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lunedì 20 maggio 2019

Haiku Funeral - Decadent Luminosity

#PER CHI AMA: Industrial/Dark/Ambient, Esoteric, Godflesh, Samael
In un mondo dominato dal conformismo, dove ogni forma d’arte e d'intrattenimento tende sempre più ad appiattirsi allo scopo di compiacere la maggioranza del pubblico e sulla spinta di logiche di mercato, è naturale che le voci fuori dal coro esplorino sentieri totalmente opposti, puntando su proposte singolari ed estreme, per porsi come alfieri di coloro che non accettano di essere omologati e incatenati alla deriva generale. Nobile scopo senza dubbio, ma da perseguire con accortezza, perché il confine tra provocazione e forzatura è molto breve. Prendiamo l’ultimo lavoro degli Haiku Funeral, duo francese (in realtà un americano e un bulgaro trapiantati chissà come a Marsiglia) che nel 2016 si era fatto notare con ‘Hallucinations’, album dalle coordinate nettamente metal, per quanto ricco di contaminazioni elettroniche e sonorità a cavallo tra l’industrial e le melodie orientaleggianti dei Septicflesh. Questo ‘Decadent Luminosity’ si libera invece di ogni elemento tradizionale, dando preminenza alla componente elettronica e danzando ipnoticamente tra la pesantezza apocalittica dei Godflesh, i tribalismi meditativi alla OM, e l’esasperante lentezza degli Esoteric. Il tentativo di diluire tutti questi elementi ha ovviamente influito sulla durata di questo mastodonte musicale, che si presenta come un doppio album di un’ora e mezza: da un lato ‘Decadent’, dove dominano la freddezza marziale della drum-machine e i rabbiosi giri del basso di William Kopecky, dall'altro ‘Luminosity’, che invece si muove in malsane paludi dark ambient in cui di luminoso troviamo ben poco. Sempre presente invece l’elemento vocale, con Dimitar Dimitrov che ci accompagna in questa specie di discesa negli inferi come un blasfemo Virgilio, alternando il cantato cadenzato in stile Blixa Bargeld allo scream black metal, a cui si aggiungono poi svariati effetti orchestrali, sax, violini, voci femminili e mormorii indistinti che non fanno altro che aumentare la sensazione di trovarsi in gita sulle rive del Flegetonte. È dunque la debordante ricchezza di elementi ed influenze, più che il minutaggio, a rendere quest'album molto ostico: delle due parti è sicuramente ‘Decadent’ a risultare più accessibile, caratterizzata da pezzi in cui la forma canzone è più definita e dove risaltano la marziale e meccanica "The Crown Of His Glory", le grandiose atmosfere sinfoniche di "The Dreams Of Celestial Beings" (in cui è avvertibile l’influenza degli ultimi Samael) e l’allucinante orgia ritualistica di “Dreaming Kali In The Temple Of Fire”, dove si combinano elementi orientali con la teatralità dei Kilimanjaro Darkjazz Ensemble. I richiami al collettivo olandese fanno capolino anche nella seconda parte dell’album ("Vision Pit"), ma qui basso e drum-machine ci abbandonano per dare spazio a stridenti feedback ed oscuri effetti elettronici, mentre si compie la metamorfosi del cantante da guida dantesca a vero e proprio sacerdote demoniaco, apparentemente impegnato nell’evocazione di creature non euclidee. Bisogna ammettere che la scelta di dedicare interamente metà dell’opera alla componente ambient rende faticoso anche per l’ascoltatore più eterodosso arrivare alla fine senza skippare qualcosa, questo perché il passaggio tra le pulsanti dinamiche di ‘Decadent’ all’esasperante lentezza di ‘Luminosity’, è forse troppo brusco (un po’ come passare da 'Pretty Hate Machine' dei Nine Inch Nails ad un disco dei Raison d'Être) e le due parti finiscono per avere ognuna vita propria. Il risultato finale è un esperimento affascinante ed ambizioso, ma poco equilibrato, talmente trasgressivo da rischiare di non essere preso del tutto seriamente. Una maggior sintesi delle varie tendenze della band e un minutaggio più contenuto avrebbe permesso a ‘Decadent Luminosity’ di risaltare maggiormente tra le uscite estreme di questi ultimi 12 mesi, ma forse gli Haiku Funeral preferiscono muoversi nella buia desolazione dei gironi infernali più profondi. (Shadowsofthesun)

(Aesthetic Death Records - 2018)
Voto: 66

https://haikufuneral.bandcamp.com/album/decadent-luminosity

domenica 19 maggio 2019

Primus - The Desaturating Seven

#PER CHI AMA: Funk Rock
Nella rilettura musicale de 'I Coboldi dell'Arcobaleno' di Ul de Rico musicata ed eseguita nientescoreggiadimeno che dallla formazione originale dei Primus, una prevedibilmente liquidissima (ed eccessivamente lunga) introduzione lascia spazio all'ahimè ormai consueta carrellata di (peraltro godibilissimi) trademarks Primus-Clapypoll-iani: sbilenchi vaudeville stompeggianti da stivali sporchi, orecchie a punta e parecchia birra in circolo ("The Trek" e, nel prosieguo, la più prosaica "The Storm", eppure in grado di trasmettere un certo senso di pathos stupefatto), marcette incazzofunky di quelle che ascoltereste volentieri mentre pigliate Anthony Kiedis a schiaffoni sul muso (la nervosa "The Scheme", oppure nella materica "The Seven", che durante l'ascolto assumerà fattezze proprie, fuoriuscirà dall'album, dal vostro lettore mp3, dalle cuffie, dalle vostre orecchie, per attraversare lo spazio ed il tempo e finire per collocarsi direttanete sul lato B di 'Discipline' dei King Crimson) e filastrocche strumentali ("The Ends?") che vi sembrano collocarsi grosso modo tra 'Chocolate Factory' e la torta di compleanno degli undici anni di Mercoledì Addams. Virale. (Alberto Calorosi)

(Prawn Song - 2017)
Voto: 63

http://www.primusville.com/

Bruce Lamont - Broken Limbs Excite No Pity

#PER CHI AMA: Drone/Ambient Rock
Languida eppure dronizzata (la ficcante "Excite No Pity", successivamente deliquescente verso un noise eversivo alla Godspeed You Black Emperor) od, oppostamente, etno-liofilzzata ("Neither Spare Nor Dispose"), la litania messianica Michael-Gira/ffazzonata messa in scena nei momenti più avant-garde del secondo disco solista di Bruce Lamont, appare comunque di primo acchito come una sorta di schizo-frantumazione del jazz-core stanziale nelle ineffabili menti disturbate dei chicaghesi Yakuza. Un (white) noise liquido, kelviniano (il gelo cosmico espresso in "8-9-3" ne è un esempio) o termodinamico (il caos ronzante di "The Crystal Effect" potrebbe ricordarvi anche un Minipimer rotto), oppure morfologicamente stratificato (gli infiniti loop di "Maclean", ma anche il divertito hereafter-surf "Goodbye Electric Sunday", volendo) nella direzione, sempre che quello di direzione sia un concetto vagamente significativo all'interno di questo album così scarsamente cartesiano, nella direzione dicevo, di una dissolvenza quintessenziale e definitiva: sostenuta da una riverberante chitarra acustica, la straordinaria "Moonlight and the Sea" in chiusura vi suonerà come una sorta di "Space Oddity" kubrickiana. Da ascoltare in cuffia mentre attraversate un buco nero pentadimensionale a velocità curvatura. (Alberto Calorosi)

