriva a "Revelation" che ci mostra il lato più oscuro della band, un momento di riflessione per mettere sul tavolo le cose fatte, i progetti falliti e le vittorie portate a casa con i denti. L'inizio tenebroso è affidato alla chitarra grazie all'ebow che crea un layer continuo quasi fosse un sintetizzatore, poi basso e batteria danno il ritmo alle chitarre che possono cosi unirsi al crescendo. Il vocalist sussurra leggero all'orecchio dell'ascoltatore preparandoci all'esplosione rock che arriva prepotente non per i suoi suoni granitici, ma per il groove tanto spontaneo quanto curato nei dettagli. Lo stesso vale per gli arrangiamenti studiati nei minimi particolari, sempre ben curati ed azzeccati, questo per dire che i BB sono dei gran musicisti e meritano grandi cose nel loro prossimo futuro. La cover di "Iron Zion Lion" è una chicca assoluta, il rifacimento del celebre brano di Bob Marley è un perfetto connubio tra rock e reggae, dove i BB sono stati dei geni a fondere suoni e ritmiche in maniera perfetta. Il featuring con la brava Ketty Passa alla seconda voce corona un successo meritato perchè se si reinterpreta una cover con un tale risultato, vuol dire che si hanno le palle quadrate, quindi standing ovation. L'album chiude con "Wonder Drugs" che, nonostante sia l'ultimo brano, ha tutte le carte in regola per essere un singolo di tutto rispetto. Oltre alla consolidata profusione di rock, la band si diverte a giocare un po' sulle ritmiche e il cantato, quasi fossero alla fine di un concerto ben riuscito e il calo di adrenalina li fa osare un po' di più. Bravi, nella vita bisogna sapersi prendere in giro e non calarsi troppo nella parte dei duri e cattivi. Tirando le somme, ci troviamo di fronte ad una band ben preparata che produce rock di qualità, cinque musicisti che hanno ancora tantissimo da dare al pubblico. Questo 'The Great Wazoo' è un lavoro meritevole di attenzioni, quindi accaparratevelo senza indugi e lasciatevi trasportare dal rock nella sua forma più pura e longeva. (Michele Montanari)

(Il Verso del Cinghiale Records - 2017)
Voto: 80

https://soundcloud.com/marcello-gatti-1/sets/the-great-wazoo

mercoledì 21 marzo 2018

Colonnelli - Come Dio Comanda

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, IN.SI.DIA
Dopo il successo rimediato (anche su queste pagine) nel 2015 con il debutto 'Verrà la Morte e avrà i Tuoi Occhi', tornano i toscani Colonnelli con un altro potentissimo esempio di thrash arricchito di groove come in Italia siamo soliti produrre. Questo in soldoni 'Come Dio Comanda' (chissà se ci sono poi delle interconnessioni con il libro omonimo di Ammaniti o il film di Salvadores): 11 tiratissimi pezzi a cavallo tra il sound dei nostrani IN.SI.DIA e quello prodotto nella Bay Area da tizi del calibro di Testament e ultimi Metallica, tanto per citare un paio di nomi a caso. Parte la brevissima intro ed è già tempo delle ritmiche infuocate di "Amleto", song che non arriva nemmeno ai tre minuti ma che ha quella giusta tensione per tirarti dentro al vortice creato dai tre ragazzoni di Grosseto che, sfruttando l'utilizzo della lingua italica, hanno di sicuro parecchio appeal all'interno dei confini nazionali. Sfibrato dal primo assalto, ecco giungere la title track, grossa e incazzata a livello ritmico ma con l'approccio vocale che a me continua a ricordare i bresciani IN.SI.DIA. Non male i cori, ancor meglio la caustica componente solistica, peccato solo per la durata esigua inferta dalle acuminate sei corde. La scelta di offrire pezzi di breve durata riguarda un po' tutti i brani: dai tre minuti scarsi della dinamitarda "V.M. 18", ai tre e mezzo della più ritmata "Festa Mesta" (peraltro cover dei Marlene Kuntz, ormai datata 1994) che è stata peraltro il singolo apripista dell'album, lo scorso agosto 2017. Una sola eccezione per ciò che concerne le durate, quella della conclusiva "Lochness", che in ben oltre otto minuti, mostra una veste inizialmente più controllata e decisamente alternativa per Leo Colonnelli e soci, ma che poi si lancia in una coda assai feroce che trova un punto di interruzione in una trentina di secondi che precedono una sorta di ghost track autocelebrativa. Mi fa sorridere la scelta di alcuni titoli dei brani: "Sangue ad Alti Ottani" ad esempio, dove il testo recita "ho bisogno di te sabato sera per picchiarti a sangue o macchiar le lenzuola", in un qualche modo mi riporta indietro di una buona ventina d'anni. Ancora, "Demoni e Viscere" o "Il Blues del Macellaio" denotano una certa originalità e ricercatezza a livello di liriche. La musica continua poi con quel suo sostrato thrash metal, su cui si stagliano virate di tempi, rasoiate solistiche e ritornelli ruffiani, per un album che alla fine sembra suonare senza tempo. (Francesco Scarci)

