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domenica 17 agosto 2025

Kim Gordon & Loren Connors

#PER CHI AMA: Ambient/Drone/Noise
Nell'abbrivio ("Movement 1") metem-psychotico sono esplicitate le istanze atomistiche del concept, qualcosa che ritorna ancora ("Movement 3") e ancora ("Movement 4") e ancora (esatto, "Movement 5"). Un acronico e sonnolento climax eiaculatorio e immensamente diffratto ("Movement 2"). Barriti, immanenza, la voce di Kim, una sofferenza atonica, atonale, ancestrale (di nuovo "Movement 5") che diventa attesa dolorosa e ribollente ("Movement 6"). E poi la sospensione molecolare del cosmo intero, ora ("Movement 7"), e ancora ("Movement 8"), nell'attesa vana sebbene inesorabile, sedicentemente catartica, dell'apocalisse western-sonica prossima ventura (di nuovo "Movement 8"). Fotografia sgranata, le luci servono solo per i profili. Fumo. Kim Gordon backwoman e Loren Connors bluesman shoegazer, distillano su vinile i migliori trentasette minuti estratti da una nota improvvisazione della durata complessiva di oltre un'ora e mezza datata dicembre 2014 all'Issue Project Room di New York. Estasi o noia. Nessun compromesso. Estasi o noia? C'è il video su Youtube. (Alberto Calorosi)

sabato 16 agosto 2025

Below the Sun - Immanence

#PER CHI AMA: Post Metal
Che fastidio che il nuovo album dei Below the Sun, sia rimasto in forma digitale. Sebbene discogs riveli che esista una release fisica, io di tracce nel web di quel formato, non ne ho trovate. 'Immanence' comunque è il nuovo viaggio musicale profondo e introspettivo del duo di Krasnoyarsk, che esplora tematiche esistenziali attraverso sonorità avvolgenti e atmosferiche. Con questo nuovo lavoro, la band prosegue nel costruire il proprio sound distintivo, mescolando elementi di post-metal, doom e ambient, sfoggiando sei nuovi pezzi che prendono alla gola sin dalle note iniziali dell'intimistica "Instinct", che si muove all'altezza di un bivio tra sonorità sludge e post metal. Quest'ultime che si prendono la scena nella successiva "Restraint", un brano in bilico tra pesantezza e melodia, un equilibrio sofferto tra il post rock iniziale e l'asfissiante doom che si palesa a metà brano, con le vocals che da growl passano a un pulito emozionante in un crescendo emotivo (e musicale), che lascia quasi senza parole. Un clamoroso passo in avanti rispetto al vecchio disco 'Alien World', ormai datato 2017, una maturità acquisita che potrebbe rendere i Below the Sun significativi almeno quanto i Rosetta, per non dire anche qualcosa di più. Il che si conferma anche nella cerebrale e distorsiva potenza di "Being" o nell'essenziale musicalità di "Beholder", un pezzo più sperimentale ed etereo che avvicina i nostri a una band come gli Explosions in the Sky, in un'architettura sonora ben più morbida rispetto agli altri brani (fatto salvo per la strumentale "Illumination"), ma dotata comunque di una raffinatezza e un approccio onirico di un certo livello. "Revelation" è la traccia di chiusura, una specie di epopea progressive shoegaze che combina riff lenti, clean vocals e orpelli vari che avvicinano i Below the Sun a territori probabilmente mai esplorati. Il brano inizia in modo soft, con vocalizzi appunto shoegaze e un crescendo che culmina in un finale maestoso, a sancire quanto realmente sia interessante questo disco e quanto mi continuino a girare le scatole per non averlo ancora trovato in un formato fisico. (Francesco Scarci)