mercoledì 15 maggio 2019

He Comes Later - Cognizance

#PER CHI AMA: Deathcore
La scuola americana deathcore fa proseliti anche in Italia. È il caso dei bolognesi He Comes Later, una band nata nel 2010 e votata inizialmente al metalcore, che ha poi virato il proprio tiro verso il deathcore con l'ingresso in formazione nel 2013 del bravo vocalist Andrea Piro. I punti di riferimento guardano ovviamente agli USA, dove negli ultimi tempi si è visto un pullulare frastornante di una miriade di gruppi dediti a queste sonorità che puntano ad emulare, ahimè senza grossi risultati, i gods Rivers of Nihil e i compari Fallujah. Con i nostrani He Comes Later siamo però un po' più distanti dalle melodie sognanti e un po' ruffiane di quelle due realtà, sebbene un uso massiccio dei synth già a partire dalla malinconica opener di questo 'Cognizance', intitolata "Despondency". Quello che mi sento immediatamente di sottolineare è la potenza di fuoco messa in mostra dal quintetto italico e da quel rifferama ribassato (coadiuvato da martellanti blast beat) che evoca, per forza di cose, i maestri Meshuggah. Il growling di Andrea poi è davvero notevole nella rabbia profusa e nella profondità della sua timbrica. Il disco avanza attraverso tracce quali la sincopata e djentleliana "Execution" e la più atmosferica "Detachment", detonando ritmiche possenti su cui s'installano i synth cibernetici (a tratti psichedelici) dei nostri, che per certi versi richiamano gli americani Honour Crest. In "Torment" il gruppo sperimenta soluzioni alternative, miscelando un urticante death metal (con tanto di pig squeal vocali) con la musica classica, rallentamenti paurosi ed una onnipresente dose di melodie, peccato solo che la traccia sfumi in modo brutale sul finire. Ancora atmosfere e ritmiche incendiare con la brutale "Healing", dove accanto ad ubriacanti sterzate ritmiche e vocalizzi animaleschi, la band trova ancora il modo di coniugare ottime melodie con stop'n go da cavare il fiato. Cosi come convincente è l'arrembante "Guidance", tra riffoni serrati, una buona sezione solistica ed ottime keys, quasi a evidenziare che di cali fisiologici la band emiliana non ne vuole sapere. Lo stesso dicasi di "Atonement", song assai ispirata a livello atmosferico, con keys spettrali davvero convincenti che non rappresentano un semplice corollario alla sezione ritmica ma che assumono invece un ruolo da assolute protagoniste. "Quiescence" è un breve brano strumentale che funge da bridging con la dinamitarda "Resurgence", song dalla ritmica a tratti compassata che mi ha ricordato un che degli statunitensi Kardashev. A chiudere ecco la furibonda title track ed i suoi quasi quattro minuti di killer riff, rallentamenti da paura, vocals belluine, synth di "tesseractiana" memoria e quanto di meglio possa offrire oggi il panorama deathcore. Interessante anche il concept che si cela dietro al disco, ossia la vicenda di un ragazzo depresso, voglioso di suicidarsi che tuttavia, nell'attimo di compiere l'atto fatale, fallisce entrando in uno stato cognitivo di pre-morte che lo porterà a vivere varie esperienze che lo arricchiranno di una nuova consapevolezza verso la vita. Insomma, 'Cognizance' è un buon debutto sulla lunga distanza dal quale iniziare la scalata verso le vette del deathcore mondiale. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 74

From Another Mother - ATATOA

#PER CHI AMA: Math Rock/Punk
Al giorno d’oggi l’offerta musicale è talmente ampia e ramificata che si fatica a tenere il passo delle nuove proposte: inutile dire che le produzioni di formazioni affermate provenienti da scene “storiche” catalizzano l’attenzione di pubblico e critica, forti della maggior visibilità guadagnata nel corso degli anni. Tutto questo ha un prezzo: molto promettente materiale di realtà dell’underground non riceve la meritata attenzione, così come il lavoro di artisti provenienti da scene ancora lontane dalla luce dei riflettori. Ho pensato a questo quando mi sono imbattuto in 'ATATOA', seconda fatica dei croati From Another Mother, eclettico terzetto in azione dal 2013 che promuove una sorta di fusione tra math rock cerebrale alla Dillinger Escape Plane, sfuriate punk-rock e passaggi più orecchiabili: una gran bella miscela che richiede non poca abilità per essere concepita e amalgamata. La ricetta concentrata in queste nove tracce è ricca di sfumature e sicuramente interessante (per quanto un po’ acerba), tuttavia le informazioni presenti in rete sulla band sono davvero scarse e risulta quindi difficile farsi un’idea su ciò che ha portato alla genesi dell’opera: lasciamo dunque parlare la loro musica. La prima traccia “May” ci fornisce subito una chiara indicazione di come si svilupperà l’album: partenza leggera e accattivante, caratterizzata dal cantato scanzonato e dalla chitarra pulita, che dopo meno di un minuto lascia bruscamente spazio ad un esplosivo ritmo serrato a supporto di un travolgente assolo di chitarra e voci urlate. Il repentino alternarsi di parti melodiche e riff furiosi sembra essere il marchio di fabbrica del gruppo e viene ripreso anche in “First Things First” e “Song Number 9”, dove possiamo apprezzare l’abilità dei tre musicisti nel destreggiarsi tra i cambi di tempo e le irrequiete dinamiche che costituiscono l’ossatura di 'ATATOA'. Decisamente più atmosferiche e sognanti sono invece “Supernova” e “Walnut”, brani che risaltano grazie alle forti influenze post-rock e che richiamano i britannici And So I Watch You From Afar, ma nemmeno in questi i From Another Mother lesinano nello spingere sull’acceleratore, lanciandosi in tumultuosi crescendo rumoristici quasi shoegaze. “I Will Atone” e Slightly Wrong” si distinguono invece per le divagazioni jazzy e gli elaborati giri di basso, mentre in coda troviamo “Keep Your Head” e “Baited”, i brani più diretti e pesanti del mazzo, i quali meglio esprimono l’anima “heavy” della band senza per questo cadere nel banale. 'ATATOA' è un album che incanala l’entusiasmo del gruppo e trasmette per tutta la sua durata emozioni estremamente positive, riuscendo a coinvolgere l’ascoltatore e rendendo l’ascolto piacevole e leggero, malgrado i repentini cambi di tempo e le nervose strutture delle canzoni. Se da un lato la tecnica nell’esecuzione e la ricercatezza degli arrangiamenti non sono in discussione, va detto però che i pezzi, per quanto validi, si sviluppano in modo troppo eterogeneo, suscitando spesso la sensazione di ascoltare la registrazione di una divertente jam session. Nel complesso il lavoro sembra mancare di un’idea di insieme e fatica a trasmettere un concetto unitario, disperdendo molte ottime idee in un’impetuosa ricerca di varietà stilistica. I From Another Mother giocano tutte le loro carte sulla creatività sregolata, dando liberamente sfogo ad ogni idea e confezionando un disco energico e diretto; la band, invece di puntare con decisione verso percorsi più ambiziosi per valorizzare il proprio notevole bagaglio tecnico, sembra volersi accostare più ai rassicuranti filoni punk e alternative rock, ma per una giovane realtà dell’est europeo, ancora alla ricerca di un posto al sole, probabilmente va bene così. (Shadowofthesun)

(Kapitan Platte - 2019)

