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lunedì 29 settembre 2025

Mylingen - Svartsyn

#PER CHI AMA: Black/Doom
Un altro gruppo fuoriesce dalle nebbie scandinave. Si tratta del duo svedese dei Mylingen, al loro terzo capitolo in discografia con questo nuovo EP, 'Svartsyn', dopo un full length e un altro EP, quello di debutto. E dalle fredde lande della Svezia che attendersi se non un black dalle tinte melodiche, forse anche legato alla militanza di Viktor Jonas negli Apathy Noir. Il risultato che ne viene fuori è comunque assai confortante tra scudisciate black, arpeggi folk e partiture doom, che mi hanno portato a pensare ai nostri come la risposta europea agli Agalloch sin dalla title track che apre il dischetto. Fatto sta che la band mi seduce sin dal primo ascolto con la propria furia black controllata, che si palesa attraverso riff acuminati, i classici tremolo picking ad amplificare la componente melodica, break acustici (presenti un po' ovunque lungo tutto il lavoro), eterei passaggi tastieristici e uno screaming lacerante, che sa il fatto suo, a completare un lavoro che sembrerebbe già avere connotati di maturità di un certo tipo. "Hatets Avgrund" parte a mille per rallentare quasi immediatamente; ma è la parte centrale a colpirmi per le sue affascinanti melodie ancestrali, figlie probabilmente di un retaggio folklorico che ben va a braccetto con l'intermezzo acustico che segue e amplifica la portata emotiva del brano. La chiusura è affidata all'intensità alchemica di "Månens Kraft", un brano di oltre nove minuti, in cui ci ho sentito un che di viking nelle note iniziali, prima che cedessero il posto a chitarra acustica e keys in un suggestivo intermezzo malinconico, per poi lasciarsi sopraffare dall'asprezza delle chitarre che vanno a chiudere veementemente, ma anche con una certa eleganza, una release sicuramente intensa, tagliente, epica, e a cui concedere senza esitazione una chance d'ascolto. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 75

Napalmed - Never Mind the MSBR, Here's the Napalmed + Misch Masch Miksasch

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
 
#PER CHI AMA: Electro Noise/Drone
band, attiva sin dal 1994, si è sempre dedicata alla sperimentazione e alla manipolazione sonora muovendosi tra noise, power electronics, industrial e compagnia bella. Con all’attivo centinaia di live show e numerose produzioni pubblicate su split tape, split 7”, compilation etc, avevano (ai tempi di quest'uscita) come uscita più importante lo split cd con Merzbow intitolato 'Crash of theTitans'. Ma iniziamo a dare un ascolto a questa folle release: immaginate un'enorme macchina da guerra simile a quella della copertina di 'Rrröööaaarrr' dei Voivod, e pensate di starci dentro con l’obiettivo di distruggere tutto ciò che vi circonda e di non lasciare intatto nemmeno un mattone. Queste sono pure le immagini che evoca l’harsh industrial di 'Never Mind...', una release di soli due pezzi ma della durata di oltre settanta minuti di sperimentazioni noise. Non potrete non divertirvi (e lasciarvi scappare un ghigno di soddisfazione) ascoltando questo potente lavoro che comunque rimane sempre sintonizzato su frequenze pacate ed ovattate come se appunto steste sentendo, dall’interno del vostro cingolato, il fragore della distruzione che state provocando. Indossate quindi la mimetica, gli anfibi e delle buone cuffie e all’attacco! Il secondo 'Misch Masch Mikesasch' è un lavoro composto da quattro brani di varia natura, forse più isolazionista. Il primo brano ("Slatemic Sounds") è composto da lievi suoni percussivi metallici effettati e campionamenti che possono dare l’idea di una costruzione in bilico che potrebbe improvvisamente crollare. "No Name" è un ensemble di suoni di microdistruzioni su un sottofondo noise. "Roomfullscapes" è un impasto dronico creato con feedback e modulazioni varie. E a chiudere il delirio, "Hey Saroy, Show me Your Guts!" è pura power electronics sanguinosa.

(Self - 2002/2001)
Voto: 70

Wurmian - Immemorial Shrine

#PER CHI AMA: Death/Doom
I Wurmian sono una one-man-band francese guidata da Antoine Scholtès, il classico polistrumentista che un bel giorno (era il 2024) si è svegliato e ha deciso di mettere su una band, anche se l'artista di Clermont Ferrand, ha in realtà altri due progetti, i Lyrside (che suonano melo death) e gli Inherits the Void (dediti a un interessante black atmosferico). Nei Wurmian, Antoine, ha invece pensato di muoversi tra le pieghe di un death melodico vecchio stampo sporcato da derive doom, con 'Immemorial Shrine' a ergersi come debutto assoluto. Un disco di sette pezzi che si apre con le melodie di scuola Amorphis di "Aeon Afterglows". È palese sin dal primo secondo che non ci troviamo però di fronte alla classe dei gods finlandesi, e che il progetto è ancora in fase embrionale e merita qualche aggiustamente per trovare la sua più giusta configurazione. Però la melodia delle chitarre ha sicuramente una certa vena catchy che in un qualche modo cattura l'ascoltatore, soprattutto nella parte più atmosferica di metà brano, senza tuttavia rinunciare a una certa ruvidezza negli arrangiamenti o in alcune frequenti sfuriate ritmiche. Anche l'incipit della title track mostra forti reminiscenze verso i finlandesi e sicuramente questo sembra rappresentare il punto di forza dei Wurmian. Da rivedere invece forse la sezione ritmica, che ha un'intelaiatura dal piglio decisamente furibondo e old school, che forse tende a far perdere il focus sul sound proposto. Decisamente meglio laddove il musicista francese rallenta, rasentando territori doom alla October Tide, prestando più attenzione alla cura dei dettagli, come accade negli ultimi 90 secondi della stessa traccia. In stile Katatonia invece la terza "Haven", in cui è più evidente la ricerca di freschezza nelle linee melodiche e nel break di tastiera attorno al secondo minuto, con un giro di chitarra in sottofondo ancora a evocare i master svedesi, al pari di altre intersezioni di melodia verso il terzo e quarto minuto, quasi a voler dare modo di riprenderci prima della battaglia pronta a incombere. La voce si conferma qui, ma in generale ovunque, assai roca, un growling robusto, e forse troppo ancorato agli anni '90, su cui farei magari qualche aggiustamento. "Spires of Sorrow" si muove sulla falsariga, iniziando più roboante per poi assestarsi su un mid-tempo, per poi assestare qualche scheggia di death nudo e crudo qua e là, evocante gli At the Gates e gli Entombed. Il lavoro dei Wurmian prosegue poi sostanzialmente seguendo un canovaccio piuttosto simile, mettendosi in mostra nelle parti più atmosferiche di "Yearning Unseen", nel break centrale di "Sleeping Giants", che mi ha portato alla mente gli albori death/doom dei The Gathering (quelli senza Annecke), al pari della conclusiva e sempre (fin troppo) coerente "The Everflowing Stream", per quello che definirei il più classico dei tuffi nel passato, per una sorta di riaffermazione di suoni che mancavano tra i miei ascolti da un bel po' di tempo. (Francesco Scarci)

