Cerca nel blog

venerdì 7 giugno 2019

Of Spire & Throne – Penance

#PER CHI AMA: Funeral Doom/Sludge, Esoteric
Gli Of Spire & Throne sono un nome probabilmente già noto agli appassionati del doom metal più tenebroso: attivi fin dal 2009, si sono rimboccati le maniche producendo una serie di demo, EP e split, guadagnandosi le attenzioni della Aesthetic Death, etichetta da sempre molto attenta alle novità dell’underground estremo, e con questa, nel 2015 hanno rilasciato il primo LP 'Sanctum In The Light'. Ora è il turno di 'Penance', nuovo imponente monolite sludge\doom che non devia di molto da ciò che ci è stato presentato in precedenza, semmai calca la mano portando la musica della band ad un nuovo livello di oppressione. Il terzetto scozzese qui danza tra la lentezza esasperante del funeral doom e i riff granitici propri dello sludge, mantenendo una sorta di sofferente equilibrio tra le due correnti acuendo la sensazione di precarietà e malessere: ogni mortifero drone sembra in procinto di ricomporsi in riff grondanti cattiveria, così come ogni struttura ritmica dà l’impressione di poter franare da un momento all’altro in caotiche destrutturazioni. La musica emerge dagli abissi nella strumentale “From Dust” e si spande come una torbida marea, tra i rallentamenti da capogiro di “Their Shadow Cast” e le devastazioni soniche di “Sorcerer”, celebrando così l’incontro tra il sound decadente dei loro “cuigini” Esoteric e i Sumac più nevrotici. Muoversi tra le sei tracce che compongono il disco, significa trascinarsi in una distesa desolata subendo ogni sorta di privazione, al punto che mai titolo fu più azzeccato: i freddi effetti di tastiera, i ruggiti del basso, i solenni riff di chitarra e le cadenze lisergiche della batteria, ci accompagnano come inquisitori, in questi 63 minuti di espiazione, mortificando con improvvisi scoppi di violenza l’ascoltatore inerme. Con queste coordinate è chiaro che non stiamo parlando di un album per tutte le stagioni e come chi non sia particolarmente attratto dalle esasperazioni del funeral-doom potrebbe patire una certa stanchezza, visto anche il minutaggio generoso dei brani. Tuttavia, le sfuriate più incattivite e vicine allo sludge e allo stoner, aiuteranno anche i profani a reggerne l’impatto fino alla fine. Inoltre, associare l’ascolto alla visione di uno di quei film horror dove i protagonisti non trovano alcuno scampo, o alla lettura del romanzo di Umberto Eco “Il Nome della Rosa”, dove nemmeno l’impegno e gli sforzi di Guglielmo e Adso, riescono ad evitare la catastrofe finale, potrebbe risultare un’esperienza impressionante. In 'Penance' l’unica luce che illumina il percorso è quella di fiamme rabbiose che covano sotto una coltre di cenere, ossia quella di una forza distruttiva e che non lascia scampo. La salvezza non è prevista, dunque, come ripeteva stolidamente Salvatore nel romanzo di Eco, “Penitenziagite!”. (Shadowsofthesun)

Rituals - Neoteric Commencements

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico, Necrophobic, At the Gates
E io che pensavo che la Sleeping Church Records si dedicasse quasi esclusivamente al doom/stoner, sono stato immediatamente smentito con l'avvento di questo EP degli australiani Rituals, che con un moniker del genere, sentirli dediti ad un death melodico è quasi una bestemmia. Comunque 'Neoteric Commencements' è un lavoro di quattro pezzi che ci riporta ai fasti del death melodico svedese di primi anni '90. E "Wake of a Dead God's Robe" ne è la prima dimostrazione con un riffing massiccio, contrappuntato da buone melodie e growling vocals che mi hanno fatto pensare a gente del calibro di Unanimated, gli Entombed più melodici nella loro primordiale veste estrema e Necrophobic. Forse con "Drown Amongst Serpents" si può cogliere un più vasto ventaglio di influenze, scomodando anche i primi In Flames e gli At the Gates, fatto sta che il quartetto di Melbourne ci sa sicuramente fare, pur non promuovendo nulla di nuovo all'orizzonte. E allora non ci resta che ascoltare in modo spensierato anche le restanti "Slaves to the Tyrants" e "The Eighth Door", dove nella manciata di minuti a disposizione, la band australiana propina una bella ritmica portentosa, delle growling vocals belle profonde e poco altro che faccia gridare realmente al miracolo. Nella prima delle due song ci ho sentito un che dei primissimi Amon Amarth, quelli più oscuri e decisamente meno epici, mentre la seconda è un altro discreto pezzo di death che non rimarrà certo negli annali della musica estrema ma che comunque si lascia ascoltare con una certa fluidità. Per ora, mi sento di dire che quello dei Rituals non è nulla di cosi memorabile, si auspica pertanto in futuro un full length più illuminato. (Francesco Scarci)