The Mighties - Augustus

#PER CHI AMA: Punk/Garage Rock, Ramones
Non sono proprio la persona più indicata a recensire questo genere di suoni, ma visto che il lavoro è finito tra le mie mani (si tratta di un vinile), mi adatto e vi racconto quello che ho sentito. Sicuramente quello che si evince da "Caprice de la Drama", la opening track di 'Augustus', opera prima dei The Mighties, è che il disco dei nostri (non certo degli sprovveduti, avendo all'attivo già quattro EP ed una miriade di concerti alle spalle) abbia voglia di portarvi indietro di una cinquantina di anni e farvi divertire con il loro garage rock. Immaginatevi un po' la sigla di Happy Days, la sit com americana famosa a cavallo degli anni '70-80 per Fonzie e compagni, e quei ragazzi che ballavano il rock'n'roll, ecco l'intento della band umbra, ovvero quello di immergervi in quei suoni, riportando in voga il rock di quegli anni e diventando prodromico del punk che in paio di lustri si sarebbe sviluppato. E allora balliamo selvaggiamente al ritmo incalzante di "Chinese Drop", che ammicca ad un che dei Ramones, mentre con la successiva "Everybody's Doing" lasciatevi trascinare dal groove infuocato dei nostri per poi trovarvi a cantare a squarciagola col ritornello assai catchy della song. Non è musica certamente impegnata quella che ci offre 'Augustus', accogliendo un sound caldo e divertente, che la maggior parte dei giovani di oggi crederà appena concepito o peggio, inventato dai Blink-182, mentre in realtà affonda le radici proprio negli anni '60. Alquanto inusuale, almeno per il sottoscritto, è "Church of R'n'R", rilassata quanto affascinante nel suo sinuoso incedere. Le mie song preferite però sono "Girl in the Zoo", cosi oscura e maledettamente rock, sebbene nel suo refrain ci senta un che di "Seven Nation Army" dei The White Stripes e "Casablanca", scanzonata ma seria allo stesso tempo, con un assolo conclusivo davvero incazzoso. Insomma, con 'Augustus' c'è da divertirsi non poco per scoprire o riscoprire la freschezza di suoni che alcuni di noi pensavano persi nella notte dei tempi. (Francesco Scarci)

(We're at Fruit Records/SOB Records - 2019)
Voto: 72

lunedì 13 maggio 2019

Ho Gravi Malattie - Lithium (Mental Illness)

#PER CHI AMA: Noise/Ambient
Altro capitolo targato Ho.Gravi.Malattie, progetto che associa noise ed arte nell'intento di mostrare e svelare le sofferenze che stanno dietro alle tante malattie che affliggono l'uomo. Una malattia, un disco, questo è il format, con confezione handmade in CDr a tiratura limitatissima (solo 7 copie) ed in futuro prevista anche la versione in cassetta, oltre al formato digitale. Riporto una parte della presentazione dell'artista, perchè troppo bella: è il misantropo (H)organismo.(G)ravemente.(M)alato, un passato da recensore musicale per due importanti webzine italiane e performer del progetto merda-noise chiamato, appunto, HgM. Costui è anche il mentore e custode di questa coraggiosa, morbosa e fantasiosa label DIY torinese, che sforna idee così stravaganti e scomode, e nonostante lo shock iniziale dovuto ai temi non certo allegri delle opere trattate, una volta capito l'intento artistico ci si inoltra nella musica reale, o meglio nel rumore reale. Ho trovato questo a proposito di sperimentazione medica sui ratti: il litio rimane il trattamento più utilizzato per il disturbo bipolare, tuttavia, i meccanismi molecolari alla base delle sue azioni terapeutiche non sono stati completamente chiariti. A tal proposito presumo che il titolo scelto, seguito dalla dicitura "Mental Illness", si sposi benissimo con l'intento di portare in musica il concetto della malattia mentale e qui troviamo molto su cui riflettere. Un deserto sonoro fatto di lunghissimi rumori ambientali di sottofondo, come se fossimo sotto un cavalcavia di un'autostrada cosmica che porta verso l'ignoto, grida disperate e solitudine, isolamento, la tecnica della stratificazione del suono per ottenere un wall of sound fatto di noise e cicatrici sonore rubate all'ambiente che ci circonda. Due sole tracce molto lunghe di quindici ("Lithium") e venti minuti ("Arsenic Death") rispettivamente, esplorano questo triste declino della mente umana, cercando di esportarne le controverse e disperate emozioni che possono convivere in un paziente affetto da tale patologia. Detto questo, per capire al meglio quest'opera, ci si deve apprestare ad un ascolto assai emotivo ed impegnato, visto che stiamo parlando di un ambient/noise ortodosso e mal disposto ai compromessi. Un'opera dura, minimale ma d'impatto e corposa, una nebbia fitta che rapisce i sensi e rende palpabile questa forma atroce di malattia. Un disco/concetto molto violento, non tanto per la musica in sé ma in quanto alle sensazioni malate, è il caso di dirlo, che esso emana. Ovviamente, musica per ascoltatori forti di stomaco ed amanti del noise d'ambiente più estremo. (Bob Stoner)

Abraham - Look, Here Comes the Dark!

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, The Ocean
Disco uno. Suoni pesanti. Wave. Stoner. Panico. La fine dell'anthropocene, il declino e la conseguente scomparsa del genere umano. Era ora. Disco due. "Phytocene". Immaginate che la specie dominante del pianeta Terra sia ora una gigantesca ortica telepatica e iraconda. Rarefazione, linfa pulsante. Disco tre. "Mycocene". Psichedelia. Spore. Quattrocentomila dopo Cristo. Grosso modo. La Terra è infestata di piccoli bizzarri funghetti del tutto simili a quelli che avete assunto l'altra sera. Disco quattro. "Oryktocene". Pulviscolo. Radiazione di fondo. Erosione. Estinzione totale. Quattro dischi quattro, uno per era geologica. Da oggi fino alla fine del tempo. Centotredici minuti di musica. Un'eternità. Sonorità grevemente concrezionali e limpidamente riverberanti, qualcosa a metà tra una specie di ultra-doom amniotico post-crepuscolare ("To the Ground", per esempio) e una sorta di psych-stoner diffratto e ultrapercettivo ("God Pycellium" per esempio). Di tanto in tanto, divagazioni jazz-core ("Wonderful World" per esempio) e magma-drone ("Wind" per esempio). Estenuante. (Alberto Calorosi)

Helheim - Rignir

#PER CHI AMA: Epic/Viking, Bathory
Ci eravamo fermati al 2011 qui nel Pozzo a recensire i norvegesi Helheim. Da allora di acqua ne è passata sotto i ponti: due album di suoni vichinghi, 'raunijaR' e 'landawarijaR', fino ad arrivare al nuovissimo 'Rignir' (che significa pioggia) fuori per l'imprescindibile Dark Essence Records. Le novità in questi anni sono state diverse, assistendo al forte desiderio di sperimentazione da parte della band di Bergen. Lo avevamo colto negli ultimi due album, forse è ancor più forte in quest'ultimo arrivato. Diciamo che all'ascolto della mite ed epica opener, il black metal degli esordi sembra ormai essere solo un lontano ricordo. Niente paura perchè con la successiva "Kaldr", non posso che sottolineare l'abilità dei nostri di muoversi tra un black atmosferico (di scuola Enslaved) con tanto di sporadiche accelerazioni ed un suono che a tratti diviene evocativo e solenne, complice come sempre l'alternanza alla voce tra V'ganðr e H'grimnir che, grazie ai loro differenti registri, riescono a mutare drasticamente la proposta dei nostri, tanto da farmi strabuzzare gli occhi nella seconda parte di "Kaldr", una song che si muove tra il progressive e le sperimentazioni neofolk di Ivar Bjørnson & Einar Selvik. Cosi come pure quando inizia "Hagl", song che si sviluppa attraverso un incedere lento, sinuoso, un po' stralunato in salsa folk rock, con improvvise accelerazioni, di fronte alle quali non posso che rimanere piacevolmente sorpreso e colpito dalla voglia dei nostri di suonare originali. E dire che nelle file della compagine nordica, ci sono ex membri di Gorgoroth e Syrach. Comunque la band è convincente in quello che fa, dall'epica bathoriana di "Snjóva" alle suggestive melodie di "Ísuð", là dove soffia il freddo vento del Nord, in un altro piccolo tassello di suoni devoti a Quorthon e compagni. Con "Vindarblástr" mi sembra di aver a che fare con i Solstafir, visto quel cantato pulito che evoca non poco il vocalist dei maestri islandesi. C'è ancora tempo per un altro paio di song: "Stormviðri" è un pezzo malinconico e compassato che vede ormai rare tracce di un retaggio black ormai quasi del tutto svanito. La conclusiva "Vetrarmegin" è l'ultimo atto in cui compaiono ancora forme di un black ritmato ma ormai completamente affrescato da un epica di bathoriana memoria. 'Rignir' è un disco ben fatto sicuramente, ma degli esordi dei nostri ormai non v'è più traccia alcuna. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records - 2019)
Voto: 75