(Pest Records - 2025)
Voto: 68

The Pit Tips

Francesco Scarci

Amorphis - Borderland
Paradise Lost - Ascension
Anfauglir - Akallabêth

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Alain González Artola

Bloodywood - Nu Delhi
Sepulchre - Psalms Unto Caesar
Slaugther to Prevail - Grizzly

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Death8699

Cradle of Filth - Dusk...and Her Embrace
Falconer - Falconer
Grave - Fiendish Regression

3 - Antichristian Kaos

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Raw Black/Industrial
Già fidato collaboratore di Agghiastru, Kaos si presenta come l'unico artefice di questo entusiasmante progetto di black metal industriale. Non c’è il minimo calo d’intensita nei tre brani che compongono il demo, che nella versione su bandcamp in realtà, include tre bonus track addizionali (incluse nello split 'Mediterranean Scene Bonus Blood' con "Malamore" e il suo incipit di "dimmu borgiriana" memoria a palesare un sound decisamente più pulito e maturo): la chitarra si muove tra riff spezzati, altri relativamente melodici ed altri ancora più classici ma sempre coinvolgenti. Le parti di batteria, grazie ad una buona programmazione e a degli efficaci suoni industriali, sono costantemente presenti, ricche, pesanti, pazzescamente veloci, e dall’incessante ritmo distruttivo. Ci sono brevi parti di pura elettronica ("Infernal Sterminiu" è un esempio lampante); le tastiere sono sempre presenti e spesso con un ruolo primario nell’economia delle linee melodiche. La voce è uno screaming lancinante, effettato e malsano. Bisogno d’altro?

(Inch Productions - 2001/2014)
Voto: 70

giovedì 25 settembre 2025

Dark Solstice - Where Black Stars Beckon

#PER CHI AMA: Melo Death/Symph Black
Quello dei bavaresi Dark Solstice è un debutto assoluto, un EP che segna l'inizio di una nuova era per una band che vede comunque musicisti aver militato in precedenti formazioni, come Agathodaimon e Ristridi. 'Where Black Stars Beckon' contiene solo tre tracce, che forse non sono del tutto sufficienti per delineare la proposta di questa nuova entità teutonica. Il lavoro si posiziona infatti inizialmente sulla linea di galleggiamento di un melodeath, contaminato da influenze più moderne, dark/gothic grooveggianti. Un mix interesssante, che nell'iniziale "Pathways", mi obbliga piacevolmente a tenere l'orecchio sul pezzo: partenza in sordina, una buona dose di melodia, una ritmica compassata, un discreto growl, una cascata di riff, una certa varietà nei tempi, chorus puliti e qualche zampata di black melodico dal taglio scandinavo, che non guasta mai. E il gioco è fatto. Più classica e rocciosa invece la successiva "Open", che sfodera un riffing groove che marcia oppressivo e furente, mentre il cantato di Jonathan Rittirsch spinge al limite la propria ugola. Il brano sembra scivolare via senza fare una piega, tuttavia la ritmica va mutando verso sonorità quasi symph black, a ricordarmi da dove sono venuti gli Emperor a metà degli anni '90. Un cambio di rotta inaspettato rispetto al primo pezzo. E un nuovo cambio di rotta con la traccia finale, la title track, che si affida a una buona linea di tastiere per aprire le danze e lanciarsi poi in un cosmic black che per certi versi mi ha evocato i Mesarthim, fatto salvo per un growling sempre più orientato verso lidi death, e aancora giri di chitarra decisamente ricchi di groove (per non parlare di un assolo da urlo). Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, potremmo sentirne delle belle, quando a breve, mi aspetto di poter ascoltare un più strutturato full length dei Dark Solstice. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