giovedì 14 agosto 2025

Ereb Altor - Hälsingemörker

#PER CHI AMA: Viking/Epic
'Hälsingemörker', l'ultima epica creazione degli Ereb Altor, trascina l'ascoltatore in un viaggio attraverso paesaggi sonori maestosi, dove regnano atmosfere cupe e ancestrali echi della mitologia nordica. La leggendaria band svedese, maestra nell'arte di fondere viking metal e doom in un'unica, possente visione, forgia ancora una volta un universo musicale di rara potenza e complessità. Fin dalle prime, folgoranti note di "Valkyrian Fate", si percepisce l'intensità titanica con cui il gruppo scandaglia i misteri più profondi della natura e delle saghe norrene. Gli intrecci di melodie epiche e riff devastanti creano una cattedrale sonora monumentale, sublimata dalla voce cristallina e potente di Mats, sostenuta da cori che evocano gli spiriti degli antichi guerrieri. La sua performance vocale è un'autentica epifania: attraversa l'intero spettro emotivo umano, regalando momenti di connessione mistica che toccano l'anima. La produzione raggiunge vette di eccellenza assoluta, scolpendo ogni singolo strumento con precisione chirurgica, senza mai sacrificare quell'aura greve e atmosferica che avvolge l'intero capolavoro come una nebbia ancestrale. I brani si dispiegano in un equilibrio perfetto tra passaggi melodici di struggente bellezza e sequenze frenetiche che scatenano tempeste sonore, mantenendo l'ascoltatore in uno stato di costante, elettrizzante tensione. Tra le gemme di questo tesoro musicale, brillano la già citata, gloriosa opener, la misteriosa "Vi är Mörkret" e la travolgente "Träldom": tutte forgiate con ritmiche possenti avvolte da un misticismo epico che fa tremare le fondamenta di Midgard. "Ättestupan" introduce invece una tonalità più malinconica e solenne, offrendo un momento di pausa riflessiva dove l'anima può contemplare l'infinito, mentre "The Waves, the Sky and the Pyre" sembra addirittura pervasa da un'aura di sacralità primordiale. 'Hälsingemörker' si erge come monumento definitivo al talento sovrumano degli Ereb Altor: un'opera che conquisterà non solo i devoti seguaci della band e i cultori del genere, ma anche nuovi esploratori in cerca di sonorità epiche capaci di trasportare l'anima in regni inesplorati. La loro capacità di incarnare e far rivivere l'essenza più pura della cultura viking metal rimane leggendaria e ineguagliabile, consacrandoli definitivamente come i supremi maestri di questo stile immortale. (Francesco Scarci)

(Hammerheart Records - 2025)
Voto: 80

https://erebaltorhhr.bandcamp.com/album/h-lsingem-rker

mercoledì 13 agosto 2025

Eigengrau - Radiant

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Nel primo vero album, dopo tanti singoli, della variopinta band di allegroni danesi, il cui nome in tedesco significa "interiormente grigio", individuerete senza difficoltà un suono pervaso di melodismi post-rock nevrilmente pronto a innescare insinuanti testurizzazioni, ciò che inevitabilmente conferisce una invero straordinaria (elettro)dinamicità, protesa nella nota non-direzione postrocchettara di un climax sonico. Che sopraggiunge, sì, ma solo sporadicamente e sempre inaspettatamente. Invece che generato dagli strumenti (non ci sono parti cantate), il suono vi sembrerà emanare dolente da una specie di sorgente infinitamente remota, come una sorta di carsismo cosmico, baluginante, inesorabile ed eidetico. Tutto viene esplicitato (fin troppo presto) nella introduttiva "Once I Was". Oltre la quale l'universo appare ripetersi nebulosamente, se non nella forma, almeno nelle movenze (sonore), fino al necessario e nichilistico deliquio conclusivo ("Moving Clouds"). Interessante, ma già sentito. (Alberto Calorosi)

martedì 12 agosto 2025

Pale Blue Dot - (h)eart(h)

#PER CHI AMA: Psichedelia/Shoegaze
A volte basta guardare in un cerchio molto ristretto per trovare ottima musica, guardare appena fuori dalla porta di casa e trovare una band come i Pale Blue Dot, che con l'unione di musicisti dall'esperienza più che decennale, ci offrono un disco senza pieghe, lacune o cali di qualità. La band emiliana prende spunto per il nome, dalla definizione data dall'astronomo Carl Sagan, a una foto della Terra scattata dallo spazio, a qualche miliardo di km di distanza, e la musica si rivela subito in sintonia con il nome scelto, per il suo ampio spettro sonoro, che spazia dallo shoegaze, passando dalla psichedelia fino alla new wave. Il cantato è in inglese ma questo disco è uno degli album italiani che mi hanno più incuriosito dall'inizio dell'anno, anche se, in verità, l'artwork di copertina del disco non mi attirava granché all'inizio, a differenza delle più interessanti copertine dei singoli. Il motivo è semplice e s'intuisce fin dalle prime note: in questo disco sono presenti delle chitarre stupende, che contribuiscono a donare un lavoro magistrale ai loro suoni che evocano epoche lontane, che non tutti ricorderanno e che accomunano gli australiani The Church (magari quelli di 'Forget Yourself') al sound dei primi iper psichedelici Ride, senza plagi o forzature, con una grazia che li rende veramente credibili e con un'identità assai riconoscibile. All'apertura di '(h)eart(h)', mi sono ritrovato a pensare a "Constant in Opal" dei The Church, ma ero talmente assorto dall'ammaliante psichedelia, cristallina e spaziale dei primi due brani, tra cui l'ottimo singolo "For the Beauty of Miranda", che ho provato un intenso senso di nostalgia nel proseguo dell'ascolto. In effetti, da tempo non sentivo un disco con una magia sonora tale da farti perdere la connessione con il mondo esterno, quello che ti può accadere forse ascoltando 'Remote Luxury', proprio dei The Church. I suoni sono curati e la sezione ritmica è ben presente, il cantato è poco invadente, essenziale, minimale, orecchiabile, mai estroso, proprio come in dischi del calibro di 'Nowhere' dei Ride, rumorosi ma eleganti, d'atmosfera ma rock, quel rock che certa new wave prima e lo shoegaze poi, hanno reso unico e immortale, dando vita a un suono sofisticato e sognante per un insieme di brani che suonano alla perfezione. La band sa come fare e come ottenere quel tipo di sound, ed è il caso della meravigliosa e lisergica "Green Fairy Tale", che ci permette di navigare nel cosmo, molto vicini al Sole, senza passare per una band d'oltremanica o d'oltreoceano. I Pale Blue Dot, hanno nel loro DNA, i cromosomi della new wave, della psichedelia sonica e della neo psichedelia inglese di fine anni '80 (Loop e affini), quella ragionata e mirata, e la suonano in maniera egregia, mostrandoci ottime capacità anche nella lunga e vorticosa "Star Cloud", ipnotica e magnetica canzone di chiusura dell'album, dove cantato e chitarre si sovrappongono alla ricerca continua di uno spazio sempre più profondo da esplorare. Un album e una band con un sound maturo e internazionale, retrò quanto basta, ma attuale e molto appetibile per un pubblico musicalmente elevato, leggermente nostalgico verso certe sonorità ma tanto, tanto visionario. Splendido lavoro di cui ne consiglio fortemente l'ascolto! (Bob Stoner)