((R)esisto Distribuzione - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/ICOLONNELLI/

martedì 20 marzo 2018

Meteor Chasma – A Monkey Into Space

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss
Il passaggio dalla lingua italiana alla lingua inglese ha giovato molto alla band potentina dei Meteor Chasma, che si presenta con un lavoro adulto e credibile, 'A Monkey Into Space', uscito nel 2017 e distribuito dalla Music for People, un album potente, psichedelico e dal suono praticamente perfetto per la materia musicale in questione, ossia il buon vecchio stoner rock, quello della prima era, quello degli anni novanta/primi anni duemila. Le chitarre caricate di bassi, la voce roca e vissuta che richiama gli Spiritual Beggars con Spice alla voce, gli ammiccamenti ai Kyuss in "Spacetime", e gli echi dei Desert Session ed Orange Goblin, la psichedelia alla maniera dei Pink Floyd in "Ride a Meteor", le cadenze blues pesanti come massi (a ricordare il primo superbo album dei Grand Magus), ricordando anche un che di 'Jalamanta' del buon Brant Bjork per i temi trattati a sfondo cosmico e spaziale e i tanti rimandi allo stoner più sanguigno e ruvido infestato da correnti di fluida psichedelia, fanno di questo disco una sorta di enciclopedia del genere in formato tascabile. Un lavoro ragionato e ricercato, studiato ad effetto in tutti i suoi particolari per estrapolarne il suono perfetto, ovviamente derivativo e poco originale ma decisamente sopra la media, direi vicino all'intensità sonora dei capiscuola. Una band che ha fatto passi da gigante rispetto al primo EP cantato in lingua madre, che merita rispetto per l'impegno dato e la caparbietà con cui ha voluto calcare i passi delle migliori stoner band, riuscendoci pure, un trio che può dare tanto all'underground italiano, ricercando una propria veste ancor più originale in questo genere musicale. L'album non cade mai di tono e si ascolta tutto d'un fiato ad alto volume, peccato per un artwork che non rispecchia precisamente il tipo di psichedelia pesante che la band suona. Un lavoro comunque contagioso, un disco che fa venir voglia di tornare a scoprire le radici dello stoner rock. L'ascolto di 'A Monkey Into Space' è come minimo consigliato, non vi deluderà! (Bob Stoner)