Skyforger - Teikas

#PER CHI AMA: Pagan/Folk
Nel panorama del folk metal europeo, dove le tradizioni antiche si fondono con la furia del metal estremo, gli Skyforger rappresentano un pilastro indiscusso, una band che dal 1995 a oggi, ha portato con fierezza la voce della propria eredità culturale. 'Teikas" è il settimo album dell'ensemble lettone, che da sempre mescola pagan metal con elementi folk autentici, e ancora oggi mantiene un ruolo centrale nella scena, quasi come se fossero i custodi di un prezioso segreto. Il nuovo lavoro segna un gradito ritorno, dopo un preoccupante decennio di silenzio discografico. Il disco è influenzato dalle radici black metal dei primi lavori (e "Dieva Suss" già conferma questo spirito indomito) ma arricchito da un folk più maturo e narrativo, confermando i nostri come un punto di riferimento per chi cerca un metal che sia al tempo stesso brutale e culturalmente profondo, complici anche liriche che affrontano miti e leggende della tradizione lettone. Gli arrangiamenti poi sono stratificati e organici, con un uso di strumenti folk, mai invasivi, come cornamuse e flauti, che s'intrecciano a riff black/speed metal affilati e una batteria martellante, creando un contrasto tra aggressività e melodia epica. La voce di Pēteris Kvetkovskis al microfono alterna growl feroci a un cantato pulito. Per quanto riguarda i brani chiave, citerei "Spēlmanis", che palesa una certa vena speed metal, arricchita da lievi derive folkloriche. Ottima quella linea di basso potente che apre invece la più roboante "Spīgana", mentre "Mājas Kungs" si distingue per la sua tellurica intro, l'intensità epica, e un rifferama compassato che marcia, rutilante, alla stregua di un corteo funebre, e si muove tra porzioni atmosferiche quasi fiabesche, merito di un flauto che si guadagna la scena per la melodia che rilascia. Una chitarra poi ne raddoppia il suono per prenderne successivamente il posto e lanciarsi in un bell'assolo, elemento che di certo non scarseggia in questa release. E se l'incipit di "Rex Semigalliae" sembra uno dei vecchi pezzi acustici degli In Flames, di sicuro quando inizia a premere sull'acceleratore, fa capire come i nostri negli ultimi dieci anni, non si siano certo cullati sugli allori, ma accanto a quel sound che evoca anche i vecchi Annihilator e Skyclad, si divertono ancora a impreziosire il proprio sound con tutto l'armamentario folk in loro possesso e, ciliegina sulla torta, a piazzarci un altro fantastico assolo in chiusura. Le cornamusa aprono "Svētbirzs" e sembra quasi che la band ci voglia narrare qualcosa della storia del proprio paese, in un brano decisamente più controllato rispetto ai precedenti. E se "Velnakmens" lascia intravedere alcune reminiscenze di "Iron Maideniana" memoria nella linea delle chitarre, ecco che zampogne e zampognari, calano quegli elementi etnici per rendere il brano più peculiare. Il disco contiene 13 tracce e sarebbe delirante soffermarsi su tutte, cosi ecco che la conclusiva "Vecie Latvieši" chiude con un finale fatto di ancestrali melodie folk che chiudono un disco che brucia ancora come un fuoco antico. (Francesco Scarci)

(Thunderforge Records - 2025)
Voto: 74

mercoledì 24 settembre 2025

Waste Cult - Blame

#PER CHI AMA: Sludge/Doom/Stoner
È stata una bella sorpresa appurare che i Waste Cult provengono dal nostro Belpaese, Bologna per l'esattezza, e vederli pubblicati dalla Aesthetic Death è stata ulteriore fonte di orgoglio. In una scena doom metal contemporanea poi, dove questo sound spesso oscilla tra revival nostalgici e ibridazioni estreme, i quattro musicisti nostrani si collocano quasi come una voce autentica e introspettiva della scena italica, con 'Blame' che ne segna il debutto sulla lunga distanza. La band si affida a un doom sporcato di venature stoner e post-metal, per dar fiato alla propria voce, provando a consolidare una presenza significativa nell'underground europeo. Per quanto riguarda poi gli aspetti puramente contenutistici del disco, diciamo che ci troviamo di fronte a un lp di 45 minuti, che include otto pezzi, di cui una traccia strumentale ("Kerberos"), che si muovono su un fronte che vede la band proporre un doom classico, ma andando anche a esplorare poi anfratti più moderni. Forti di una produzione equilibrata, il disco si muove con chitarre che dominano attraverso riff potenti e distorti di scuola "sabbatiana", supportati da un bel basso tellurico e da un drumming che varia da ritmi lenti e cadenzati a groove più dinamici. Il primo nome che mi è venuto alla mente durante il mio ascolto è stato quello dei primi (non primissimi) Cathedral (la stoner "Delirium of Manners" mi ricorda parecchio da vicino la band di Lee Dorian e soci) ma anche i Monster Magnet. Questo mi dice almeno l'opener "Ad Astra", che vanta peraltro qualche riffone di scuola Paradise Lost (ai tempi di 'Shades of God'). Più morbida e introspettiva invece la title track, che apre con un tiepido arpeggio di chitarra, prima di sferragliare un rifferama più di matrice post e acquietarsi nuovamente nel caldo abbraccio di melodie crepuscolari. La voce del frontman, sempre pulita, segue un po' pedissequamente i dettami del genere; se la cava bene, ma secondo me c'è spazio per il miglioramento. Altri brani interessanti sono "Blended as One", più atmosferica, più post metal a livello ritmico, più affine anche al mio palato, devo ammettere, fatto salvo sempre per una componente vocale che qui sembra rimanere troppo nelle retrovie. E ancora, ho apprezzato la più ipno-cosmica, "The Warmest Shelter", che si affida a larghi spazi strumentali, mentre il finale consegnato a "Maze", il pezzo più lungo del disco, sembra il giusto compromesso, in bilico tra arpeggi e dinamiche linee di chitarra (e tra vocals pulite e qualche sporadico growl), a chiudere un disco interessante, considerato anche il bagaglio di musicisti che affonda le proprie radici in territori punk/thrash. Diamogli quindi un ascolto a questi Waste Cult e facciamo in modo che la nostra scena si elevi al pari delle altre grandi europee. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 70

martedì 23 settembre 2025

Undead - This Side of the Grave

#PER CHI AMA: Swedish Death
Sembra che in queste ultime sere se non ho piantato nelle orecchie un bel disco di death old school, non riesca a dormire bene. Dopo aver recensito ieri gli svedesi Grand Cadaver, oggi mi ritrovo alle prese con gli spagnoli Undead, che sembrano volermi fare un altro giro nelle lande sconfinate scandinave. 'The Side of the Grave' è il loro nuovo EP, il terzo della discografia che conta anche due full length. Le coordinate stilistiche penso siano piuttosto chiare: Swedish death che ricorda non poco quei suoni emersi dai capolavori dei primi Entombed e Dismember, con le classiche chitarre ribassate, un bel growling chiaro e distintivo, ritmiche serratissime e una solidità di base inamovibile. Se da un lato questi sono i punti di forza del quartetto di Madrid, alla fine si riveleranno anche un inevitabile boomerang, che spinge a dire che l'inventiva dei nostri è pari quasi a zero e che gli originali erano decisamente meglio. Eppure, i brani sono interessanti, diretti, oscuri, addirittura con un pizzico di melodia (il mio preferito è il più ipnotico e morboso "I am the Curse") e con tematiche che evocano addirittura la spiritualità orientale (penso a "Samsara" che rimanda al ciclo buddhista di morte e rinascita). Ottima sicuramente la porzione tecnica (pirotecnico l'assolo di "Blood Enemy") ma quello che mi rimane alla fine dopo l'ultimo brano di questo EP, è una forte sensazione di aver ascoltato qualcosa che emula quello che realmente mi faceva impazzire nel 1991. Peccato solo che oggi siamo nel 2025. (Francesco Scarci)