lunedì 11 agosto 2025

Cultus Sanguine vs Seth - War vol III

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine 
#PER CHI AMA: Black/Doom
Questa “guerra” fu un esperimento molto interessante perché oltre a rifare due pezzi loro, le due band, Seth e i nostrani Cultus Sanguine, dovevano coverizzare un brano dell'altro gruppo, e infine, entrambe dovevano proporre una cover scelta in comune. Iniziamo con i Cultus Sanguine che propongono qui un vecchio pezzo, "My Journey is Long But My Time Is Endless", tratto dal debut mcd. Questo brano acquista una forza e un impatto veramente coinvolgente, cosa che nel passato, per una pessima registrazione non aveva; come ospite in questa canzone c’è peraltro Steve Sylvester. Di seguito troviamo una versione remixata di "We Have No Mother", che sinceramente non mi piace per niente perché si è persa la vena triste e depressiva che aveva, manipolandola con vari effetti sintetici. Il pezzo dei Seth ("L'Hymne au Vampire") rifatto dai milanesi ricalca appieno l’aria che si respira ascoltando un album dei Cultus Sanguine, molto bella. Infine "Behind The Wheel" dei Depeche Mode, musicalmente è ipnotica e sofferta ma non trova un valido appoggio nella voce di Joe, forse non proprio a suo agio in questo contesto non metal. E ora tocca ai Seth: due brani sullo stile dello scorso 'Les Blessures de l’Ame', pieni di pathos e tristezza con le parti di piano molto accattivanti. Per quanto riguarda la canzone dei Cultus, "The Calling Illusion", rifatta dai francesi, ascoltiamo un cambiamento radicale di alcune parti, rese qui veloci e violente. A essere sincero, non avrei mai pensato di sentirle in questa veste, è stata una bella sorpresa. L’ultima song è arrangiata in modo completamente differente dal modo in cui era stata concepita dai Depeche Mode, decisamente una versione metal irriconoscibile. Non so quanto possano essere d’accordo gli estimatori dell'electro-dark su questo stravolgimento, comunque, esperimento riuscito.

domenica 10 agosto 2025

Corrupted - El Mundo Frio

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom/Drone
Non fosse per certe ultra lunghe sezioni ambientali, dove quello che soltanto un'entità aliena dotata di un ciclo biologico di quattromila anni e una pazienza eonica, potrebbe definire un "arpeggio" si sviluppa su tappeti sintetici in verità quasi soltanto ipotizzati, il quarto album della misteriosa band ultradoom giapponese che canta ("una diffusione aerofagica vocale" è una definizione tecnicamente più corretta) in spagnolo, non prende l'aereo e non rilascia interviste se non per ribadire che non rilascia interviste, assomiglia moltissimo al primo (dove però non c'era la sezione acustica introduttiva), qualcosa in più di moltissimo al secondo (dove però c'era un secondo volume di inutili dronerie assortite) e qualcos'altro in più di moltissimo al terzo (dove però la sezione acustica e quella elettrica erano addirittura suddivise in tracce differenti): quel medesimo suono estenuante, psichicamente densissimo che sembra provenire direttamente dalla Discontinuità di Gutenberg del mantello terrestre. E nient'altro. (Alberto Calorosi)