(Sleeping Church Records - 2018)
Voto: 62

https://ritualsau.bandcamp.com/

sabato 25 maggio 2019

I Feel Like A Bombed Cathedral - Rec.Requiem

#PER CHI AMA: Ambient/Drone
La memoria ritorna al testo di una vecchia canzone dei Massimo Volume che mi aveva sempre fatto riflettere: "...mi sento come il tetto di una chiesa bombardata..." e più o meno il moniker di questo nuovo progetto solista dell'implacabile mente degli Ulan Bator, Amaury Cambuzat, esprime, a mio avviso, lo stesso concetto di stordimento emotivo di fronte ad un mondo moderno, divenuto oramai inconcepibile per gli uomini che cercano di vivere sotto la stella sacra della ragione e della libertà. L'artista francese si rimette in pista e fa uscire questo nuovo album, 'Rec.Requiem', sotto il moniker I Feel Like A Bombed Cathedral. Si tratta di un lavoro perfettamente in linea con i clichè della label italiana, Dio)))Drone, ossia drone music a caduta ottenuta da sperimentazioni musicali ed effetti chitarristici in gran quantità, con qualche leggera impronta ritmica a servire la cascata sonica ideale. Quattro brani mirati, lanciati a medio/lungo raggio, tra gli 8 e i 15 minuti, centrano in pieno la cattedrale delle emozioni, lacerandola, rovinando il suo essere arte, rendendola storpia e brutta, priva della sua entità storica e divina, azzerandone il suo stato di monumento ancestrale, lasciando un vuoto, una lacuna interiore che si riflette benissimo con il titolo doloroso del disco. I primi due brani volano sul ricordo del noise più catartico, come se ascoltassimo 'Metalmusicmachine', cambiandone le coordinate al nero, virando il magma sonico in una salsa più nera e immersa nel sentore sacro e misterioso tipico delle chiese monumentali, mastodontiche e spettrali. Per il brano "Req.", l'atmosfera cambia e sulle note lente, profonde e scandite di un battito ritmico potente e cadenzato, ci sembra quasi di assistere al momento esatto del bombardamento, con i fraseggi, le sperimentazioni e i giochi di chitarra che giostrano le immagini sonore delle esplosioni. Il lutto è compiuto con la docile chitarra eterea e ipnotica di "Rev.", dove Mr. Cambuzat richiama la sua migliore parte interiore e si riappropria in solitudine delle splendide atmosfere post-rock tipiche del suo repertorio, provando a farci sognare per chiudere un drammatico ricordo, e iniziare una ricostruzione difficile, segnata dal dolore. Musica d'ambiente visionaria, dove lo stile e la classe di Cambuzat emergono per diletto, sensibilità e gusto, una capacità innata di creare un film sonoro di qualità e spessore artistico. Nuovo progetto, consolidata bravura. (Bob Stoner)

