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venerdì 12 dicembre 2025

The Rootworkers - Don't Beat a Dead Horse

#PER CHI AMA: Garage/Desert Rock
L'ultima fatica discografica, in realtà il primo full length della band marchigiana The Rootsworkers, è alquanto interessante, non per lo stile scelto ma per il tipo di registrazione che lo caratterizza e lo identifica nell'atlante geografico musicale mondiale. D'altronde, come sempre dichiarato, le radici della musica di questa band sono radicate sulle rive del delta blues americano delle origini. Quindi, è un suono caldo e umido quello che ci attende, ma anche corposo che richiama i classici ritmi e stereotipi del genere, e li rivive anche con un sound granuloso, ruvido e psichedelico, che sta a metà strada tra il garage e il desert rock. La cosa strana è che alla fine questa soluzione non soddisfa né uno né l'altro stile, perché il risultato, sarà per l'effettistica usata sulla voce e quei bei riverberi vintage, li fa assomigliare più ai nipotini (anche se meno sperimentali), del mitico Captain Beefheart nel disco 'Clear Spot', che cercano di risuonare questo album alla maniera dei Mother Superior, non la band americana che collaborò con Henry Rollins, ma quella svedese di 'The Mothership Movement', splendido esempio di garage rock del 1999. 'Don't Beat a Dead Horse' è un album molto bello, giocato su suoni retrò, distorsioni e sonorità che si srotolano tra un rock aspro e un vellutato blues d'altri tempi, come nel caso di "Desert", mentre in "Unstoppable Pleasure", la mente torna ai primi anni 2000 e al modo ruffiano di fare indie rock degli EELS in 'Soul Jacker', anche se in questo disco, e va sottolineato, il classic rock blues è sempre e comunque predominante. Molto interessante "It's Gone (and Its Allright)", song dal piglio cool e suoni dilatati, una voce graffiante alla Tom Waits, un pathos che mette in risalto una ricerca sonora bella e certosina, a forza inseguita dalla band, che immerge le canzoni in un misto di suono lo-fi, ronzii e suoni rudi annessi, per una cavalcata verso il mitico "Rancho de la Luna", quel posto che ha dato vita a suoni e album dal sound immenso. I The Rootworkers lavorano sulla personalità, sfornando suoni veri, reali, fatti di sudore e polvere, che provano di continuo a ritagliarsi uno spazio sonoro proprio, cosa non certo facile in questo ambito musicale, ma la qualità compositiva e il buon gusto verso certe sonorità, li aiutano a non farli cadere nel mai così scontato baratro della deriva stilistica. Per concludere, possiamo definitivamente approvare questa nuova fatica dei The Rootworkers e catalogarla tra gli album doverosi di un ascolto a tutti i costi. Lasciatevi trasportare dal calore liquido di "Dead Flower Blues", per una fuga psichedelica di tutto rispetto. Un disco da ascoltare a tutti i costi, dove la mia preferita è l'acida e irriverente "Not My Cup of Tea". (Bob Stoner)

(Bloos Records - 2025)
Voto: 70