(HG Fact - 2005)
Voto: 70

https://corrupted1994.bandcamp.com/

venerdì 8 agosto 2025

Umbersound - If the Flies Could Sing

#PER CHI AMA: Doom Sperimentale
Mentre calabroni e vespe infestano il mio balcone, l'album 'If the Flies Could Sing' degli americani Umbersound, sposta la mia attenzione su quello che potrebbe essere il canto delle mosche, non solo il loro fastidioso ronzio. E cosi, quasi per sbaglio, mi ritrovo a recensire un lavoro che si spinge nei paraggi del doom metal, con il classico rifferama lento e compassato. Quello della one-man-band di Staten Island è il secondo album, che sembra voler rappresentare la versione più morbida dell'altra band di Joe D'Angelo (il factotum dietro agli Umbersound), i Grey Skies Fallen. Abbandonate le growling vocals (almeno nei primi due pezzi), e un sound più pesante, il mastermind statunitense si protrae in una rilettura più evocativa e decadente del doom. Lo si evince dall'opener "Wolves At The Door", diventa ancor più evidente nella successiva title track, dove le atmosfere si fanno più cupe e opprimenti, ma l'effetto è sicuramente accogliente, offrendo un'esperienza quasi totalizzante per chi ascolta. Chiaro, non è quella che definirei una passeggiata affrontare questo genere di sonorità, ma chi ama suoni di scuola Candlemass, ma con una maggior propensione alla sperimentazione e alla teatralità (ascoltatevi l'ipnotica "Atmos Ritual" che abbina entrambe queste caratteristiche), potrebbe apprezzare enormemente la proposta. Man mano che i minuti passano, l'album diventa più ostico da digerire, pur mantenendo intatti i suoi capisaldi legati a riff lenti e pesanti, tipici del doom tradizionale. Se "Spines On The Shore" potrebbe suonare come una versione doom dei Nevermore, complice un cantato che evoca il buon Warrel Dane (R.I.P.), vi sottolineerei l'emozionalità in grado di emanare "Deaths Old Sweet Song", un pezzo davvero affascinante, tra doom e un mood quasi western. E l'abbinata sperimentalismi vari e doom sorretto da vocalizzi da orco cattivo, proseguono anche in "The Sound Of Umber", prima dei due pezzi strumentali che chiudono con una inaspettata timidezza, il disco. Un lavoro originale e conturbante questo delle mosche che cantano, che necessita tuttavia ancora qualche lavoro di cesellatura (ad esempio l'aggiustamento della voce growl) per suonare vincente su tutti i fronti. (Francesco Scarci)

giovedì 7 agosto 2025

Awful - Absolute Reign

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine   
#PER CHI AMA: Brutal Death
Brutal death violentissimo, sparato a velocità pazzesche, quello proposto dal terzetto italiano degli Awful. Niente mid-tempos, niente pause, ma solamente un martellamento spietato che non dà respiro. Ci lamentiamo spesso del fatto che i gruppi brutal si assomigliano troppo, beh, in questo caso il discorso non vale. Quanto proposto dagli Awful potrà forse sembrare ad alcuni troppo estremo, ma se non altro, non ricorda cose già sentite mille volte. Il demo - di fattura professionale - contiene appena tre canzoni, ma sono sufficienti per stendere al tappeto chiunque!
 
(Sothis Records - 1999)
Voto: 68
 

martedì 5 agosto 2025

Nightwish - Yesterwynde

#PER CHI AMA: Symph Metal
"Yesterwynde", la soundtrack di un ipotetico fantasy cyberpunk, dove il cattivo cade dal suo destriero alato motorizzato, finisce nella baluginante pozzanghera di liquami e diventa un paladino dell'ecologia interplanetaria, introduce l'album più cinematico (mandate avanti e sentite anche la Scaretal/osissima "The Weave") degli ultimamente cinematicissimi Nightwish, nella totale, seppur plastica, continuità coi due album precedenti. Immaginarsi qualcosa che sia solennemente equidistante tra la sigla di una rubrica di attualità di Raidue e il sonoro catastro/tribale di un film di Emmerich sul Pleistocene (ascoltare il primo singolo "Perfume of the Timeless"), qualche ammiccamento NWOBM ma anche un po' (questo, sì, inedito) new romantic ("The Children of Ata") fino a lambire il glam-rock (per esempio nel ritornello Brian-May-esco della riuscita "The Day of..."), sensazioni celtiche, temporali, una specie di Hevia horror che fa headbanging ("Sway") per poi sfasciare la cornamusa sul Marshall (l'eccellente progressione della ottima, seppur troppo lunga, "Hiraeth" - ma solo io nelle prime note ci ritrovo "Cool Water" dei Talking heads?). Sovente (auto)indulgenti le orchestrazioni di Tuomasuccio H. (su tutte, "The Weave") che in svariate occasioni, appare più intento a rimescolare ancora una volta i clichet delle ricchissime (di clischet) "Storytime" e "The Greatest Show on Earth" piuttosto che a comporre veramente musica (il secondo, turgido seppure pasticciato singolo "An Ocean of Strange Islands" e, più avanti, dappertutto sul disco due). Niente di nuovo, insomma, tanto che si può affermare senza sbagliare che il primo attesissimo disco senza Hietala somiglia un po' a tutti gli altri dischi con Hietala. (Alberto Calorosi)