https://helheim.bandcamp.com/album/rignir

Lucy in Blue – In Flight

#PER CHI AMA: Psichedelia/Prog Rock, Porcupine Tree
Non avevo mai sentito i Lucy in Blue prima d’ora ma di sicuro non li scorderò facilmente. 'In Flight' è un disco che mi ha stregato e mi ha fatto venir voglia di rispolverare i vecchi vinili dei Pink Floyd di mio padre e riascoltarmi la discografia completa dei Porcupine Tree. Siamo davanti ad una personalissima reinterpretazione del prog rock di stampo anni sessanta/settanta con una vena psichedelica e post importante. Gli ambienti dei Lucy In Blue sono immaginifici, sognanti e pieni di suggestione, saranno probabilmente stati i paesaggi ghiacciati e i tramonti islandesi ad aver conferito ai pezzi una tale cinematograficità e una tale intensità emotiva. Perfetto per una colonna sonora di un film, adattissimo all’ascolto in solitudine sulla poltrona a contemplare la notte, 'In Flight' riesce a riassumere la lezione delle grandi band del passato e a tramutarlo in qualcosa di nuovo, fresco e accattivante. Il dittico d’inizio "Alight" pt.1 e pt.2 è come un’infinita sequenza di lenzuola di seta che si stendono una sull’altra, senza peso, senza sostanza, fatte solo di leggerezza. La voce poi a ricordare moltissimo i primi lavori di Syd Barret con i Floyd, aggiunge quella componente malata e allucinogena che allarga la percezione e induce ad una trascendenza lisergica artificiale così piacevole e così profonda da sembrare tangibile. I pezzi sono vari ma lo stile e l’identità della band rimane; "Nùverandi" ricorda "Wish You Were Here" e lo struggente quanto leggendario rammarico per il compianto diamante pazzo. "Tempest" vanta la presenza di un frenetico prog rock che ricorda gli Area e i Jethro Tull, con quei suoni di organetto così evocativi dell’epoca d’oro del prog che quasi mi fanno commuovere. Una menzione merita anche la title track, indiscutibilmente il mio pezzo preferito del disco, che con i suoi quasi dieci minuti di lunghezza offre una selezione dei migliori ambienti dei Lucy in Blue e li conferma come maestri di espressività strumentale ed emozionale. Nonostante alcuni piccoli inciampi nel mood delle canzoni, il disco rasenta la perfezione. In particolare mi riferisco a momenti troppo frenetici seguiti da ambienti rarefatti ed intangibili, ove a volte la transizione appare troppo repentina, ma questo è il mio gusto personale, sono sicuro che altri ascoltatori potrebbero trovare questa caratteristica piacevole e interessante. Consiglio vivamente i Lucy in Blue a tutti i nostalgici della psichedelia e del prog, sono certo che troveranno gran soddisfazione nel volo di 'In Flight' e sono altrettanto certo che vorranno ripetere l’esperienza più e più volte finché la realtà non si squaglia e rimangono solo delle soffici nuvole dai colori pastello e un caleidoscopico cielo notturno adornato da un milione di stelle che lampeggiano ad intermittenza casuale e che non vogliono saperne di stare al loro posto. (Matteo Baldi)

(Karisma Records - 2019)
Voto: 82

https://lucyinblue.bandcamp.com/album/in-flight

domenica 12 maggio 2019

Anneke Van Giersbergen & Árstíðir - Verloren Verleden

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Indie Acoustic
Dieci limpidissimi e lamentosissimi lieder di provenienza assortita nello spaziotempo, limpidamente e nordicissimamente arrangiati utilizzando piano barra quartetto d'archi (di solito un violino e tre violoncelli) oppure chitarra barra quartetto d'archi (rispettivamente: "Bist Du Bei Mir", di Gottfried Stölze, compositore barocco coevo di Bach e il tradizionale inglese fine 800 "Londonderry Air - Danny Boy" di Frederic Weatherly) oppure limpidamente e noiosamente interpretanti a cappella ("Heyr Himna Smiður", Árstíðir) o quasi-a-cappella (il tradizionale islandese "Þér ég Unni", non-arrangiato dagli Árstíðir e già proposto nel live a Brema del 2013). Il torpore è allontanato di tanto in tanto, quando l'asticella emotiva sale intenzionalmente di qualche tacca (la summenzionata "Londonderry Air", ma anche "Russian Lullaby", Irvin Berlin, 1927, "A Simple Song", Leonard Bernstein per Zeffirelli, 1972, e pure il romanticismo nordico di "Solveig's Song", Edward Grieg dal Peer Gynt, senz'altro il più prossimo allo spleen Árstíðir) a scapito, provvidenzialmente, di un certo soggiacente e fastidioso narcisismo di fondo. (Alberto Calorosi)

Tintinnabula - Mamacita

#PER CHI AMA: Alternative Rock, System of a Down
Con le considerevoli eccezioni della metal-patchanka "Mamma", della electrotribale "Pazzo", a metà strada tra un Marilyn Manson che assume tachipirina da un flute e un Vinicio Capossela che si mangia uno yogurt scremato al mango, della melodic-vigorosa "L'immensità", riuscita cover del più celebre singolo di Don Backy, con tanto di ospitata dell'autore, o dell'inaspettata concessione al discorrer di amorosi sensi in chiusura, quel medesimo discorrer di amorosi sensi ipotizzato nella copertina (individuerete una punta, ma solo una punta di Fausto Leali nella conclusiva "Sottovoce" e un iceberg, ma solo un iceberg del Marco Masini più Disperato nella seconda A di amaro nella canzone "Amore Amaro"), con la considerevole eccezione di tutto questo, dicevo, nelle sedici canzoni del terzo album dei "Sicily of a Down" troverete un nu-metal old-school a tratti prossimo ("Clochard"), oppure molto prossimo ("Pietà") o ancora spudoratamente prossimo ("Mamacita") agli scorticanti fulgori dalla metal band archetipica dell'intera storia del metal armeno e mondiale e, nelle liriche, un approccio lubricamente combat folk, qualcosa a metà strada tra i Modena City Ramblers con la faccia sul bancone ("Viva Mazzarà") e i Litfba con l'unghia del medio incarnita ("Auto Blù" [sic], "Pietà"). "(∂+m)ψ=0", il titolo della quattordicesima traccia, è un enunciato (trascritto erroneamente, suppongo per esigenze di copione) dell'equazione di Dirac, universalmente nota come equazione dell'amore per via di una forzosa seppure affascinante interpretazione del suo significato. La mamacita, invece, è un vezzeggiativo in lingua spagnola di quella categoria femminile che nel vostro porn site preferito è classificata sotto il più noto acronimo di MILF. (Alberto Calorosi)