(Music for People/GoDown Music - 2017)
Voto: 75

https://meteorchasma.bandcamp.com/album/a-monkey-into-space

lunedì 19 marzo 2018

Suffer in Paradise - Ephemere

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken
E se anche il paradiso può essere visto come luogo di sofferenza, allora qualcosa di malato dietro a questi russi Suffer in Paradise ci deve pur essere. 'Ephemere' è il secondo album rilasciato dal combo di Voronezh dal 2014 a oggi, quando si sono riformati per la seconda volta, dopo un primo scioglimento tra il 2010 e il 2014 appunto. Il genere di cui si fanno portatori è, manco a farlo apposta, quello del funeral doom, d'altro canto stiamo parlando di una band sotto contratto con la Endless Winter. Pertanto, negli oltre 60 minuti a disposizione, diluiti su sei vere tracce (c'è anche una breve outro), i quattro musicisti si lanciano in inni votati alla disperazione umana. L'opener, nonché title track dell'album, è un tunnel infinito senza fine, dove nemmeno il classico lumicino di speranza è dato al condannato a morte. Una song sfiancante che, pur non viaggiando su toni pesanti, affida tutto il suo essere estremamente opprimente, ad una forte componente atmosferica che trafigge l'anima, grazie ad un incedere cosi lento e deprimente, che mi lascia affranto senza parole. E l'aria asfissiante in stile Evoken non ci abbandona nemmeno nella seconda "My Pillory", dove anzi l'ambientazione si fa ancor più cupa, con un riffing appena accennato, un break corale, in cui sembra il coro di angeli depressi a prendersi la scena, ed infine il classico growling primordiale. Poi sono i tipici cliché a palesarsi: l'immancabile organo da chiesa, la tipica aura funeral e qualche break acustico che ci permette di emergere almeno per alcuni secondi dalle tenebre più profonde. Addirittura una sorta di assolo chiude una canzone che risuona come un invito alla cessazione della vita. L'inizio di "The Swan Song of Hope" si offre con più eleganza almeno fino a quando rientra in scena il growling possente di A.V. in una song sicuramente tanto maestosa quanto ridondante a livello ritmico che lentamente cresce d'intensità, di potenza, di personalità in un finale da brividi che trova modo di rompere anche le strutture compassate del funeral doom con raffinate partiture ritmico melodiche. Si ripiomba comunque nelle viscere del mostro con "The Wheels of Fate", un altro pezzo all'insegna della monoliticità di fondo di un suono coerente dall'inizio alla fine. Un muro di cemento contro cui scontrarsi e dove lasciare la nostra vita ormai privata di ogni significato. Un pianoforte apre la catacombale "The Bone Garden" che, a parte palesare una certa debolezza a livello del drumming a causa di una programmazione troppo sintetica, si dilunga in aperture di strumenti ad arco che ne enfatizzano il pathos drammatico. Ancora suoni a rallentatore con "Call Me to the Dark Side", l'ultima marcetta funebre di quasi dodici minuti a cui seguono a ruota i due di outro che chiudono un album a dir poco oscuro e pachidermico, ma alla fine, sicuramente estenuante. Only the braves! (Francesco Scarci)

(Endless Winter - 2017)
Voto: 70

https://sufferinparadise.bandcamp.com/

venerdì 16 marzo 2018

Ghâsh - Goat

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Rock
Altra one-man-band proveniente dal Cile, questa volta capitanata da Mr. Ghâsh, che con il suo progetto omonimo, assicura i propri servigi per la cannibale Pest Productions. Come spesso capita, le produzioni della potente etichetta cinese, sono all'insegna di suoni depressive e blackgaze, che viaggiano a cavallo tra black e post-rock. E la band di oggi, originaria della capitale cilena, non è da meno, con un lavoro di sei deliziosi pezzi, che ci guidano da 'Fenix" fino alla conclusiva "Goat", attraverso chiaroscuri malinconici, luci e ombre, saliscendi emotivi, torrenziali flussi sonici e cascate melodiche. Il tutto è guidato da splendide chitarre in tremolo picking, screaming vocali, tonnellate di riverberi e montagne di atmosfere catalizzatrici una straziante malinconia interiore, quella che fa versare lacrime quando pensi a ricordi mai assopiti, ad amori andati o a persone care perdute. Ecco cosa mi ha portato l'ascolto di 'Goat', un breve gioiellino di musica che non ha le pretese di colpire per la sua perizia tecnica o le acrobazie musicali dei suoi esecutori, ma semplicemente vuole arrivare dritta al cuore, sfruttare quella sua intensità e colpirci nel nostro punto più debole, l'anima. E là, conquistarci. Dite poco? Ghâsh con me ci è riuscito. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2017)
Voto: 80