(Nuclear Blast America - 2024)
Voto: 63

https://www.nightwish.com/

lunedì 4 agosto 2025

No More Fear - Vision of Irrationality

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Death Metal
Death metal ricercato, non claustrofobico: ecco cosa ci proponeva questa band italiana nel suo vecchio disco d'esordio. I No More Fear hanno dalla loro, sin dagli esordi, un'apprezzabile creatività, sfornando un prodotto nient'affatto convenzionale, a tratti, addirittura melodico (gran lavoro di chitarre in "Escaping the Indifference"). Ciò potrà forse sconcertare quelli fra voi incondizionatamente ligi alla brutalità più disumana, ma, credetemi, 'Vision of Irrationality' è un bell'album e non annoia. Belle le vocals gutturali, specie in "The Lady with the Sickle", un po' meno la voce straziata. I testi? Taluni introspettivi, altri imperniati su tematiche orrorifiche, senza grossolanità gore. C'è anche un bell'omaggio a Lovecraft (nella conclusiva "Dagon"). In conclusione, un album interessante e davvero originale.

(VideoRadio - 2001)
Voto: 70

http://www.nomorefear.it/

domenica 3 agosto 2025

Rivers of Nihil - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Techno Death
È interessante appurare come i Rivers of Nihil stiano facendo progressi a vista d'occhio, album dopo album. E cosi, questo nuovo lavoro omonimo, che rappresenta il quinto in studio per la band americana, segna un bel passo in avanti rispetto al precedente 'The Work', che era uscito nel 2021 e aveva diviso non poco la critica. Il quartetto di Reading, Pennsylvania, prosegue anche qui quel percorso iniziato ai tempi di 'Where Owls Know My Name', ossia coniugare un progressive techno death con derive jazz ed elettroniche, per cercare di recuperare la strada perduta nei confronti dei Kardashev, che pur essendosi formati tre anni dopo rispetto ai nostri, sembrano essersi consacrati più velocemente, grazie alla performance del loro cantante. Comunque, a parte questi convenevoli, devo ammettere che questo nuovo disco è parecchio impressionante nelle sue parti più sperimentali (e mi riferisco all'opening track "The Sub-Orbital Blues") o laddove i nostri passano dalla brutalità del loro techno death primordiale con tanto di growling vocals, a manifestazioni canore pulite di chiara estrazione Kardashev, che rimangono a mio avviso, il vero punto di riferimento per la band di oggi. Per questo, pur non rinunciando a una bella dose di violenza, i Rivers of Nihil amano ammorbidire le loro tracce con un'altrettanta dose di melodia: fantastica, e la mia preferita, "Despair Church", in cui compare anche il sax di Patrick Corona dei Cyborg Octopus e il violoncello di Grant McFarland dei Galactic Emprire. E poi c'è "Water & Time", lo ammetto, potrebbe sembrare un po' costruita a tavolino per piacere, ma in tutta onestà me ne sono innamorato. Tra vocals pulite, fughe jazzistiche di sassofono, inserti growl e linee di chitarra semplicemente favolose, è difficile non lasciarsi trascinare. Il disco in questo modo si fa apprezzare enormemente anche se non manca qualche sbavatura di cui avrei fatto volentieri a meno, come la debordante "Evidence", che sembra richiamare, nelle parti eccessivamente selvagge, gli esordi un po' troppo chiassosi della band, per quanto la produzione cristallina esalti comunque l'intensità sonora data da un egregio lavoro al basso, da sempre precise linee di chitarra e qui, da ben cinque backing vocalist. Forse però è troppa carne al fuoco, soprattutto in un brano che finisce con un fade-out davvero troppo brusco. Tante belle idee, ma non ancora perfettamente calibrate, serve l'ultimo step. Ultima chicca: la traccia che dà il titolo al disco e che lo chiude, con Stephan Lopez dei Cavum al banjo (già sentito nella terza traccia "Criminals"). Un tocco che suggella un album importante, maturo, coinvolgente. A volte forse un po' sopra le righe, ma che può davvero rappresentare un nuovo punto di partenza per i Rivers of Nihil. E farà sicuramente la gioia di tutti quelli che amano le sonorità alla Kardashev e Gojira.. (Francesco Scarci)