venerdì 24 maggio 2019

Saturnus Terrorism - Pamphlet

#PER CHI AMA: Death/Black
Borgogna, terra di grandi vini e splendidi castelli, ma anche luogo d'origine di questi Saturnus Terrorism (S.T.), duo che ingloba Dies, membro di Malevolentia e Einsicht, e l'ex Grisâtre Païard le Ferré. La musica offerta dai S.T., in questo debut dal titolo 'Pamphlet', riflette in un qualche modo, quanto proposto dalle band madri dei due terroristi sonori, propinandoci un black melodico che vive di guizzi di ferocia inaudita, ma anche di melodie al contempo sinistre e malinconiche. Questo almeno quanto testimoniato in "Division Mysticisme", la lunga traccia che segue l'intro del disco. Una rasoiata inaudita, un black corrosivo, distorto e dissonante, come solo in Francia sanno concepire. Le eminenze del black transalpino convergono nei suoni disarmonici di questo lavoro, ma nella sua espressione musicale, mi sembra di scorgere anche echi di un black metal norvegese di vecchia data, e penso ai primissimi Emperor. Il sound è comunque gelido e ostile. "Il Faut Obéir à la Nuit" è una lunga song black, nel cui pattern vi si trovano echi di epicità sorretti dallo scarno lavoro alle tastiere. La traccia è comunque tagliente, le ritmiche nella sua parte centrale, serratissime, le grim vocals producono un certo pathos, ma quelle declamate sono più evocative, le preferisco. Interessante l'evoluzione della song verso un mid-tempo decisamente più ragionato e lontano dalla violenta brutalità della prima parte, che ritornerà però in chiusura. "Le Philosophe aux Poignards" è uno stralunato esempio di black metal; i riff si confermano glaciali, cosi come le vocals infernali del frontman sembrano provenire direttamente dall'aldilà. L'episodio migliore del disco arriva però a mio avviso con le ritmiche sbilenche di "La Garde d'Acier", che vede in background oscure melodie che hanno una drammaticità paragonabile a certe cose suonate col violino dai Ne Obliviscaris, un tema da sviluppare maggiormente in future release. Assai particolare anche la componente più doomish della song che insieme alle funamboliche scariche death black, la rendono più completa rispetto alle altre. Con le due parti di "La Rhétorique de la Terre" si continua a mantenere ritmi sostenuti in un contesto costantemente spigoloso, sebbene compaiano delle infiltrazioni orchestrali che ne rendono l'ascolto un filo più accessibile. Alla fine quello dei S.T. è un esordio più che dignitoso, dove avrei dato più spazio ad alcune aperture melodiche o a più parti atmosferiche, piuttosto che provare a stordire l'ascoltatore con soluzioni a tratti eccessivamente martellanti. C'è comunque ampio spazio di manovra e crescita per il terrorismo venuto da Saturno. (Francesco Scarci)

(Epictural Prod - 2019)
Voto: 67

https://saturnusterrorism.bandcamp.com/releases

J'ai Si Froid - Loin des Hommes

#PER CHI AMA: Depressive Black Metal, Burzum, Paysage D’Hiver
Da non confondere con l'omonimo film con Viggo Mortensen, 'Loin des Hommes' rappresenta la terza fatica della one-man-band francese J'ai Si Froid. L'act, guidato dal factotum Brouillard, e forte della collaborazione con la Transcendance, ha da offrirci sette tracce (che includono duo pezzi strumentali) di emozionale e atmosferico black metal. Questo probabilmente si evince anche dalla suggestiva cover cd che lascia presagire da quelle montagne all'orizzonte, il senso di solitudine che vivremo durante l'ascolto del disco. Un album, che dopo l'arpeggiata intro, irrompe con "La Débâcle" ed una proposta di depressive black metal, con tanto di strazianti melodie costruite da compassate e ronzanti chitarre ritmiche su cui poggiano i vagiti disperati del mastermind transalpino in un viaggio di 12 minuti, in cui vi ritroverete anche voi come accaduto al sottoscritto, a pensare a qualunque cosa, contemplando il grigiore del cielo. Non solo suoni emozionali però nei lunghi minuti di questa song, ma anche furiose accelerazioni black, in cui ad essere penalizzata è la componente strumentale legata alla batteria, troppo secca e artificiale nel suo asettico programming sintetico. A ciò dobbiamo aggiungere una registrazione globale non proprio al top, forse legata agli stilemi imposti dal genere. Se i dodici minuti iniziali mi sembravano un po' eccessivi, i 13 prima di "Endurer pour Éprouver la Candeur" e i 16 di "Valse Mélancolique" poi, rappresentano uno sforzo notevole da affrontare, visto che a fronte di un approccio di "burzumiana" memoria, l'artista francese ha poco di nuovo e vario da offrire all'audience, se non un notevolissimo break melodico nella seconda parte della prima traccia, dai forti richiami classicheggianti. Poi un nuovo roboante attacco black che questa volta mi ha ricordato i Windir. Se l'incipit di "Valse Mélancolique" sembra più una suoneria del cellulare, la sua evoluzione invece è un black tiratissimo, saltuariamente epico e assai melodico, in cui però accade che si perdano i contorni degli strumenti, offuscati da quella marcescente registrazione low-fi che citavo poc'anzi. Un intermezzo acustico e arriviamo a "L'Espoir est le Dernier à Crever" il penultimo glaciale atto di 'Loin des Hommes', che riflette esattamente lo spirito distaccato, intimista, a tratti misantropico, del polistrumentista francese. "Le Rappel des Plaines" chiude il lavoro con poche variazioni al tema, concludendo proprio come si era aperto questo viaggio spirituale, ossia con un oscuro e malinconico black metal. Un lavoro più che sufficiente, che necessita di una ripulita generale per potersi aprire a platee più ampie, partendo da una pulizia dei suoni, una maggior umanità nelle linee di batteria, e meno derive musicali ampiamente già sentite sino ad oggi. (Francesco Scarci)