(Edged Circle Productions - 2025)
Voto: 63

Vigljós - Tome II: Ignis Sacer

#PER CHI AMA: Raw Black/Psichedelia
Dalla Svizzera con furore. È proprio il caso di dirlo. Gli svizzeri Vigljós tornano con un nuovo album, dopo il debutto dello scorso anno intitolato 'Tome I: Apidæ'. Quanto contenuto in questo 'Tome II: Ignis Sacer' è un feroce black metal che vede come tematica principale la vita delle api, si avete letto bene, il cui senso metaforico è da rapportarsi però ai cicli di vita e di morte della società. Per quanto riguarda gli aspetti puramente musicali, la band fonde la freddezza del black metal con elementi più psichedelici (ascoltate la seconda metà di "A Seed of Aberration" per capire meglio la proposta del quartetto di Basilea) e medievali (l'intro "Sowing" o "Fallow - A New Cycle Begins" sono alquanto emblematiche a tal proposito). Quindi se da un lato la proposta nuda e cruda di un rozzo black metal potrebbe suonare alquanto abusata, tra deliranti grim vocals, blast-beat impazziti e chitarre taglienti più di una lama di rasoio, è in realtà poi il contorno ad arricchire una proposta, che rischierebbe di passare totalmente inosservata. E fortunatamente, il risultato non è affatto male, con le ritmiche incendiarie che rallentano in "The Rot", mentre la voce di L, continua a urlare sgraziatamente, e in sottofondo si palesa un po' ovunque, l'eco di un mellotron. Chiaro che non ci troviamo di fronte a chissà quale proposta innovativa: forse l'idea di fondo era quella di mantenere la ruvidezza del black, con giusto una spolverata di elementi psichedelici. Diciamo quindi che ci sono cose apprezzabili, il tentativo di miscelare raw black con elementi esoterici appunto, mentre altre, quelle più puramente ancorate a una tradizione di stampo '90s, che francamente iniziano un po' a stancare (dae un ascolto a "Claviceps" o "Delusions of Grandeur", con quest'ultimo pezzo che puzza addirittura di black'n'roll, ma che per lo meno sfodera interessanti divagazioni dal sapore settantiano). "Decadency and Degeneration" ha un piglio che richiama ancora il black'n'rock, ma le chitarre in sospensione, il vortice di furia incontrollata che si palesa dopo 90 secondi, e quello screaming, alla lunga fastidioso, la ricolloca nei ranghi, dopo poco. Un altro tentativo apprezzabile lo ritroviamo nel sound compassato di "Harvest", che in sottofondo sforna visioni oniriche di doorsiana memoria. Insomma, l'avrete capito, c'è ancora da lavorara affinchè il sottoscritto diventi un fan della band elvetica anche se, devo pur ammettere, di apprezzare il tentativo di portare nuove idee a un genere quasi in fase di stagnazione. E allora serve più coraggio se si vuole fondere tradizione e innovazione e i Vigljós porebbero anche averlo. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2025)
Voto: 64

lunedì 22 settembre 2025

Grand Cadaver - The Rot Beneath

#PER CHI AMA: Swedish Death
Nel vasto universo del metal, spesso orientato verso tendenze fugaci e mode effimere, i Grand Cadaver si ergono come un autentico baluardo di integrità musicale. Questo supergruppo svedese, attivo dal 2020, ha saputo riportare alla ribalta il classico death metal di Stoccolma, infondendovi un'elettrizzante energia brutale che lo rende fresco e intramontabile. Formati da veterani di spicco della scena musicale come Mikael Stanne (Dark Tranquillity), Christian Jansson (Pagandom) e Daniel Liljekvist (ex-Katatonia), i cinque svedesi si sono guadagnati un ruolo di rilievo nel rinascimento old school, mescolando l'eredità sonora di leggende come i primi Entombed, Unleashed e Dismember con una vitalità sorprendente. Il loro ultimo EP, 'The Rot Beneath', condensa in quattro brani l'essenza del loro stile, che sia chiaro, non inventa certo nulla di nuovo. Si tratta di un manifesto sonoro che celebra la tradizione dello Swedish death metal, pertanto aspettatevi chitarre ronzanti e iper ribassate che creano un'atmosfera viscerale di decomposizione, mentre ogni traccia testimonia la loro abilità nel salvaguardare un genere che rifiuta ostinatamente di soccombere al tempo. La conclusiva "Darkened Apathy" si distingue per il suo audace rallentamento, quasi a voler dimostrare che anche nel caos devastante del metal, c'è spazio per momenti di inquietante e deturpante introspezione. Lasciatevi travolgere allora dall'aggressività incandescente delle chitarre, dalle vocalità abrasive di Mikael Stanne e dai bombardanti blast beat di Daniel Liljekvist. Per chi ancora custodisce con reverenza l'inarrestabile potenza dei mostri sacri degli anni '90, i Grand Cadaver sono una band che merita un posto rilevante. (Francesco Scarci) 

(Majestic Mountain Records - 2025)
Voto: 70

Ellereve - Umbra

#FOR FANS OF: Dark/Folk/Post Rock
Ellereve is an Austrian solo project whose mastermind is the German artist Elisa Giulia Teschner. Since her debut effort, 'Heart Murmurs', this project has represented the collision of two forces: one delicate and melancholic, showcasing the most introspective side of the artist, and the other full of force and intensity. The palette of different influences, such as dark folk, doom metal, post-rock, and some blackish touches, forms an enriching number of layers that define what Ellereve offers to the avid listener seeking something soulful and unique.