sabato 2 agosto 2025

Sólstafir - Endless Twilight of Codependent Love

#PER CHI AMA: Prog/Psych Metal
Una rarefazione quasi-pop in apertura, poi la furenza eruttiva che digrada in una magmatica coda, poi il chill-out crepuscolare smorzato in un reprise un po' contratto ma squisitamente hard rock: architettonicamente svartir-sandariana, ruvida e irregolare come un fiordo disegnato su una mappa, seppure inferiore a "Lágnætti" (si potrebbe chiosare che qualunque cosa dei Sólstafir sia inferiore a "Lágnætti"). "Akkeri" può non piacere ma posiziona alta l'asticella programmatica dell'album. Non sarà così: i tumulti emotivi di "Ótta" cedono il passo ad architetture musicali più radiolina-oriented come già dai tempi di 'Berdreyminn'. La produzione, ancor più monumentale, della già estremamente monumentale produzione di 'Berdreyminn' rintuzza le sporadiche manchevolezze creative. E così "Drýsill" appare soffice eppure concrezionale, misuratamente elegiaca e non, come dovrebbe essere, sfrontatamente già sentita. E i camerismi björkettari assieme ai gnau-gnau aurali di "Rökkur" oscurano un fangoso e poco originale quasi-parlato il cui scopo è principalmente quello di evidenziare i già evidentissimi limiti della lingua più brutta del pianeta tra le settemilacentoundici esistenti. E il nanana-nanana ruffianamente post-rock vs. Robert-Smith-che-si domanda-dove-è-finito-il-mascara di "Her Fall From Grace" non sarà al livello di "Fjara" ma la recrudescenza quasi-crimsoniana nel finale fa dimenticare quella contrastante sensazione come di big-babol appiccicata a un dimmu borgir (nel riff di chitarra avrete sentito qualcosina di più di qualcosa proveniente da 'Sound of Silence'). E gli sguaiati black-fasti ante-svartir di "Dionysus" che virano in un pre-finale quasi-disco senz'altro rinverdiscono l'attenzione almeno quanto l'incipit jazzaminoso di "Or", molto black-heart-processionale e anche un po' tardo-Gilmouriano. Nella seconda metà dell'album e tra le (stavolta interessanti) bonus track, riemergono qua e là sentori solsta-wave mai veramente sopiti: "Alda Syndanna", ma anche la (a tratti) watersiana "Hrollkalda Þoka Einmanaleikans". (Alberto Calorosi)

venerdì 1 agosto 2025

Clouds - Desprins

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Per chi ancora non lo sapesse, i Clouds intitolano tutti i loro full-length con una parola che inizia con la lettera D e che ha un significato di distacco o partenza. Ecco a voi quindi il sesto capitolo della band rumena, capitanata da Daniel Neagoe, e intitolato 'Desprins', un'opera che continua a inserirsi in quel contesto funeral doom, con elementi atmosferici ma soprattutto emotivi, per un viaggio diretto nel profondo della nostra anima. E 'Desprins' non tradirà certo i fan della band, proponendo sin dall'iniziale "Disguise", quei ritmi lenti e pesanti, coadiuvati da cavernose voci growl che evocano un senso di disperazione e introspezione, e da una malinconica melodia di fondo affidata al flauto di Andrei Oltean. Potrei anche chiuderla qui, dal momento che non ci sono sostanziali novità rispetto ai vecchi album, che il sottoscritto peraltro colleziona gelosamente in formato vinile. E infatti, man mano che ci si spinge avanti nell'ascolto, non possiamo che trovare tutte quelle peculiarità che Daniel e soci, ci confezionano ormai da oltre un decennio. Preparatevi pertanto a un death doom in cui trovare un'alternanza tra ritmiche robuste e melodie più tenui ("Life Becomes Lifeless"), altri più atmosferici con un Daniel in formato vocale sia growl che pulito e più decadente ("Chain Me", "The Fall of Hearts" e "Will it Never End"). A parte questo, grossi stravolgimenti nello stile della band non sono contemplati. Se siete fan dei Clouds pertanto  andate pure sul sicuro; se siete invece nuovi, inizierei l'esplorazione della band dai lavori più datati, 'Doliu' e 'Departe', giusto per fare due nomi. Ah, vedete, altri titoli con la lettera D. Deprimenti. (Francesco Scarci)

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giovedì 31 luglio 2025

The Pit Tips

Francesco Scarci

Edyakaran - Pantheon
Fallujah - Xenotaph
Helheim - HrbnaR / Ad Vesa

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Alain González Artola

Old Forest - Graveside
Häxkapell - Om jordens blod och ugravens grepp
Hesperia - Fra Li Monti Sibillini (Black Medieval Winter Over The Sibylline Mountains)