https://pestproductions.bandcamp.com/album/goat

giovedì 15 marzo 2018

Oregon Trail - H/aven

#PER CHI AMA: Post-Hardcore
Da Neuchâtel, la città più felice della Svizzera, ecco arrivare gli Oregon Trail, fuori per la Czar of Bullets, con un lavoro dedito ad un post-hardcore, aspro ed incazzato. 'H/aven', il titolo di questo loro secondo album (compare anche uno split nella loro discografia), include otto pezzi che irrompono con l'energica "Sun Gone Missing", song dalla lineare andatura punk, contraddistinta da una voce rabbiosa e soprattutto da delle melodie assai intriganti. Quasi quattro minuti che ci accompagnano a "Aimless at Last", in cui l'atmosfera si fa più cupa, e in cui il ruolo di assoluta protagonista se la prende la voce di Charles A. Bernhard, anche chitarrista che insieme a Jonas Roesti, si lanciano in lunghe fughe in tremolo picking, in grado di donare quel mood malinconico all'intero lavoro. Più tranquilla l'introduzione che ci porta al cuore di "Everlasting Walks", un'altra traccia che rivela l'anima inquieta del quartetto svizzero e che mostra l'abilità alle pelli del bravo Arnaud Martin. Non vorrei non menzionare anche il lavoro oscuro in sottofondo del bassista Antoine Dollat, sempre preciso e tonante nelle sue linee di accompagnamento alle due asce. I nostri devono essere comunque dei timidoni, aprendo ogni brano con una certa contemplazione, prima di esplodere in brani più arrembanti: non è da meno anche "Aven", che forse prolunga per più tempo la fase onirico/riflessiva prima di deflagrare in modo ancor più eruttivo, tutta la propria rabbia repressa in un finale incandescente. "Safety of the Storm" ha un carattere diverso, più feroce inizialmente, più tranquilla nella parte centrale al limite del post-rock, ma si capisce subito che quel momento di falsa atmosfera non è altro che la classica quiete prima della tempesta che da li a pochi secondi si abbatterà sulle nostre teste. La furia non si placa, sembra anzi trovare spazio per risuonare ancor più aggressiva degli episodi precedenti: "Hound's Will" prima, ancor di più "Candles" e la stralunatissima e doomish "Marble Grounds", sono pezzi in cui si fondono punk, sludge e post-hardcore, ma in cui si guarda anche a band quali i Deafheaven come potenziale esempio grazie all'utilizzo delle classiche sgaloppate post-black. Acidissimi. (Francesco Scarci)

(Czar of Bullets - 2018)
Voto: 70

The Negative Bias - Lamentation of the Chaos Omega

#FOR FANS OF: Atmospheric Black
The Negative Bias is a rather young Austrian band formed in 2016. The band´s core is formed by only three members who are I.F.S (Wallachia and Rauhnåcht), S.T (Golden Dawn) and Florian Musil, but it’s completed by other four members during their live performances. The band´s lyrics are based on the cosmic mysticism, the abysmal darkness of the space and the coexistence between creation and death. Only one year from its inception, the band was able to release a first album entitled 'Lamentation of the Chaos Omega', with a quite eye-catching album artwork. I did like it because it’s a perfect visual representation of the aforementioned band´s conceptual inspiration.

Music wise The Negative Bias could be tagged as atmospheric black metal, but with a quite straightforward approach like the album opener “The Golden Key to a Pandemonium Kingdom” shows us. The guitar lines play a major role, always accompanied by a pretty solid and fast rhythmic section. The first half of the album follows a similar style: long songs with pretty long fast sections with a couple of tempo changes. The length of songs is pretty homogeneous with the exception of the third track, which is a quite short song. This track also differs a little bit from the rest of the compositions, due to the more distorted nature of the main riff. The vocals are the strongest aspect of this album though. I.F.S. achieves a quite strong vocal performance which varies from death metal esque vocals to a more “blackish” shrieks. I personally find the second half of the album the most interesting one, mainly because songs like “The Undisclosed Universe of Atrocities”, have a greater variety. This track has several twits and interesting riffs, besides some atmospheric sections which make it the best song of the cd. The album contains a purely atmospheric track which fails to enhance the album´s atmosphere due to its excessively lengthy duration. It has some good moments but it should have been shorter.

In conclusion, The Negative Bias first release is a decent album with some good moments, but I believe that it fails to represent the incommensurable darkness of the concept behind their music. What is more, when you take a look to the artwork you expect an album much darker than it really is. A good start for sure, but still with a great room to improve. (Alain González Artola)

(ATMF - 2017)
Score: 65