The latest offer, entitled ‘Umbra’, is another step in Ellereve’s faultless career, a step further into darker realms as the compositions have a heavier, darker, and more intense feeling. The compositions of this album explore complex concepts related to emotions and inner conflicts. Elisa’s hypnotic and deeply emotional voice is undoubtedly the star here, a beautiful yet pale and delicate star surrounded by a vast, gloomy sky. ‘Umbra’ deepens the influences coming from post-metal and doom, even adding some blackened textures. Even though there is no break from what we knew of this project, it presents a more intense musical depiction of her vision. The contrast between the calmest and heaviest sections is a very common, yet always tastefully used resource in this album. "The Funeral" has plenty of these moments, where Elisa’s absolutely stunning and touching voice explores different levels of intensity and tones, while the heavy riffs and solid drums accompany the ups and downs in strength in a very adequate way.

The aforementioned layers of Ellereve’s music are present in another top-notch composition like "Irreversible", where the heavy burden of untold feelings storms the listener in the form of excellent guitars, whether they are heavier or have a more fragile and atmospheric touch. The single "Crawl" certainly deserves to be highlighted, as it is one of the best compositions and probably the catchiest. It contains excellent harmonies that irreparably stick to your head and soul. It was indeed a great choice by Ellereve, as it rightly represents what ‘Umbra’ offers. In any case, I could spend lines and lines describing each song, as all of them have a great amount of work behind them. The approached concept may be the same, but the enriching diversity and excellence in Elia’s vocal lines, the tasteful work in the guitars, and the always variable structure in the compositions create an album that requires many listens to be fully appreciated.

To summarize it in a couple of lines, 'Umbra' by Ellereve is like a stormy day in spring. The intensity and darkness of the storm are accompanied by peaceful moments when even the sun can appear and enlighten us. 'Umbra' is an emotionally intense musical experience, where the singer’s delicate yet powerful voice finds its counterpoint in the powerful riffs, even though all the instruments can adapt their fierceness to what the composition requires. (Alain González Artola)

(Eisenwald - 2025)
Score: 88

La Città Dolente - In a World Full of Nails I Have Got Nothing

#PER CHI AMA: Mathcore/Hardcore/Death
La nuova uscita della band meneghina sotto le ali della Toten Schwan, lascia un ricordo lontano del precedente 'Salespeople', e con un cambio di formazione radicale, porta modifiche sostanziali al proprio suono, rivedendone i canoni stilistici fin dalle radici. Divenuti un power duo formato dai soli Federico Golob (chitarra/voce/basso) e Guido Natale (batteria), i nostri optano per un suono decisamente più heavy, buio, corposo, dai toni ribassati e dalle composizioni potenti ma ostinatamente complesse. Devo ammettere che non mi è mai piaciuta la scelta di vedere il nome della band in lingua madre e l'uso dell'inglese nelle liriche, ma per La Città dolente (e il nome è molto bello), la cosa passa inosservata, poichè a tutti gli effetti, il disco è veramente ben fatto. Iniziamo col dire che non si sente affatto la carenza e l'assenza di altri strumentisti, e che i due musicisti qui hanno svolto un compito notevole nel dare vita a questo piccolo gioiellino. La struttura del disco è tutta giocata su chiaro scuri, cambi di tempo, rallentamenti e stop and go, furiosi e coinvolgenti, contaminati da una certa cinematica al limite dell'industrial, dove una voce ringhiante (che mi ricorda piacevolmente un po' lo stile di John Tardy degli Obituary) la fa da padrona. Tuttavia, in alcune incursioni, il parlato e il recitato donano il giusto tocco di schizofrenia e drammaticità, uno stile canoro che riesce a farli uscire dagli schemi preimpostati del genere, rendendo i brani credibili, per certi aspetti anche orecchiabili e comunque sempre estremamente carichi di emozionalità. La batteria è una furia timbrica e le chitarre urlanti, sfoderano una valanga di riff, figli di tanti padri del moderno metal pesante e tecnico, che mi ricordano in parte, come ricerca ritmica, anche i primi Gojira. Vi si trova poi pure del potente hardcore nella scrittura e persino, ideologicamente, l'aria oscura e ossessiva di un disco qualsiasi dei Meshuggah. Nati sotto la bandiera del mathcore, etichetta di genere che ora decisamente gli andrebbe un po' stretta, il duo lombardo si appresta con questo bel disco ad intraprendere un nuovo passo verso un sound ancora più pesante, complesso e claustrofobico, con la tensione dei Converge e il peso possente degli Ulcerate. Alla fine i due musicisti milanesi brillano di luce propria e servono ben poco i paragoni per spiegarli, tanto meglio ascoltarli per capire di che pasta è fatta la loro musica. Valutando poi l'impegno sociale e la militanza politica anticapitalista, con la scelta DIY, e testi di denuncia sociale, ci rendiamo conto di quanto sudore e impegno ci sia dietro la furia di quest'album. Il disco in toto viaggia veloce ed è direttissimo, i brani sono prevalentemente corti, tranne che per "Clearance Season" e soprattutto "Neon Death (Forever on the Payroll)", che con un inaspettato intro tra soul e black music, si espande fino a superare i sei minuti, sofisticati ed estremamente pesanti. Magari con 'In a World Full of Nails I Have Got Nothing', non ci troveremo davanti a una vera e propria innovazione musicale, o a un nuovo sound, ma nessuno può dire che questo non sia un disco di carattere e di ottima caratura. Consigliato l'ascolto, ottima uscita. (Bob Stoner)