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Death8699

Falconer - Falconer
Inhuman Condition - Mind Trap
Napalm Death - Death By Manipulation

lunedì 28 luglio 2025

Harvst - Mahlstrom

#PER CHI AMA: Melo Black
Bella sorpresa questo 'Mahlstrom', secondo atto dei tedeschi Harvst, terzetto originario di Francoforte che nasce verosimilmente come side project di un membro dei Frostreich e uno degli Schǝin. Il genere proposto s'inserisce nel filone del black atmosferico dalle tinte melodiche. Andiamo allora a dare un ascolto alle sette tracce ivi incluse, giusto per capire di che stiamo parlando. Si parte da "Mahlstrom Teil I - Der Aufschrei des Vergangenen" e da una traccia che si fa notare immediatamente per le sue linee melodiche, le accelerazioni in territori post-black, con le liriche, stando a Metal Archives, che affrontano tematiche esistenziali. L'onda d'urto che ci investe in alcune scorribande è bella potente ma le melodie, per certi versi affini a quelle degli Agrypnie, rendono il tutto decisamente più accessibile, pur rimanendo in ambito estremo. "Laubwacht" spinge altrettanto forte ma qui lo screaming di Dornh si alterna a vocals più sussurrate ed evocative, ma il risultato finale non cambia, con il sound che si fa più oscuro nella seconda metà del brano. "Was Die Erde Nimmt" si muove sempre su melodici giri di acuminate chitarre, e le voci, spesso relegate in secondo piano, contribuiscono a dar maggior spazio all'aspetto prettamente musicale. C'è spazio per un break strumentale che fa da preludio a un buon assolo, peccato si perda in una sezione ritmica forse troppo caotica, ma il brano comunque merita, soprattutto anche per l'alternanza vocale che rende il tutto molto più dinamico. "Wahnmal" parte più soffusa, ma è la classica quiete prima della tempesta visto che esploderà a breve con una ritmica dinamitarda, mantenendosi più o meno similare fino a un finale in fade-out. Sulla falsariga anche "Treibholz", e forse qui si vedono le prime debolezze di un disco che sembra soffrire di una certa ridondanza ritmica, portando le canzoni alla fine ad assomigliarsi un po' tutte. Ma le qualità per far bene ci sono sicuramente tutte, basta tirare fuori un pizzico di personalità in più, come quella che sembra emergere nella lunga "Mahlstrom II – Der Abschied des Dechiffrierten". Una maggior varietà nei suoni e nei cambi di tempo, darebbe sicuramente maggior lustro a questa band, che innegabilmente, sembra avere del grande potenziale. Staremo a sentire futuri sviluppi con grande curiosità. (Francesco Scarci)

(Onism Productions - 2025)
Voto: 70

https://harvst.bandcamp.com/album/mahlstrom

domenica 27 luglio 2025

Amyl and the Sniffers - Cartoon Darkness

#PER CHI AMA: Garage Rock/Punk
"Jerkin'", prima traccia, quarto singolo, il collegamento subliminale tra l'invettiva slum punk alla Sleaford Mods (di cui sarà opportuno riascoltare "Nudge it", prima traccia di 'Spare Ribs', 2021) con la ruvida primitività ante-fuzz old school stoogesiana: "Jerkin'" collide, devia e si ingarbuglia, asintoticamente prossima al classicismo londinese fine70 (UK subs? Sex p.?) ma non nei contenuti, squisitamente twenty-twenty (guardatevi il video). Sentite anche "Motorbike Song" (ma che idea stramba quei suoni psych di chitarra...), ma anche e soprattutto "It's Mine", dove l'asintoto potrebbe essere individuabile addirittura nei Discharge di 'Hear Nothing See Nothing Say Nothing'. Ma anche il riot grrrl postulato dai Blondie, ed evocato in "Bailing on Me" (trattenetevi dal cantarci sopra po/po-po-po/po-po e gustatevi il fischiettio coxoniano nel finale) e canonizzato dalle Hole (il secondo singolo "Chewing Gum", ma non solo). Il primo singolo "U Should not be Doing That" (altro videoclip grandioso) garantisce la continuità col fuzz-rock ultra-catchy del precedente 'Comfort to Me', proprio come la successiva "Do It" (Social distortion?). La tecnofunkettosa "Me and the Girls" in chiusura (chi ha citato gli ultimi Clash? I Chk-chk-chk? I Daft punk?) insinua nuovi stuzzicanti scenari. E poi c'è "Big Dream", straordinaria, malinconica, immensa sunset-ballad accompagnata da un video infinito, girato in un'unica take, imprescindibilmente sottocutaneo, piccolo capolavoro di composizione e produzione. Una delle cose migliori di questi aridi anni '20. (Alberto Calorosi)
 