(Areasonica Records - 2018)
Voto: 68

http://www.tintinnabula.com/band.html

Ultra Zook - S/t

#PER CHI AMA: New Wave/Avantgarde
Incontrare l'immaginario folle degli Ultra Zook è cosa inverosimile ma alquanto rigenerante. Inverosimile perchè l'insieme di musiche e generi usati dal trio (il cd è uscito per la Dur et Doux and Gnougn Records mentre il digitale per Atypeek Music, in vinile ed anche in cassetta per i nostalgici) che si fondono nel loro sound sono innumerevoli ed imprevedibili, rigenerante poiché alla fine di questo loro disco ci si sente acculturati e pienamente soddisfatti sotto il profilo musicale. Immaginate i suoni caraibici di Rei Momo (vedi David Byrne) e la ballabile schizofrenia dei primi Talking Heads usati per suonare musica cabarettistica dal rustico sapore di campagna francese, suoni che dal Sud America si muovono verso i synth della Plastic music e il jazz gogliardico di memoria Zappiana, dove il compito arduo è capire le complesse formule di 'Jazz from Hell' per avere una chiave di lettura della folle musica di questo ensamble francese, figlio dell'avanguardia di matrice The Residents quanto della Bubble music/synth wave dei primi anni ottanta e del synth pop odierno. Dentro questo album (il primo full length dopo una manciata di EP tutti assai interessanti) ci troviamo di tutto, accenni di folk celtico con tanto di bagpipe ("Conderougno") e thin whistle ("Kawani"). In un contesto tropicale e atemporale si snodano i brani irreali del trio transalpino, che coniugano stupore, fantasia e genialità nel costruire brani pop di sofisticato approccio, attitudine elettronica tedesca, irriverenza rock alla XTC e fine ricerca ai confini col rock in opposition. Il canto in madrelingua è la ciliegina sulla torta, rendendo il tutto un'amalgama perfetta, l'astratto è in scena, una porta spalancata sulla strada della follia, una follia reale, libera di creare e gioiosa, mai banale, intelligente e convincente, una sorta di paese delle meraviglie in salsa sonora, dove tutto alla fine è una scoperta. Un disco allucinato, fuori dal tempo, stralunato e coraggioso, il proseguio perfetto per la dinastia psichedelica della famiglia Renaldo and the Loaf. Un dovere l'ascolto di questo album, per gli amanti e ricercatori di nuove commistioni sonore tra vintage, avanguardia e lucida pazzia. (Bob Stoner)

(Dur et Doux/Gnougn Records/Atypeek Music - 2019)
Voto: 78

https://ultrazook.bandcamp.com/

No Man's Valley – Outside the Dream

#PER CHI AMA: Psych Rock, Danzig
Gli olandesi No Man's Valley con questo nuovo album (edito dalla Tonzonen Records) hanno fatto un passo avanti da vero gigante, in assoluto il loro miglior lavoro, un disco che comprende composizioni carismatiche, compatte e avvolgenti, canzoni abbaglianti sotto l'egemonia del garage rock psichedelico più ricercato, cosmico e solare che spazia tra Fuzztones e On Trial, tra The Church e The Spacious Mind, tra Giobia e Crime & the City Solutions, tra il primo Danzig e i The Doors. La musica è intrigante e nasconde sotto la matrice garage anche una punta di stoner vecchia scuola europea, stile 7Zuma7 o The Heads. Il suono si esalta e mette a segno il miglior colpo con l'imponente e sulfurea "From Nowhere", dove è d'obbligo l'associazione alla mitica e irraggiungibile "Skeleton Farm" dei Fuzztones, ed è doveroso aggiungere, che la band dei Paesi Bassi, pur ricordando vari maestri del genere psych, si assume la pesante responsabilità di una originalità di grande valore. I suoni sono praticamente perfetti, curati in maniera maniacale, luminosi, profondi, lisergici e allucinati quanto basta per sentirne il vero calore e tutta la reale efficacia sonica. Il canto è sofisticato, coccolato dagli effetti vintage, il beat scalpita ed offre un sapore antico sulla rotta dei 60s, in un mood incantato che emana poesia e magia in tutte le sue tracce anche quando si surriscalda sulla via del buon vecchio Glenn Danzig, modalità canora "She Rides" (ascoltate "7 Blows"), facendolo rientrare nel finale, in un contesto sonoro stile "The End" dei Doors. Un lavoro importante, fantasioso e rispettoso allo stesso tempo, per quelli che sono i canoni preimpostati del garage rock/psichedelia di qualsiasi annata, musica per lasciarsi trasportare, per immergersi in un viaggio, liberare la mente e gioiosamente godere di un rock stralunato (ascoltate il fantastico ritornello di "Lies" in salsa Crime & the City Solutions, periodo 'Shine') suonato alla grande, una cascata di suoni luccicanti pronta ad investirvi con un taglio dark molto coinvolgente. La copertina del digipack è fantastica, surreale, allucinogena ed il disco è bellissimo senza alcuna caduta di stile, un caleidoscopio di colori tutto da scoprire. I No Man's Valley si affacciano all'altare del rock internazionale in maniera splendida e credibile. Ascolto imperdibile! (Bob Stoner)

sabato 11 maggio 2019

Sirena Velena – The Blood Girls (Le Mestruo)

#PER CHI AMA: Dark/Industrial/Ambient
Per la collana di produzioni Ho.Gravi.Malattie. a sfondo artistico/concettuale dell'etichetta torinese underground, HgM, ci giunge un nuovo capitolo tutto da scoprire. Nell'ambito dell'intento di portare a galla e sensibilizzare l'ascoltatore verso malattie o disagi più o meno gravi della vita quotidiana e moderna, l'artista palermitana in questione (Leandra Ardizzone), ci offre un EP, scandito da una voce narrante e scorribande rumoristiche varie, di sole tre tracce, sul tema delicato ed intimo del mestruo femminile, considerato in certe culture una vera e propria malattia discriminatoria per il genere femminile. L'aspetto visitato di questo rituale è visto con severa drammaticità e nel contesto del lavoro ci si addentra in un tipo di sofferenza che enfatizza il lato più doloroso e psichico di tale disagio. Le grida sul finale del primo brano dal titolo "Indisposizione" sorprendono per realistica interpretazione, il pulsare ritmico e ripetitivo dei rumori ed il recitato di "Le Ho", fanno avvicinare il nostro stato d'animo a quello della donna che vive queste situazioni una volta al mese. Unica pecca, ma voluta per esigenze sonore/stilistiche, è che il testo, in italiano, è poco comprensibile per via degli effetti usati che lo disperdono un po', ma resta comunque validissimo il risultato finale, drammatico e tagliente, a dir poco destabilizzante. La tensione si carica ulteriormente sul conclusivo terzo brano dal titolo "Non Posso Alzarmi", con quella sensazione di infermità e incapacità percepibile che la bella voce narrante di Sirena Velena (modella d'arte, performer, sperimentatrice noise) riesce a trasmettere legata al suo modo, molto intelligente, di paragonare ad ugual valore, l'arte del rumore ad una composizione musicale di tutto rispetto. La violenza di questo lavoro è palpabile, coerente e molto veritiera, in un suono diviso tra lo-fi noise, rumoristica e minimal industrial ambient, con il cd che contiene copertina ed un inserto a tema sanguinolento per rimarcare il concept delle composizioni. Il lavoro è disponibile anche in edizione limitata a 26 copie in cassetta (rossa/bianca) all'interno di un assorbente in busta di plastica rossa (peccato non siano stati inseriti i testi dei tre brani). Questa è la linea di confine estrema che separa la musica d'intrattenimento dalla musica di riflessione, l'espressione artistica che, tramite rumori e parole, dà sfogo alla lotta di sopravvivenza quotidiana della donna. Un EP sicuramente molto particolare, ispirato e di nicchia ben riuscito. Musica di culto e d'arte che non può e non vuole essere rivolta a tutti, poichè necessità di una sensibilità più alta per essere recepita ed apprezzata. (Bob Stoner)

