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sabato 8 marzo 2025

Shepherds of Cassini - In Thrall to Heresy

#PER CHI AMA: Prog/Psych/Post Metal
Avevo recensito i precedenti due album, rispettivamente nel 2013 e 2015, e li intervistai nello stesso 2015. Poi, un silenzio durato ben 10 anni. E ora, dal cuore pulsante di Auckland, gli Shepherds of Cassini (SoC) riemergono con 'In Thrall to Heresy', terzo capitolo della loro personale saga. Ma questo non è un semplice ritorno, è una metamorfosi, un’opera che spinge il progressive metal in territori inesplorati, intrecciando complessità tecnica, psichedelia turbinante e un’architettura musicale che sfida le convenzioni. Qui, il quartetto neozelandese dimostra come il prog non sia solo un genere, ma un’etica, un viaggio attraverso otto brani che rifiutano la stasi per abbracciare l’evoluzione. Il disco si apre con "Usurper", un'epopea sonora che ridefinisce i limiti del progressive, grazie a giochi in chiaroscuro affidati a un elegante arpeggio di chitarra che andrà successivamente a fondersi con un basso maestoso e con la voce (che faccio tuttavia ancora fatica a digerire, nella veste clean) di Brendan Zwaan. Il flavour sonico ci riporta immediatamente ai Porcupine Tree, ma presto il tutto sarà travolto dal violino elettrico di Felix Lun, con un suono che stride come un oscuro presagio. La struttura del pezzo diventa ben presto un labirinto, tra esplosioni prog e rallentamenti di "opeth-iana" memoria, in bilico in un continuo stato tensivo. Ora ricordo perché li ho adorati nei precedenti lavori. Forse preferivo quando i vocalizzi valicavano il growl e il suono era più orientato al post metal, ma anche in questa nuova veste, è chiaro che i nostri abbiano parecchio da dire, tra assoli di violino (alla Ne Obliviscaris) ed escursioni nel prog rock. Tempo di un intermezzo spaziale e siamo a "Slough", un altro brano dall'intelaiatura sonica tipicamente prog, tra cambi di tempo, atmosfere mutevoli, un groove di basso in sottofondo che ribolle come lo stufato in una pentola a pressione, graffi di chitarra che agitano melodie cerebrali - scuola King Crimson - e furiosi crescendo esplosivi, coadiuvati qui anche da un cantato estremo. Difficile ipotizzare cosa aspettarsi in tutto questo marasma, se dopo le derive estreme, si sfocia in momenti di calma ipnotica che disorientano non poco. Ma questo è il bello degli SoC. "Vestibule" è una lunga (un filo troppo) intersezione di cosmic psych rock che fa da passaggio verso l'ignoto che si materializza con la successiva "Red Veil". Qui, un sincopato riffone di chitarra guida la sghemba melodia, a braccetto con il growling di Brendan, in un brano che potrebbe evocare un che dei Tool, in un pezzo comunque ostico, contorto, furioso, una continua danza tra imprevedibili punteggiature arpeggiate e roboanti partiture ritmiche, in un precario equilibrio tra melodia e prog sperimentale in un continuo crescendo dinamitardo. "Mutineers" è un altro sinistro bridge strumentale affidato a chitarra, violino e tastiere dissonanti, una distopica dilatazione del tempo che ci accompagna ad "Abyss". Qui, realmente si sprofonda in un abisso temporale di oltre 16 minuti che vede il brano spalancarsi con un basso ipnotico, preludio della fine del mondo. Effetti vocali filtrati, percussioni tribali, suoni di synth in sottofondo e la trasfigurazione di nuovi mondi in musica, narrati dalle efficaci clean vocals di Brendan, sono tutto quello di cui avete bisogno. Il brano evolve in una matrice sonora contrastata, da brezze eteree a sezioni più pesanti che si sciolgono in interludi post rock guidati dal violino imbizzarrito di Lun, in grado di guidare l'ascoltatore attraverso un'oscurità densa e affascinante (ascoltatevi gli ultimi due minuti della song e capirete cosa intendo), in un viaggio complesso e avvincente. In chiusura, un pianoforte introduce "Threnody" e la sua melodia fiabesca che chiude un disco pronto a lasciare il segno. (Francesco Scarci)
 