Oldd Wvrms - Codex Tenebris

#PER CHI AMA: Instrumental Sludge/Doom
Con una copertina che potrebbe evocare i polacchi Batushka e il loro esoteric black metal, ecco arrivare dal Belgio gli Oldd Wvrms, fieri incantatori di serpenti con uno sludge doom strumentale a dir poco malefico. 'Codex Tenebris' è il loro terzo lavoro ed include cinque lunghissime e claustrofobiche tracce, per ben 54 minuti di musica, non certo una passeggiata quando si tratta di musica senza una voce a guidarla. E allora caliamoci negli abissi con l'opener "Ténèbres" e i suoi oltre 10 min di suoni pesanti ed appestati, in un paio di occasioni anche eterei, ma sempre scanditi da una ritmica lenta e ipnotica, ove ahimè, mi duole dirlo, manca proprio una componente vocale che ne esalterebbe certamente il risultato finale. Niente da fare però, gustiamoci il disco cosi come viene, ascoltando la più abrasiva "A l'Or, Aux Ombres et Aux Abîmes", borderline tra black e doom, con intermezzi atmosferici di innegabile interesse ed una componente chitarristica che assai spesso sfocia nel post metal. Il disco è intrigante, non v'è ombra di dubbio, ma complice una durata importante dei brani e la conclamata assenza di un frontman dietro al microfono, rendono la digestione del disco davvero ostica se non accompagnata da un malox in compresse al bisogno. Il sound è lento, strisciante, angosciante; fortuna nostra arriva una song più carica di groove com'è "Misère & Corde" che nel suo riff portante ammicca agli Isis, prima di ingrossarsi maggiormente, dare un'accelerata alla ritmica per poi tornare a rallentare ed instillare successivamente stati di alterazione della psiche in un altro break dal forte sapore oscuro ma pur sempre melodico. Gli incubi indotti dal trio belga proseguono in "La Vallée des Tombes", una song più doom oriented rispetto alle altre che in questo caso mi ha evocato invece a livello ritmico, i primi vagiti di My Dying Bride e Anathema, con la sola differenza legata all'assenza di un growl profondissimo a declamare anche sole poche parole, capaci di dare ancor più potenza al disco. Dopo undici minuti, in cui la band si affaccia anche su lidi non propriamente death doom (ascoltatevi gli ultimi quattro minuti per capire), si arriva al gran finale ove ad attenderci rimane la sola "Fléau est son Àme" ed i suoi interminabili 15 minuti. La song ha un approccio vicino all'ambient e la sua crescita risulta assai diluita nel corso dei primi 600 secondi che vedono la band muoversi con cautela alla ricerca di uno strappo vincente, in un caustico finale che ci conduce fino al capolinea di questo 'Codex Tenebris', un disco affascinante quanto complicato da affrontare, se non con le dovute precauzioni, uno spassionato consiglio per evitare spiacevoli affanni. (Francesco Scarci)
(Cursed Monk Records - 2019)
Voto: 72