The Worst Horse - The Illusionist

#PER CHI AMA: Hard Rock/Stoner
Una mitragliata hard-stoner-fucking-rock’n’roll ci getta violentemente in questo 'The Illusionist'. L’opener “Tricky Spooky” ci aggredisce e ci trascina giù, vorticosamente nel disco, al grido rabbioso dei milanesi The Worst Horse. Un grido che sale dal basso e si protrae fino alla successiva “313 Pesos”, che non accenna a diminuire i toni, con l’imposizione del suo groovvone metallico e fregiandosi di richiami (e ricami) hard blues, sempre ovviamente con gli amplificatori sparati al massimo. 'The Illusionist' è in realtà un concept, improntato appunto sulla figura appunto dell’Illusionista. Questo tetro personaggio è artefice ma allo stesso tempo vittima di malvagità, ormai schiavo di quei mostri interiori che ha voluto seguire ma che ora si impongono al suo volere, gli stessi mostri che sovente s'impossessano anche dei cupidi esseri umani. Le tetre fantasie che s'incontrano nei brani, sono infatti profonda allegoria di una realtà che troppo spesso cede alle malvagità, quei demoni che raschiano il fondo dell’anima umana e tuttavia ne sono anche parte integrante. La title-track, coi suoi richiami ai Motorpsycho più recenti, funge appunto da descrizione-presentazione del nostro Illusionista e della sua eterna caduta. L’album procede senza intoppi, sempre sfoggiando riffoni e groove trascinanti in puro stile Worst Horse, tra pure sonorità stoner alla The Sword ed ispirazioni dark-blues sabbathiane. Elemento fondamentale, anche per lo storytelling del concept, le vocals potenti e laceranti (come nel brano “XIII”) di David Podestà, fondatore del gruppo assieme al guitar-man Omar Bosis. Dopo essere passati per oscuri anfratti e scabrosi pensieri, arriviamo in conclusione, dove ci aspettano sette abbondanti minuti con la sparata hard-rock “It”, brano solido, dal titolo già decisamente evocativo in ambito di demoni e terrori. La struttura è decisamente articolata rispetto agli altri brani, ma pur sempre coesa, traduzione di un ottimo lavoro a livello compositivo e di arrangiamenti del trio milanese (oggi quartetto con l’ufficializzazione dell’ingresso del nuovo bassista). Da segnalare anche la presenza su quest’ultima traccia di un ospite d’eccezione: Luca Princiotta (Doro Pesch, Blaze Bayley) come chitarra solista. Diretto e deciso, ma molto più profondo del previsto nelle tematiche, questo concept-album è sicuramente un’eccellente prova da parte dell’ensemble milanese, che prima di 'The Illusionist' aveva pubblicato un EP omonimo, 'The Worst Horse'. Negli ultimi anni la frequente attività live deve aver temprato le corde di questi ragazzi dal grande potenziale, che ci regalano un’altra piccola chicca da inserire nell’ampio panorama dello stoner-rock nostrano, arricchito però da quell’anima groove ed aggressiva che li contraddistingue. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Karma Conspiracy Records - 2019)
Voto: 82

https://theworsthorse.bandcamp.com/album/the-illusionist

Kamala – Your Sugar

#PER CHI AMA: Psych Rock/Jazz
È un tocco di sana vena artistica quello che supporta la creatività di questa band tedesca, una verve che da tempo non sentivo, forse dai tempi dei super album di Paul Weller oppure degli Aztec Camera, album incantevoli come lo è 'Your Sugar', raffinato, ricercato e colorato. Non mi trovo d'accordo con la dicitura esposta sull'adesivo di copertina che etichetta il quintetto di Lipsia come "the new way of jazz & krautrock", cosa che a mio avviso svia la vera identità della band, ovvero, personalità jazz molto classica in salsa pop, innesti di soul e R'n B e una propensione psichedelica ed easy listening di classe, ottimi musicisti ma di krautrock neanche l'ombra. Questo non è un male visto che la band si contraddistingue per un sound vivace e frizzante, con un cantato intenso e caldo, chitarre avvolgenti che a volte sfiorano certa pop/wave degli anni '80, (il ricordo vola verso Johnny Marr) un paragone di dovere è anche l'accostamento a band di culto dell'acid jazz negli anni '90/2000 come potevano essere gli splendidi Corduroy, con la sofisticata raffinatezza e nobiltà stilistica degli album degli Style Council, mischiata al suono morbido e ultra dilatato dei Kikagaku Moyo (vedi l'album 'Masana Temples') anche se, in termini allucinogeni, molto meno spinti ma comunque capaci di tener sempre aperta la porta verso l'approccio psichedelico. Musicisti di ottima qualità che offrono composizioni aperte e solari ("Chronic Burden" è un gioiellino), dal taglio sonoro molto inglese, un'opera completa e fantasiosa, un percorso che nella sua mezz'ora abbondante di musica ci fa riscoprire il gusto per certe forme di jazz morbide e suadenti, a volte più sbarazzine e pop rock oriented, mai banali o lasciate al caso, a volte più intensamente elaborate ed intriganti. Tutti i sette brani dell'album sono di ottima fattura e nessuno sfigura all'interno della compilation (uscita per Tonzonen Records), mostrando una produzione più che eccellente con una profondità, una definizione e pulizia di suono degni di nota e assai appetibili per chi apprezza veramente la registrazione del suono reale che in più di un momento rispolvera il sound del buon vecchio, classicissimo, caldissimo disco in vinile di alcuni capolavori del jazz internazionale. Il disco, che crea una frattura ed al contempo un'evoluzione con i lavori precedenti della band, è contagioso, di qualità, fatto apposta per chi ama la musica di scoperta e multicolore. (Bob Stoner)

(Tonzonen Records - 2019)
Voto: 78

https://kamalapsych.bandcamp.com/album/your-sugar

Gabriel Lemaire, Matthieu Prual, D'Incise, Toma Gouband, Mathias Delplanque - Sans Titre #1

#PER CHI AMA: Experimental/Alternative
Due lunghi brani (assolutamente senza titolo) nati da una performance musicale live di tre ore al museo d'arte di Nantes, costituiscono il contenuto sonoro di questo cofanetto creato sotto la buona stella della sperimentazione ambientale rigorosamente suonata con l'aggiunta di live sampling e processori. Vi troviamo cinque musicisti tutto d'un pezzo, Gabriel Lemaire, sax alto e baritono, Matthieu Prual (la mente del progetto), sax alto e clarinetto, D'Incise, Orla keyboards, objects, electronics, Toma Gouband, batteria, percussioni, singing stones e Mathias Delplanque, live sampling e audio processing. Abili suonatori che sfidano le teorie della composizione rompendo gli schemi, creando arie statiche con piccole divagazioni sul tema, ritmi percussivi mai invadenti ma molto disturbanti a livello emotivo, aiutati nel loro intento da una tensione sempre presente, nulla di oscuro o violento ma una pressione continua sul tasto dell'emotività che spinge lentamente l'ascoltatore ad una crisi di nervi. Per 35 minuti filati, ci si intossica di visioni astratte dal ritmo lento, a volte ossessive, a volte sospese, a volte surreali, oblique, decise nel descrivere un certo disagio con profondità e realistica intensità. Non è un disco di facile ascolto, non è immediato, possiamo considerarlo una colonna sonora ben fatta con una produzione seria e una registrazione dal vivo di alta qualità. Un tipo di ambient ostica, dura e rarefatta che ha bisogno di essere compresa e considerata nella completezza dell'opera con più ascolti. Rumori e umori che si fondono per creare un paesaggio irrequieto, tesissimo. Dietro questi suoni (il disco è uscito per la francese Ormo Records) ci sono musicisti istruiti, che sanno creare e si sente. Non si arriva a questo tipo di ambient rumoristica senza attraversare i campi infiniti della musica classica e il jazz d'avanguardia o la sperimentazione tout court. Un buon estratto per ricercatori di musiche surreali, ipnotiche e sperimentali di lusso. Musica per fluttuare in un mare di pensieri pesanti e neri come la pece. (Bob Stoner)

mercoledì 24 aprile 2019

Il Re Tarantola - Scopri come ha fatto Il Re Tarantola a fare 50000 Euro in una settimana