(Toten Schwan Records - 2025)
Voto: 75

martedì 9 settembre 2025

Postmortal - Profundis Omnis


#PER CHI AMA: Funeral Doom
Dici Aesthetic Death e, il più delle volte, dici funeral doom. E cosi, in quel vasto e spesso soffocante regno, dove ogni nota sembra un passo verso l'abisso, i Postmortal emergono come un sussurro pronto a trasformarsi in un rombo sotterraneo. 'Profundis Omnis' è il loro debutto su lunga distanza, sebbene altri vagiti siano emersi dalle viscere nel 2018. Questo disco si palesa attraverso quasi un'ora di meditazione lugubre su temi di dolore, morte e disperazione, incarnando i dettami del funeral doom, nella sua forma più primordiale e intransigente. Ascoltando il duo di Cracovia sin dall'opener "Fallen", posso dire che è inequivocabilmente ispirato ai maestri del genere quali Thergothon, Shape of Despair ed Evoken. Pur non reinventano la formula, la distillano in un'essenza cruda e malata, complice peraltro un contesto low-fi che privilegia l'opacità e la profondità emotiva su ogni artificio tecnico. Il suono è un monolite compatto, con un basso e voce cavernose che rimbombano come un'eco nelle catacombe, mentre le chitarre striscianti, sembrano avvolte in un velo di riverbero che amplifica quella fastidiosa sensazione di soffocamento. Insomma, non di certo una scampagnata in un verde prato in una giornata di primavera, tutt'altro. Direi piuttosto una lenta discesa negli inferi, accompagnata da uno slow-tempo funereo con sporadici cambi di tempo che contribuiscono a opprimere ulteriormente quel peso che grava su un cuore già in agonia. Non sono sufficienti quelle tiepide tastiere in "Darkest Desire", che aggiungono un velato alone gotico all'incedere del disco, per provare alleggerire un lavoro pachidermico, e in grado di generare solo una plumbea angoscia esistenziale. Come quella sprigionata nelle note iniziali di "Decay of Paradise" da spettrali vocals che provano a fare da contraltare al growling profondo di Dawid in un pezzo comunque asfissiante, che non vede troppi sussulti, fatto salvo per una seconda parte di brano più atmosferica. Il disco continua a presentarsi come una montagna invalicabile e i quasi 22 minuti delle successive "Prophecy of the Endless" e "Queen of Woe", non mi agevolano certo il compito nel descrivervi un classico sound funeral doom che persiste nel mantenerci intrappolati in una profondità abissale dalla quale sarà assai complicato venirne fuori. Per pochi impavidi coraggiosi. (Francesco Scarci) 
 
(Aesthetic Death - 2025)
Voto: 67
 

Mellom - The Empire of Gloom

#PER CHI AMA: Black/Death
In un panorama metal dove l'oscurità è spesso un'arma a doppio taglio, i teutonici Mellom irrompono con 'The Empire of Gloom', debut album uscito a inizio 2025, un disco che trasforma il black/death metal in un monolito di piombo fuso, pesante come un sudario di cenere che si deposita lenta ma inesorabile. Questo duo originario di Francoforte, costituito dai musicisti David Hübsch e Skadi, emerge dalle nebbie dell'underground come un'entità che non urla solo la propria rabbia, ma la sussurra attraverso corrosivi strati di black metal atmosferico. Radicati in una tradizione black metal dal piglio scandinavo, i Mellom non reinventano di certo la ruota, ma la ricoprono sicuramente di una ruggine stridente, con un lavoro che pesa sull'anima senza bisogno di artifici di alcuna sorta. La produzione, affidata a un approccio diretto e senza troppi fronzoli, sembra essere il vero collante di questo impero di tenebre, in cui gli arrangiamenti si mostrano minimalisti ma stratificati, con l'incedere sonoro che si muove tra serrate scorribande black ("Rules of the Universe" e a ruota, la successiva "The Last Dance") e frangenti più mid-tempo oriented (ascoltatevi "Burden", la title track o la più doomish "Feed the Machine", in cui ho sentito qualche eco dei Rotting Christ nella marzialità delle sue chitarre). Alla fine, quello che ne viene fuori è un disco sano e onesto che, come detto, non scopre certo l'acqua calda, ma trasforma il metal estremo in una terapia oscura e senza compromessi, con il caustico screaming di Skadi ad accompagnare un riffing glaciale, a tratti disturbante, con linee melodiche non troppo catchy, ma comunque presenti. Il disco è sicuramente ostico da ascoltare, complici le laceranti vocals della frontwoman, ma anche l'assenza di certi picchi melodici, a cui recentemente il black ha aperto. Ciò non toglie che per chi è un fan di certe sonorità "old fashion", 'The Empire of Gloom' potrebbe rappresentare un'alternativa ai vecchi classici. Prima di chiudere, vorrei citarvi un ultimo brano, "Beyond the Endless Waves", che con il suo melodico tremolo picking, e le sue clean vocals, potrebbe rivelarsi il pezzo più accessibile del lotto, sicuramente il mio preferito, emblema di un disco che presenta al mondo questi nuovi Mellom, che con qualche aggiustamento in futuro, potrebbero essere anche una paicevole sorpresa. (Francesco Scarci)