giovedì 6 marzo 2025

Voidwards - Bagulnik

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Drone
Due sole lunghe tracce per un disco estremo ancorato in uno stallo stilistico che vede le sue salde basi a metà strada tra il doom più funereo e il drone ambient più sinistro. La cosa che colpisce di più, è che per capire al meglio lo spirito che anima quest'opera, bisogna conoscere la vera storia che ha ispirato queste due composizioni, che possono essere intese come parte di un concept album a tutti gli effetti. Siamo nel 1900, quando la popolazione di un paese nel nord della Russia è investita e tormentata da un'onda anomala di depressione, insonnia, morte e paure, una psicosi generale, fatta di allucinazioni, che si verrà a scoprire solo in seguito, provocate dalle neurotossine dei fiori di una pianta che cresce nella zona. Il ritrovamento di un diario da parte del vocalist Lejonis (voce, chitarra, violoncello), scritto da un'insegnante del luogo, fa conoscere al mondo questa storia oscura e offre al duo russo lo spunto necessario per dare vita a questa colonna sonora da incubo, intitolata 'Bagulnik', ovvero il nome del fiore incriminato, che in latino è chiamato Ledum palustre. Bella la grafica di copertina che supporta al meglio questo viaggio verso un paesaggio da incubo, desolato, colmo di disperazione. La sua atmosfera asfissiante e il suo passo funebre, si sposano perfettamente con la descrizione del booklet interno, permettendo un ascolto ancor più motivato e approfondito, poiché non conoscere l'origine da cui provengono queste sonorità, potrebbe non far comprendere la bellezza reale di questo album, e farci perdere la possibilità di immergersi in una natura così malvagia, violenta, oscura e devastante. Possiamo definirla una lunga colonna sonora che si srotola a passo lento con percussioni distanti e un sound grave, asfissiante, misterioso e lugubre, una voce gutturale che narra, ansimando nella lontananza, aumentando il collasso nervoso e l'allucinazione per l'ascoltatore, ma la cosa che rende il disco ancor più apprezzabile è che veramente sembra di essere di fronte a un film cupo, misterioso, inquietante e carico di tensione. Non è facile accostarlo a qualche altro titolo di questo genere musicale, quindi il mio consiglio è di leggere attentamente il booklet, chiudere gli occhi e gustarsi questo viaggio sonoro in tutta la sua raggelante bellezza. (Bob Stoner)

mercoledì 5 marzo 2025

Peacemaker - Internal Revolution

#PER CHI AMA: Thrashcore
Mi mancava ascoltare un po' di musica "marciona" e direi che 'Internal Revolution', secondo atto dei polacchi Peacemaker, incarna al meglio questa mia definizione. Questo disco è una dichiarazione di guerra alle schifezze commerciali che ammorbano l’aria, un pugno in faccia tirato da cinque tizi di Rawicz che non scherzano di certo. Nove pezzi, di cui gli ultimi tre pescati dritti dall’EP 'Words of My Life' del 2017, ti sbattono contro un muro di suono puro e semplice, a partire da "(We Come) From Nowhere". Qui i riff ti aggrediscono come un pitbull scappato dalla catena, con quel sapore thrashcore dei primi ’90 che urla Suicidal Tendencies nei cori e ti fa pensare ai nostri IN.SI.DIA che spaccavano tutto ai tempi d’oro. È roba che ti entra nelle ossa e non ti molla più. Il virus si diffonde veloce: "Stay Human" rallenta un filo, ma ti colpisce con una pesantezza che sa di Machine Head, anche se non siamo ancora al livello dei titani di Oakland. Eppure, se sei uno che vive per le chitarre che tagliano come rasoi e i ritmi che ti fanno sbattere la testa contro il muro, qui c’è pane per i tuoi denti. "Infected Mind" ti spara in faccia un’apertura che sembra un martello pneumatico, con cambi di tempo che tengono alta l’adrenalina e un finale dove la batteria pesta come se volesse sfondare il pavimento – roba da far tremare i vetri! La voce? È un casino strozzato, un mix tra un growl che non decolla e un pulito che inciampa, ma cazzo, funziona alla perfezione col sound corrosivo di questi cinque selvaggi. Il copione è quello classico del thrash ’90: "Today Is the Day" e la title track non inventano niente, ma ti trascinano in un vortice di riff compatti e ritmi che non accelerano mai fino a velocità folli, preferendo affogarti in una melma sludge che puzza di marcio. Poi arrivano i pezzi ripescati dall’EP – "The Rat Race Has Started" è un’esplosione breve e feroce, "99 Thousand of Lies" ti pesta con quel groove distorto che strizza l’occhio ai Pantera. 'Internal Revolution' non è un disco che rivoluziona il mondo, ma è un blocco di granito, genuino e incazzato, con le radici piantate dritte nei gloriosi anni ’90. Se sei uno di quelli che rimpiange i giorni in cui il thrash si suonava con le budella e non con i computer, questo album ti farà pogare fino a spaccarti il collo! (Francesco Scarci)