#PER CHI AMA: Indie/Alternative
Un argomento dettagliatamente eviscerato nella sterminata letteratura musicale pop-punk italiana degli ultimi trent'anni (cfr. Senzabenza, Voina, Four Flying Dick et tantissimi al.): la fenomenologia comportamentale intergenerazionale della sfiga, ("Boero", "Agguati") anche sentimentale ("La Maglietta di Joe Cocker"), perché, amici, nella vita quello che conta ("Sono un Campione a Ballare da Seduto") alla fine è soltanto fanculo riderci sopra (nella copertina il re Tarantola taglia la strada a un gatto nero seduto alla guida della propria auto). Ma anche dada/msoniane epopee turistiche intergalattiche ("Suono per Pagarmi le Multe che Prendo Quando Vado in Giro a Suonare" - sì, è il titolo della canzone), metodi alternativi di fisioterapia applicata ("La Nostra Evoluzione Artistica Deriva Solo dalle Sigarette") e, vedi tu, un'arguta riflessione sulla incolmabile distanza interposta tra noi e certi portaceneri ("Mi Odio"). La vivace, a tratti irresistibile ironia esistenzial/social/scatologica del peloso monarca a otto zampe (a.k. anagraficamente Manuel Bonzi) pesca davvero ovunque, con una predilezione per certi paradossali ribaltamenti di sensibilità freak/antoniana, evidente per esempio nel singolo "Sono un Campione a Ballare da Seduto" ("A guardarmi così non mi dareste una lira / ma se mi conosceste un po' probabilmente dovrei pure pagarvi"). I suoni, a volte un po' artigianali, ("La Maglietta di Joe Cocker") attingono con disinvoltura anche a Blink 182, Green Day, Tre Allegri Ragazzi Morti ecc. ecc. (Alberto Calorosi)

Trevor and the Wolves - Road to Nowhere

#PER CHI AMA: Hard Rock, AC/DC
Nel primo album solista pubblicato dalla catarrosissima voce solista dei genovesi Sadist, rileverete fin da subito un'attitudine elettivamente e ostentatamente wild, pronta a riflettersi innanzitutto nella copertina, qualcosa a metà tra il vicino scorbutico di Dinamite Bla e un Rufus Ruffcut post Wacky Race e, subito dopo, nella ruvidità lignea e immediata dei suoni (chitarra, batteria, riuscite forse a non battere il piede per terra? Sì? Sul serio?) in modi non dissimili da cert'altri celeberrimi boscaioli a corrente alternata/diretta e provenienti dai famigerati antipodi. Riff asciutti, batteria metronomica: l'AB/CD del sound AC/DC omaggiato nella iniziale "From Hell to Heaven Ice" si propaga in realtà per tutto l'album, soltanto saltuariamente (e timidamente) virante verso sensazioni vagamente spacy (il blue-oyster chitarrismo percepibile in "Burn at Sunshine"), o NWOBHorrorM (una fuggevole capatina nel confortevole death metal sound della casa, è gentilmente offerto in "Bath Number 666"), oppure "motörheadeliche" (in "Wings of Fire" e "Lake Sleeping Dragon" ad esempio) o infine hardfolk/ancorapiùhardblues (nel violino scorticato di "Red Beer" o nella kilmister-sadness-blues "Roadside Motel"). Devozione, professionalità e un songwriting indubitabilmente ebanistico. (Alberto Calorosi)

(Nadir Music - 2018)
Voto: 65

https://www.facebook.com/brutaltrevor%20/

The Shadow Lizzards - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Groove Rock, Led Zeppelin
Un chitarrismo apertamente 1969/hendrixiano ("Power On" e tante al.) o jimmypage/esco ("Overhaul" e le restanti al.), a tratti eminentemente strumentale (cfr. la lunga coda psych di "Breathtaker", le divagazioni bluesy stile Gov't Mule di "Sea of Curls" e "Go Down"), una voce (non sufficientemente) rauca d'ordinanza, una batteria non sempre mixata a dovere ("Rip Me Off"), qualche timida testardaggine stoner (la paranoid-sabbatiana e successivamente iper-spacey "Warzone") e, splat, giù tonnellate di quella specie di gelatina hammond ("Go Down", "Power", "Rarity" e tutte le al.) color profondo purple utilizzata da qualche anno a questa parte dagli ingegneri del sound più astuti come principio attivo antichizzante: il frondosissimo album d'esordio delle Luccertole (sic) ombreggiate di Norimberga si colloca con monolitica intenzionalità nella prima periferia del popolosissimo empireo zeppelin-centrico, notoriamente pullulante di reggiseni sventolanti e ipertricotici beati in stato sempiterna rock-fattanza, ad osare là dove osano (si fa per dire) autori del calibro di Mountain ("Top of the Mountain", ovviamente), "Rival Sons" e soprattutto "Graveyard". Una manna sonora alla psilocibina per il vostro unico, rugginoso ganglio uditivo rimasto. (Alberto Calorosi)

(Tonzonen Records - 2018)
Voto: 75

https://theshadowlizzards.bandcamp.com/

Ritchie Blackmore's Rainbow - Memories in Rock II

#PER CHI AMA: Hard/Heavy, RJ Dio
Volonterosamente determinato a riempirvi gli scaffali e al contempo vuotarvi le tasche con quella nota logica di marketing cara alla politica italiana denominata annusa-le-mie-scorregge-puzzolenti, il Becchino Permamentato formerly-known-as-guitarist, sbatte fuori il terzo live-fotocopia in meno di due anni. Duemila16: 'Memories in Rock', di cui avrete senz'altro ammirato la copertina raffinata grosso modo come un bootleg filippino degli anni novanta. Duemila17: 'Live in Birmingham 2016', in cui avrete indubbiamente gradito la scaletta clonata (fuori "16th Century Greensleeves", dentro "Burn" e "Soldier of Fortune") come una pecora cinese canterina. Duemila18: 'Memories in Rock II', di cui avrete sicuramente apprezzato la clonazione al quadrato, nella copertina, uguale nientemeno che a 'Rainbow Rising', e nella scaletta (dentro tutti i summenzionati, più "All Night Long", "Temple of the King" e crepi l'avarizia, pure un fottuto inedito). Già, l'inedito. Il primo da ventitré anni a questa parte. Si parla di almeno diecimila metallari nel mondo ricoverati per complicazioni cardiache. Quasi la metà sarebbero reggiani. Un franoso mezzotempo 101% AOR aperto da un truffaldino (ma decente) riff Dio-era e nevrilmente percorso dai consueti clichet chitarristici di Mr. Becchino P. che potrebbe stare giusto sul lato B di 'Bent Out of Shape' o nelle bonus track di una qualunque release della Frontiers. Oppure qui. Si intitola "Waiting for a Sign". Un titolo, se ci pensate, straordinariamente comico. (Alberto Calorosi)