lunedì 8 settembre 2025

Contemplation - Au Bord du Précipice

#PER CHI AMA: Atmospheric Death/Doom
Nell'underground più profondo, la one-man band francese dei Contemplation sembra volersi distinguere come un progetto visionario, guidato dal polistrumentista francese Matthieu Ducheine. Il secondo full-length (ci sarebbe anche un disco in collaborazione con i Chrono.fixion), 'Au Bord du Précipice', vorrebbe infatti rappresentare un audace esperimento in grado di fondere doom death con elementi atmosferici, pagani e folk, nel tentativo di creare un ibrido unico nel suo genere. Attivo dal 2021 con un debutto omonimo, all'insegna di un death più sinfonico, il factotum Ducheine si lancia in sonorità affini (seppur più cupe e funeral) anche in questo lavoro, sciorinando arrangiamenti complessi, coadiuvati da un violino contemplativo, che lui stesso suona, chitarre super ribassate, e in generale, una linea ritmica solida e profonda, ammorbidita da eterei synth, e imbestialita da uno spaventoso growl cavernoso (per cui auspico a breve di affiancare clean vocals). Se i testi sembrano esplorare temi introspettivi, la musica esprime, attraverso il malinconico suono del violino, immagini di paesaggi desolati e montagne intese come rifugio spirituale, con il titolo dell'album a suggerire una condizione al confine dell'abisso esistenziale, decisamente in linea con l'estetica doom. Musicalmente, ho adorato "Endless Mental Slavery", per la sua atmosfera pesante e meditativa, frutto di un riffing pachidermico che s'intreccia con le splendide dinamiche offerte dal violino. La title track, introduce elementi sperimentali (qualcuno li definisce addirittura dub) più marcati con ritmiche che emergono da un'intro atmosferica, a cui il violino fa costantemente da contraltare, senza scordare comunque una linea melodica notevole, sempre presente nell'intelaiatura musicale dei Contemplation. Fatto sta, che la proposta della band transalpina si lascia piacevolmente e sorprendentemente ascoltare, pur proponendo un genere di per sé, assai ostico. Eppure, con sperimentazioni vocali che mi hanno evocato un che dei Violet Cold ("Le Recours Aux Montagnes"), raffinate linee melodiche e ampie parti atmosferiche ("Dust to Dust"), il disco ha saputo conquistarmi per la sua originalità sin dalle prime note. (Francesco Scarci)

mercoledì 3 settembre 2025

She’s Green - Chrysalis

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Uscito poco più di due settimane fa, 'Chrysalis' è il secondo EP dei She’s Green, quintetto originario di Minneapolis e attivo dal 2022, che si muove con disinvoltura tra indie rock, shoegaze e dream-pop. Composto da Zofia Smith (voce), Liam Armstrong e Raines Lucas (chitarre), Teddy Nordvold (basso) e Kevin Seebeck (batteria), il gruppo conferma con questa uscita un’evoluzione sonora che amplia i confini del loro sound, mantenendo intatto quel gusto etereo che li aveva fatti emergere sulla scena a suo tempo. Il risultato che ne viene fuori è un suono che coniuga densità evocativa e limpidezza: le chitarre in tremolo picking s'intrecciano malinconicamente a timbri naturali in una stratificazione che trasforma l’ambient in un organismo vivo con una poetica affascinante che lascia spazio a ogni strumento per respirare e mantenere la propria identità. Questo è quanto si evince già in apertura con "Graze", un crocevia di immagini intense che, a braccetto con la potenza sonica dei nostri, instaurano un’atmosfera d'inquietudine palpabile. A ruota segue "Willow", più vibrante e ritmata, in cui la voce di Zofia, si fa fragile ma urgente, e sembra stagliarsi calda al tramonto, al termine di una giornata di fine estate. "Figurines" è più introspettiva e forse troppo melliflua per il sottoscritto, con quel suo dream pop assai spinto, mentre "Silhouette" opta per un minimalismo (anche nella durata) romantico e poetico, costruendo un climax emotivo soffuso e sospeso. A chiudere il tutto, ecco "Little Birds", la giusta conclusione per un lavoro del genere, una traccia commovente, un vellutato ed etereo viaggio intimistico nel profondo delle nostre anime. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)

martedì 2 settembre 2025

Tetramorphe Impure - The Sunset Of Being

#PER CHI AMA: Death/Doom
Immaginate un crepuscolo che non svanisce mai, un orizzonte avvolto da una nebbia di piombo che inghiottisce ogni barlume di luce. Ecco, questo potrebbe essere il mondo evocato da 'The Sunset of Being', debutto discografico dei Tetramorphe Impure, via Aesthetic Death, dopo una gavetta durata quasi vent'anni nel sottobosco italico. Quello che vi presento, è il progetto solista di Damien, uno che ha suonato nei Mortuary Drape ai tempi di 'Buried in Time', e che ha pensato bene di tuffarsi nel funeral doom, dopo aver esplorato il black con i Comando Praetorio. E cosi, affondando le radici negli abissi di band quali Thergothon e Skepticism, il buon Damien si è lanciato con questo monolite sonoro in una scena doom sempre più affollata di epigoni, cercando di distinguersi dalla massa, nel trasformare la lentezza in un'arma affilata, un suono che non aggredisce ma erode. Forte di una produzione curata e incisiva, il lavoro si conferma come un'opera di oppressione sonora capace di sfoggiare un suono plumbeo, denso come fango che inghiotte ogni passo, dove il basso rimbomba come un tuono sotterraneo e le chitarre si trascinano in riff corrosivi che sembrano scolpiti nella roccia erosa dal tempo. Non c'è spazio per troppi fronzoli qui, gli arrangiamenti privilegiano una stratificazione essenziale, con il drumming che procede a ritmi funerei e accelerazioni sporadiche che evocano un cuore in affanno, e il basso che funge da spina dorsale, ancorando il tutto in un abisso di gravità. Quattro pezzi per quasi 40 minuti di musica in cui le chitarre, avvolte in un pesante velo di distorsione, si muovono in territori death, mentre sporadici inserti di tastiere aggiungono un velo di nebbia eterea, senza mai alleggerire il fardello che questo disco si porta. Nell'apertura affidata a "Forsaken Light", emerge subito un senso di abbandono, con immagini di discesa verso l'oblio che riecheggiano le angosce esistenziali di un mondo che sta per cadere a pezzi, e in cui Damien infonde il proprio tocco personale, nel proporre un death doom intriso di una malinconia goticheggiante, alternando peraltro growling vocals a un pulito intonato e spettrale. "Night Chants" sembra rallentare ulteriormente, sebbene non manchi una sfuriata death dopo un paio di giri d'orologio, ma è da qui che si aprono passaggi più crepuscolari, quasi esoterici e decisamente più originali per l'economia dell'album. "Spirit of Gravity" mostra il suo cuore oscuro, chiamando in causa, nelle sue linee di chitarra, un che dei primi Paradise Lost, in un pezzo che si palesa con un pesante rifferama doom e un'alternanza vocale ipnotica e sinistra. Infine, la title track chiude il cerchio con una violenta discesa negli abissi, dove i growl si dissolvono in clean malinconici, accompagnati da timide tastiere che evocano un tramonto eterno – un finale che incarna la dissoluzione, rendendolo il culmine significativo di un album che non concede redenzione. (Francesco Scarci)