martedì 4 marzo 2025

Deus Sabaoth - Cycle of Death

#PER CHI AMA: Symph Black/Doom
Dal gelo infernale dell’Ucraina, emergono i Deus Sabaoth con 'Cycle of Death', un debutto che lacera il silenzio sotto il vessillo indipendente di un’auto-produzione. Sette tracce che si accodano a un black melodico, in un’ode alla desolazione che non si limita a urlare nel vuoto, ma lo veste di armonie strazianti e sinfoniche. Qui non troverete il caos primordiale tipico del black nudo e crudo: qui la melodia è un’arma, affilata e intrisa di un dolore che si riflette nelle steppe desolate e nel peso di un’esistenza vana. Forgiato in un paese spezzato dalla guerra, il disco respira un’atmosfera di resilienza e malinconia, un rituale che rifiuta la luce per abbracciare l’eterno crepuscolo. Il disco si apre con "The Priest", il cui gelido rifferama s'intreccia a un cantato gutturale che sembra sputare veleno sugli altari corrotti di quel prete menzionato nel titolo del brano. La melodia, di chiara ispirazione classica, si srotola come un lamento funebre, mentre la batteria martella con furia controllata. "Mercenary Seer" apre con un arpeggio ben calibrato, ma è solo un inganno, visto che il brano esploderà in un vortice di riff taglienti e ritmi serrati che richiamano un che dei Cradle of Filth, complice l'evocativo black melodico che si fa traino come un’àncora in un mare in tempesta. L'alternanza vocale tra scream/growl e salmodianti voci pulite, fa il suo dovere mentre le chitarre si rincorrono come gazzella e leone nella savana. Ancora un arpeggio ad aprire elegantemente la title track, contraddistinta da uno stile barocco presto travolto da chitarre possenti e un growl davvero lacerante, che andranno a intrecciarsi a orchestrazioni intriganti ma forse ancora un filo da affinare e ripulire a livello di suoni. Però il brano ha il suo fascino, e si lascia facilmente ascoltare assimilandosi a una versione death dei CoF, ma alla fine lascia il segno, prima dell'arrivo inesorabile di "Executioner". Qui, ritmi doom sembrano imperversare nelle note del trio ucraino, creando un'atmosfera di condanna in un pezzo in cui la melodia, guida come una lama che affonda piano le carni. Ancora musica classica in apertura - un po' sullo stile degli austriaci Angizia - con il turno della più densa "The Blind", un altro pezzo che fondamentalmente, si accoda alle precedenti song, pur abbracciando uno stile più lento e compassato, che vedremo riproposto anche nella successiva "Faceless Warrior". Forse è proprio in questa leggera staticità di fondo, in tema di variazioni al tema, che rischiamo di trovare il punto di debolezza dell'album, che ha ancora nella conclusiva "Beginning of New War", l'ultima arma a disposizione. Qui, riff glaciali e blast beat irrompono veementi, mettondosi a braccetto con la melodia che mostra comunque un ruolo cardine nell'economia di un brano feroce eppure elegante. Alla fine 'Cycle of Death', pur non inventando nulla di nuovo, mostra le più che discrete capacità compositive del terzetto ucraino. Certo, c'è ancora da affinare la tecnica, migliorare la pulizia del suono, ma diciamo, che la strada imboccata, sembra quella giusta. (Francesco Scarci)