(Rough Trade Records - 2024)
Voto: 75
 

mercoledì 23 luglio 2025

Concrete Age - Awaken the Gods

#PER CHI AMA: Death/Folk
'Awaken the Gods', pubblicato a maggio di quest'anno, celebra il traguardo del decimo album in studio dei Concrete Age, formazione russa che si è affermata come pilastro dell'ethnic metal grazie al suo stile unico che mescola death, thrash e influenze folk provenienti da tradizioni orientali e slave. Attivi dal 2010, il quintetto ora di stanza a Londra, ha conquistato la scena underground con lavori acclamati come "Bardo Thodol" nel 2020 e "Motherland" nel 2022, rinforzando la loro reputazione per l'uso di strumenti etnici e racconti mitologici intrecciati con sonorità estreme. Con il nuovo album, la band continua a superare i limiti del genere, proponendo un'opera ambiziosa che combina potenza sonora e una profonda esplorazione culturale, consolidandosi come una delle realtà più innovative nell'ethnic metal contemporaneo. La produzione raggiunge livelli straordinari, garantendo un sound ricco e ben bilanciato. Gli strumenti etnici come balaban, duduk e kamancheh si amalgamano perfettamente con pesanti riff di death e thrash metal, arricchiti da melodie orientali sin dall'iniziale "Prey for Me". Questo brano evoca atmosfere esotiche ed è impreziosito dalla performance carismatica del frontman, la cui voce spazia tra toni epici quasi narrativi e sfumature più aggressive. Tale versatilità amplifica l'impatto emotivo dell'album, creando un legame potente tra passato ancestrale e presente musicale. Tra i brani che spiccano, "Forbidden Ministry" si distingue per il suo riff thrash metal accompagnato da una ritmica incalzante, capace di evocare vibrazioni che ricordano un immaginario incontro tra Nevermore e Orphaned Land. La title track, invece, si fa notare per la sua riuscitissima fusione di elementi etnici e metal, culminando in un ritornello estremamente coinvolgente. È il fulcro narrativo del progetto, un tributo alla forza primordiale che prepara il terreno alle ritmiche frenetiche di "Cursed Reincarnation", memorabile soprattutto nella seconda parte con un'energia quasi tribale. La strumentale "Mid-East Boogie" è un autentico vortice di energia. Il groove dei riff s'intreccia prepotentemente con scale medio-orientali, mentre il balaban e la kamancheh aggiungono un'atmosfera distintiva. I ritmi rapidi e le percussioni tribali donano, inoltre, un tocco sorprendentemente danzereccio. Non meno impressionante è il resto del disco con "Warrior’s Anthem", che si conferma ricco di assoli spettacolari e intriso di quell'inconfondibile mood folklorico che attraversa tutto l'album. In chiusura, le cover di "Boro Boro" di Arash e "Şımarık" di Tarkan, aggiungono ulteriore profondità all'esplorazione della tradizione musicale orientale, identificando 'Awaken the Gods' come un album che riesce a emozionare, far ballare e trasportare l'ascoltatore in un mondo fatto di energia e sogno. (Francesco Scarci)

lunedì 21 luglio 2025

Black Sabbath - Tokyo Heaven - Japan Broadcast 1980

#PER CHI AMA: Heavy/Doom
18 Novembre 1980, Heaven and hell tour, leg asiatica. Un broadcast radiofonico sgraziato ma significativamente transizionale, tra l'impudico 'Live at Last' e lo strabordante 'Live Evil'. Giorni duri quelli. Giorni che di 'Mob Rules' esiste soltanto la title track, peraltro fuori scaletta, giorni che Vinnie Appice ha rimpiazzato Bill "Etilometro" Ward da poche settimane, e ancora non sa bene come muovere le bacchette e si capisce qua ("Sweet Leaf") e là ("Heaven and Hell"). Giorni che sanno di sushi rancido, giorni che Tony Iommi cambia colore quando sale sul palco e poi corre a vomitare dopo meno di un'ora. Esordio catacombale e quintessenzialmente ozzy-sabbathiano ("Supertzar" plus una cupissima "War Pigs") in evidente contrapposizione al tiro tastierosamente cosmic riscontrabile l'anno dopo in 'Live Evil' ("E5150" plus "Neon Knights"). R-J-D da contratto deve fare i conti col famigerato R.M.O., il "Raglio Metallico Osbourniano". Ancora non ha in repertorio né "War Pigs" né "Black Sabbath", ma cerca (in "Iron Man") e trova (in "Sweet Leaf") una prima interessante personalizzazione. L'assolo di V.A. in "Sweet Leaf" è muscolare ma, a tratti, scomposto. "Heaven and Hell" occhieggia con la jam di "Fools" (Deep purple) ma finisce per autodilavarsi in una sbrodolata, con la timbrica più simile a quella di un carburatore in uno straccio che a quella di un basso elettrico, e che non regge il confronto con la sua naturale evoluzione "Heaven / Southern Cross" codificata magistralmente in 'Live Evil'. Il giudizio finale si riferisce alla rilevanza storica del documento e non tiene conto, per esempio, della sciatteria dell'operazione né del nome tristemente goliardico della casa discografica responsabile di quest'operazione. (Alberto Calorosi)