Novarupta - Astral Sands

#PER CHI AMA: Post Metal/Post Rock
I Novarupta sono una one-man band svedese, capitanata dal poliedrico Alex Stjernfeldt, ex membro dei The Moth Gatherer. Nel 2025 il factotum scandinavo ha fatto uscire il quarto lavoro, 'Astral Sands', che va a chiudere un ciclo ambizioso di quattro album, che era nato nel 2019 come una sorta di supergruppo underground. In questi sei anni, la band ha scavato un solco profondo nella scena post-metal e sludge, distinguendosi per un approccio collaborativo che vede ogni album della loro tetralogia elementale, ospitare una parata di cantanti ospiti dal mondo metal estremo. Questo quarto capitolo, dedicato alla terra, conferma la band come una forza creativa nell'ambito post-metal, dove lo sludge si fonde con echi shoegaze e post-rock, bilanciando egregiamente introspezione e intensità, senza per forza cadere nel cliché. Il suono di questo nuovo disco non si discosta poi molto dai precedenti, offrendo un approccio mid-tempo contemplativo e atmosferico, privilegiando una tiepida stratificazione sonora piuttosto che l’assalto frontale. Le chitarre, centrali negli arrangiamenti, alternano riff corrosivi e grooveggianti a linee melodiche eteree, supportate da un basso solido e una batteria che varia tra groove cadenzati e fill dinamici. Parlavamo di ospiti e non potevano mancare nemmeno qui con una serie di collaborazioni vocali che rappresentano il vero asso della manica della band: si va infatti da Jonas Mattson (Deathquintet) nella splendida "Seven Collides" a Martin Wegeland (dei Domkraft) nella conclusiva "Now We Are Here (At the Inevitable End)", passando attraverso la poetica di "The Bullet Shines Before Impact", in compagnia di Kristofer Åström (Fireside) e scavando nell'anima attraverso le malinconiche melodie di "Endless Joy", dove a dividersi la scena, troviamo Per Stålberg (Divison of Laura Lee) e il musicista dronico Johannes Björk. Il disco è delicato, emozionale, maestoso, vario e non solo per l'alternanza vocale dietro al microfono. È un lavoro che tocca le corde dell'anima in ogni suo frammento, e per questo l'ho amato sin dal primo ascolto. Vi basti ascoltare un pezzo come "Terraforming Celestial Bodies", dove alla voce troviamo Arvid Hällagård (Greenleaf) e ve ne innamorerete immediatamente. Per non parlare poi della successiva "Breathe Breathe" con un ottimo Patrik Wiren (Misery Loves Co) a regalare una performance ineccepibile per un disco davvero avvincente, che mi sento di consigliare a 360°. (Francesco Scarci)

lunedì 1 settembre 2025

Enzø - Noisy Ass Makes You Smile

#PER CHI AMA: Alternative/Hardcore/Psichedelia
Prendete la ritmica di un brano come "Then Comes Dudley" dei Jesus lizard, solo la ritmica mi raccomando, e immaginatela il più distorta possibile. Aggiungete un po' di sano sarcasmo e critica agli usi e costumi della società odierna, poi un pizzico di quell'attitudine caotica che richiama certe idee dei DNA, riviste con un taglio alternative/hardcore molto aggressivo e istintivo, come vi capiterà di ascoltare anche nel brano, diciamo piacevolmente astratto, "Pazzi Smith" degli Enzø. Ecco, se riuscirete a mettere insieme tutto il mosaico, avrete una vaga idea sonora di quello che propone il duo beneventano. Sulla linea dei Lighting Bolt, con un'idea di canzone più accessibile e meno sperimentale, la band suona veramente in modo pulsante, rumoroso e dinamico, e spesso si sente anche una buona vena psichedelica di memoria grunge. Il progetto è composto solo da un batterista e un bassista/cantante, il quale riesce sempre a distinguersi nel marasma sonoro prodotto, per un bel timbro vocale potente e una certa attitudine alle melodie orecchiabili, sempre di giusto impatto, che fanno da contraltare al suono quasi perennemente ultra distorto dei nostri. Il singolo "Wah" resta un must di questo disco, per immediatezza e fluidità, con annesso un video assai carino. "Ballad of Enzø" è bellissima e ricorda la follia di certi Primus mischiati al Tom Waits più sbilenco e distorto. Anche la ritmica di "Les Good to Sail in a Pool of Clay", nella prima parte ricorda i Primus di un tempo (e non solo per il suo titolo bizzarro), e in generale, il funk metal degli anni '90. Nel suo insieme il disco è molto buono e stimola l'ascoltatore a valutarlo da tante angolature diverse, grazie a un sound monolitico che a suo modo è in continua mutazione. Basti pensare a "Pigface" che, complice un cantato davvero potente e un sound ipnotico, inaspettatamente, mi porta alla mente la voce e la forza irriverente e devastante dei Venom o quella di Tom Gabriel Fischer nei Trypticon. Alla fine, questo nuovo album degli Enzø, con una bella e folle copertina curata da Maria Caruso, e dal titolo 'Noisy Ass Makes You Smile', dove già il titolo la dice lunga, si dimostra una lunga e interessante carrellata di idee che mettono in mostra il modo rude, scarno e contorto di esprimersi dei due musicisti, di fare musica alternativa senza troppe regole. E la Overdub Recordings ha pensato bene di non farsi scappare questo progetto. La buona musica alternativa in Italia esiste ancora, magari come in questo caso, non cantata in lingua madre ma a tutti gli effetti, ancora esiste e resiste. (Bob Stoner)

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