Hell:On - Shaman

#PER CHI AMA: Thrash/Death
Quando il vento gelido delle steppe ucraine si mescola al clangore di un death brutale e primordiale, ecco nascere 'Shaman', settimo sigillo degli Hell:On. Avevo amato il precedente 'Scythian Stamm' e quindi, le mie aspettative per questo nuovo lavoro, devo ammettere fossero piuttosto elevate. Questa nuova fatica del quintetto di Zaporizhia si presenta come un rituale sonoro, un viaggio nelle tenebre che ci ricorda che la musica non è solo una forma d'arte, ma un modo per esplorare i recessi più profondi dell'anima. L'apertura dell'album, "What Steppes Dream About", è un pezzo che evoca immagini di antichi rituali tribali, sostenuta da un riff di chitarra che s'insinua come un serpente venefico. Il growl del frontman solca l'aria, trasmettendo un senso di invocazione, come se stesse chiamando a raccolta le forze oscure dei nostri antenati, mentre le chitarre di Hellion e Anton, costruiscono un muro di suono che crolla in un assalto death metal. "When the Wild Wind and the Soul of Fire Meet" è la classica quiete prima della tempesta: in principio, solo flebili suoni poi sostituiti da riff travolgenti e una batteria martellante che si fondono in un crescendo implacabile, atto a creare un muro sonoro che travolge l'ascoltatore, in un finale sincopato che mi ha evocato i primissimi Septic Flesh. Ma è forse con "Tearing Winds of Innerself", che la tempesta interiore prende forma in un assalto di blast beat e killer riff, un tornado sonoro che squarcia ogni difesa, anche laddove persistono le porzioni tribali, ma che prende il sopravvento quando i nostri ci lasciano cadere in un ubriacante maelstrom sonoro e ci avvolgono in un epico assolo conclusivo che lascia un’atmosfera incandescente. Si prosegue con il misticismo sciamanico di "Preparation for the Ritual", che va a fondersi con una brutalità sonora, creando un incantesimo che non lascia scampo, in una sorta di versione death metal dei Melechesh. Con "He with the Horse’s Head", il galoppo ritmico è un’eco di zoccoli su una pianura arida, mentre le chitarre intrecciano melodie mediorientali a un death metal possente, e in cui va sottolineata, ancora una volta, la performance solistica delle due asce e il dualismo vocale di Olexandr Bayev, abile a muoversi tra growl e vocals strozzate in gola. La caduta si approfondisce in "A New Down". Riff spezzati si uniscono a un ritmo forsennato, in una furente cavalcata che mi ha ricordato i Sepultura di 'Arise' uniti ai Death di 'Human', mentre un assolo vertiginoso squarcia la matrice sonora nella seconda metà del brano. Il drumming è un ruggito continuo, un tuono che non si ferma davanti a nulla, anche nella successiva "I Am the Path". Qui, la batteria di Leshiy colpisce con precisione brutale, alternando raffiche a pause cariche di un silenzio inquietante, mentre le chitarre s'intrecciano in armonie oscure e taglienti, e la voce ruggisce come un oracolo posseduto. A chiudere il disco, ecco la title track, un pezzo che apre con roboanti ritmiche scuola Morbid Angel, per poi cedere il passo a un’atmosfera doomeggiante, che è un misto tra misticismo e nichilismo. Alla fine, 'Shaman' non raggiungereà i livelli eccelsi del suo predecessore ma comunque si dimostra come un album solido, un rito, un cerchio di fiamme e teschi che chiama a sé gli spiriti di un tempo, di un’Ucraina ferita che respira guerra e sopravvivenza. (Francesco Scarci)