(Minstrel Hall Music - 2018)
Voto: 45

http://www.ritchieblackmore.info/

Swans - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Punk/No Wave
Già nell'EP d'esordio, i suoni vi risulteranno circolari come tangenziali cittadine e ossessivi come bollette, ciò che forgia a fuoco, è arcinoto, l'intera discografia della band, oltreché la vostra pazienza. Le dissonanze siderurgiche generate dalla chitarra sconquassata di Bob Pezzola, quando non intersecano scelleratamente il sax lancinante, ma soprattutto lancinato, di Daniel Galli-Duanis, individuano quella traiettoria urgentemente e furiosamente percorsa nei dischi successivi e, al contempo, una ancora identificabile prossimità con certi scenari coevi etichettati fantasiosamente almeno quanto certi copricapi floreali britannici del periodo. Post-punk, noise-rock, no wave. Joy Division, Bauhaus, Birthday Party ("Take Advantage"), persino i Talking Heads di 'Fear of Music' ("Sensitive Skin"). Il songwriting di Michael Gira è scorticante, sì, ma solo se contestualizzato, altrimenti vi risulterà comicamente orwelliano e un cicinino acerbo. “Play with a pig, and you become a pig / play in the mud, and you sink in the mud / fall in a hole, and you stay in a hole / you'll be there to look at”, "Take Advantage". Niente da obiettare. Ma tutto qua? (Alberto Calorosi)

Julie's Haircut - The Wildlife Variations

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Psych/Kraut-rock
Un motorik insistentemente cosmico (scuola krautrock, Faust, Neu!) che sfreccia supersonico attraverso scintillanti nebulose costituite da dietilamide di acido lisergico. "Dark Leopards of the Moon". Una bucolica ballata sydbarrettiana autodissolventesi, arricchita di elettronica analogica, come potrebbe escogitarla un Beck Campbell di ritorno da un concerto dei Notwist. "Johannes". Tinte notturne e incombenti (Tindersticks, Chris Isaak, Apollo 440), una specie di trip-hop inverno-solstiziale. "Bonfire". Un calypso automatico eppure evolutivo, un elementare giro di basso e percussioni, e poi altro ancora. Forse un matrimonio chimico di suoni. "The Marriage of Sun and the Moon". Le quattro composizioni dell'EP 'The Wildlife Variations' risultano ancora una volta ecletticamente aromatiche ma per questo non meno intriganti, in totale continuità con la rivoluzione psych-prog già intrapresa con 'After Dark, My Sweet" nel 2006 e ultimata nel 2009 col magniloquente 'Our Secret Ceremony'. A centro pure stavolta, in estrema sintesi. (Alberto Calorosi)

(Woodworm/Trovarobato - 2012)
Voto: 78

http://www.julieshaircut.com/

Blackfield - Blackfield IV

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Prog Rock
Si porta malauguratamente a compimento il processo di de-Stefanerd-izzazione (di questo 'B-IV', S-W non firma nessuna canzone, né la produzione) e, parallelamente, si schiudono ancora un po' gli orizzonti musicali di questo 'Blackfield IV'. Sentite per esempio, con alternate fortune, le blande dissonanze liofilizzate che chiudono la più che discreta "Pills", oppure gli inopportuni campanelli natalizi di "X-ray" o, nelle melodie, una maggiore attenzione early-psych-beatlesiana ("Kissed by the Devil" e "Firefly"). Oppure ascoltate la giuliva crapuloneria pseudo-celtica della terribile ma divertente "Sense of Insanity", con uno svogliato S-W alla seconda voce, contemporaneamente riflettendo sul fatto che utilizzare Steven Wilson come seconda voce è un po' come usare Pelé come raccatapalle, oppure Glen Hughes come bassista. L'elemento di maggiore freschezza e novità sarebbe rappresentato dalle importanti ospitate (in "X-Ray" Vincent Cavanaugh degli Anathema, vi ricorderà un Paul Carrack disidratato in "The Sky With Diamonds"; in "The Only Fool is Me" – ma, accidenti, perché non in "Kissed by the Devil" – Jonathan Donahue dei Mercury Rev, vi sembrerà l'ex-giardiniere di John Lennon eccezionalmente di buonumore in una rara giornata di sole londinese; in "Firefly", Brett Anderson dei Suede, vi farà venire alla mente un attempato Gene Pitney che canta "Something's Gotten Hold of My Nose" alla prese con una insidiosa caccola recalcitrante) se soltanto fossero state integrate un po' più convintamente nella scialba (e cortissima) scaletta di questo quarto decadente album. (Alberto Calorosi)

(Kscope - 2013)
Voto: 58

https://www.blackfield.org/

martedì 23 aprile 2019

The Pit Tips

Francesco Scarci

Shokran - Ethereal
Suldusk - Lunar Falls
In the Woods - Cease the Day

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Matteo Baldi

Julinko - Nektar
LEDA - Memorie dal Futuro
Black/Lava - Lady Genocide

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Alain González Artola

Mesarthim - Ghost Condensate
Schattenfall - Melancholie des Seins
None - Damp Chill of Life

Chalice of Suffering - Lost Eternally

#FOR FANS OF: Funeral Death Doom
Chalice of Suffering is a band coming from Minnesota, USA. The ensemble is certainly new as it was created in 2015 maintaining a quite stable line-up consisting of six different musicians. The only change was the departure of Robert Pollard in 2018. Almost all the members have a rich experience in other current or past projects, especially the guitarists Will Maravelas and Nikolay Velev, who play or have played in more than different 10 bands. Taking into account this, it’s not a surprise that the band managed to release its debut only one year after its foundation. The first release was called 'For You I Die', whose eye catching album cover was indicative of the subgenre the band was playing. Chalice of Suffering navigates between the thin borders of funeral doom and atmospheric doom/death metal. Though generally speaking, the pace is influenced by the former style, the music includes some aspects which inevitably remind some atmospheric doom/death metal bands.

Three years after the releasing of the debut, these guys come back with their sophomore work entitled 'Lost Eternally'. Although the album artwork could led us think that the band has gone to a more atmospheric black metal style, the core sound of Chalice of Suffering is still dominant. In fact, the band continues to mix the aforementioned styles, though the funeral doom influences are undeniably strong. Once again the songs are quite long, reaching in the whole album a full hour of duration. 'Lost Eternally' has 7 different pieces whose style is strongly atmospheric, something which I really appreciate in bands with such a slow pace. I wouldn’t say that keys play a main role, though their presence is noticeable and important through the whole record, being a nice example the third track “Forever Winter”, which has an evocating atmosphere. Vocally, the band tries to escape from the monotone vocals as the use of clean and narrated vocals add a welcoming variety. The narrated and whispered vocals, when they are used correctly, add a dramatic touch and the idea of an ongoing history. As it happens with the keys, the third track is able to show also how the band successfully used this resource, creating a typically doom metal song, but with some interesting characteristics and a healthy variety. The guitars are quite good, being as heavy as expected and playing with a very slow tempo. Thankfully, and though they have in many moments the characteristic monorithmic tone, they retain a melodic touch which enhances the cold yet dramatic atmosphere of the band´s compositions. In songs like the title track, the guitars play a major role accompanied by melancholic and sorrowful keys. This song is a fine example of how Chalice of Suffering is a purely funeral doom metal band, but still adding a slightly more melodic tone. Probably, the most intense track is “Miss me, But Let Me Go”, which includes some double bass sections and very interesting tempo changes, which make this song stylistically one of the most different and captivating of this album. The band has some Celtic influences considering that a band member who plays bagpipes. Strange enough, I can only recall the use of this instrument in the opening track “In The Mist of Once Was”, which I must say it’s my favourite track, thanks to the initial hypnotic and mysterious atmospheric introduction and the inclusion of the bagpipes themselves. This instrument fits surprisingly well with this genre, reminding me the positive debut of Downfall of Nur.

If I had to complain about this album, this would be the issue. The bagpipes should be used more frequently as they would give a higher touch of originality to the music by Chalice of Suffering. Apart from that, 'Lost Eternally' looks a very competent album able to satisfy every single doom maniac out there. (Alain González Artola)