(Archivist Records Ukraine - 2025)
Voto: 80

https://hellonband.bandcamp.com/album/shaman

lunedì 3 marzo 2025

Aquilus - Bellum II

#PER CHI AMA: Atmospheric Black Metal
Gli australiani Aquilus emergono come un’ombra misconosciuta nel vasto abisso del panorama estremo. Il loro primo vagito, 'Griseus', mi aveva avvinto nel 2011, un lamento primordiale che mi aveva rapito l’anima, per poi svanire in un silenzio tombale durato un decennio, un vuoto che mi aveva indotto a considerarli perduti nelle tenebre. Dieci anni di muta oscurità, spezzati solo dall’eco lontana di 'Bellum I' nel 2021, e poi, come un fulmine che squarcia un cielo catramoso, l’anno scorso è giunto, inatteso, 'Bellum II', secondo capitolo di una saga maledetta. La formula di questa one-man-band orchestrata dall’enigmatico Waldorf, si erge ancora come un monolito, un’opera titanica che intreccia il black metal atmosferico a spettrali influenze classiche, trascinando chi osa ascoltare in un viaggio sonoro che è al contempo epico e soffocante. L’album si spalanca con “By Tallow North”, un breve squarcio che non è solo un’introduzione, ma un’entità a sé, un portale che proietta immediatamente in un regno di maestà oscura ed eterea grandezza. Qui, riff taglienti come lame si fondono a melodie fragili come cristalli di ghiaccio, plasmando un paesaggio sonoro che geme sotto il peso di emozioni torbide. Ma è con “Into the Earth” che si precipita nel cuore del disco: ogni traccia si dipana come una piccola epopea, un intrico di dettagli sonori e mutamenti repentini che incatenano l’ascoltatore in una morsa implacabile. Siamo nei territori del black atmosferico, eppure chiamarlo così appare un insulto, una semplificazione che non rende giustizia alla complessità di questi passaggi strumentali, intricati come ragnatele di un’antica cripta, che tessono atmosfere cinematografiche e spettrali. È come assistere a un film muto e funereo, dove melodie struggenti, orchestrazioni sinistre e fughe vertiginose si intrecciano, tenute insieme solo dal filo rosso dello screaming lacerante del polistrumentista australiano, un urlo che sembra provenire da abissi insondabili. Le tracce più lunghe, come “Nigh to Her Gloam” – un colosso di quasi diciassette minuti –, si snodano come serpenti attraverso una serie di movimenti inquieti: raffiche di pura ferocia si alternano a pause di quiete ingannevole, dove arpeggi di chitarra dalle venature folkloriche, emergono come fantasmi di un passato dimenticato. È qui che si manifesta la genialità compositiva di Waldorf, un demiurgo che plasma il caos con mani insanguinate. E poi c’è “My Frost-Laden Vale”, un’altra suite di oltre diciassette minuti, un abisso in cui il mastermind di Melbourne, scatena una tempesta di visioni: dai primi sussurri atmosferici, che evocano una primavera morente, si scivola in sezioni più oscure, squarci cinematografici che si tingono di una dolcezza malinconica, quasi insopportabile, in contrasto con le sferzate più brutali dell’album. Il risultato è un’aberrazione gloriosa, un’opera che travalica i confini del genere, un’esperienza sonora che si insinua nella mente come un veleno, costringendo a contemplare il baratro e risvegliando emozioni che è meglio lasciare sopite. (Francesco Scarci)

(Northern Silence Productions - 2024)
Voto: 85

https://aquilus.bandcamp.com/album/bellum-ii

domenica 2 marzo 2025

The Halo Effect - March of the Unheard

#FOR FANS OF: Melo Death
I actually care about both releases from this Gothenburg project! However, the newest here I care for even more than their debut, 'Days of the Lost' (2022). The reasons are that the guitars explore even more diversity in the riffing & connectedness at the same time! It's not an oxymoron of a statement, it's actually exploring more creativity here, though both releases I've been really happy with. It's as of no surprise to me though, especially because Jesper when he was in In Flames & Niclas was in Gardenian that their riffs were always powerful & blatantly melodic! This LP is a blend of the melodic death found in more modern recordings by Dark Tranquillity, especially Mikael's switch constantly from screaming to clean, reminiscent of DT's 'Projector' (1999) release.

I got the 15 song digipack with 54+ minutes of music! I'm a little biased here though, as I've favored the Gothenburg scene since its origin, but I AM careful at the same time! I care about the music scene there. However, I favor the music & not so much of these metal band's lyrics. There's only a few modern metal bands where I actually like the lyrics on top of the music!

I would venture to say that these members have been rather busy since their project debut was released in 2022, this being quite an anticipated follow-up! I saw that there are many that are entirely disappointed listeners, just not on my part! I've found them to be entertaining & hugely emotional, I also enjoyed the keyboards augmenting the overall sound!

I hope that these guys continue on for a while longer & to my attention, they are also really good live! Not certain as to why fans are turning away and many referring to them as "has been" musicians. I don't think that at all & I feel the huge emotional vibe in the music/vocals & recording that made this impeccable to me! There really isn't anything I'd change here!

Melodic death refuses to die! Make this album one of your own because it's a testament to that statement! (Death8699)


sabato 1 marzo 2025

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