https://olddwvrms.bandcamp.com/album/codex-tenebris

giovedì 23 maggio 2019

Stoner Kebab - Everything Fades to White

#PER CHI AMA: Psych/Prog/Stoner
Abbiamo dovuto attendere sei lunghi anni, ma finalmente è giunto il momento di far godere i nostri lombi con il nuovo frutto offerto dal quartetto pratese, tutto con la benedizione della Santa Valvola Records. Nulla sembra essere cambiato, o per lo meno, la simbologia tanto amata dagli Stoner Kebab si ripercuote sin dall'artwork che vede in copertina un monolite simil '2001:Odissea nello Spazio', simpaticamente battezzato da dello sperma. Nel cielo invece si erge un pianeta che simboleggia un ovulo che sta per essere attaccato da un'orda di spermatozoi affamati, a coronare il titolo del nuovo album che riconduce il tutto al richiamo della natura. Otto brani per riprendere là dove la band ci aveva lasciato, ovvero l'album 'Simon' e la sua ironica vena satanica (ricordate il pentagramma a tutta copertina?) con l'inconfondibile sound traboccante di fuzz e riff granitici. "Virgo", l'opening track, parte di slancio con chitarre giganti impreziosite dall'effetto psichedelico per antonomasia, ovvero il phaser che avvolge le distorsioni come un volo a spirale in caduta libera verso lo spazio in cerca di forme di vita fertili. Il cantato è aggressivo ed offuscato da un pesante riverbero lo-fi in stile Electric Wizard, mentre la comparsa del sintetizzatore nel break strumentale ci fa intendere che il quartetto toscano ha voluto espandere le proprie sonorità. Il brano va verso la chiusura con un crescendo psichedelico, cambi di ritmo ed infine il ritorno alla strofa e ritornello che ci hanno schiantato nei primi secondi di ascolto. La goliardia degli Stoner Kebab è solo pari alla loro bravura, per questo mi ricordano i Red Fang che come loro hanno scelto la strada dell'autoironia che in un ambiente underground come lo stoner, manca quasi totalmente. "Everything Fades to White" ci porta in una dimensione metafisica grazie alla chitarra acustica e le percussioni che creano una trama dalle sfumature mediorientali, mentre nel retro cranio si percepisce un flebile synth che amalgama il tutto. Un brano strumentale primordiale, intimo e che arriva diretto al nostro cervello sempre più sovraccarico di stimoli, un toccasana per una lunga sessione di yoga sessuale come pratica(va) il buon Sting. Ma i vecchi casinisti non cambiano ed ecco che "For Demonstration Purposes Only" ci riporta alle origini con una traccia arrogantemente grezza, sporca e assolutamente sconsigliata agli hipster con i risvoltini. Il cantato è sempre stato un elemento di riconoscimento degli Stoner Kebab, infatti le voci s'intrecciano e si sovrappongono con maestria sopra ad una composizione musicale sempre ben fatta. Le influenze date dal corollario Black Sabbath e affini, è talmente ovvia che non va neppure menzionata, stop. Un brano lungo, complesso che abbraccia il genere e lo arricchisce con i suoni e lo stile che ha sempre caratterizzato gli Stoner Kebab in questa lunga carriera che da circa vent'anni li porta ancora a calcare i palchi di tutta Italia. Chiudiamo con "To See Coming Inside From the Inside", la canzone forse più oscura di questo quinto lavoro, dove le accelerazione prog sono state messe da parte per farci immergere in una pozza oleosa in cui è difficile addirittura arrancare e si ha solo voglia di farsi trascinare giù nel profondo. Le atmosfere doom vengono spezzate a metà dal break con protagonista il tampura (uno strumento a corde indiano) che alleggerisce l'esecuzione strumentale donandoci un momento di rilassamento emozionale. Una vera sessione psichedelica in stile '70s che ci fa desiderare un integratore a base di sativa. Ovviamente il cerchio dei dannati riprende il suo lento incedere, mentre il cantato si ripete come un mantra e ci porta alla fine del brano che chiude in fade out. Un album bello, carico, complesso ed affascinante, a dimostrazione che gli Stoner Kebab sono vivi e minchia, spaccano i culi come se avessero vent'anni. Inchiniamoci davanti ad una delle band più longeve e brave della scena heavy italiana. Accaparratevi una copia fisica al più presto, leggende narrano che al suo interno ci sia un piccante e saporito regalo. (Michele Montanari)

Malclango - S/t

#PER CHI AMA: Math Rock strumentale, Primus
“Due bassi e una batteria per denudare il math-rock fino a lasciarlo in mutande”. Questo il manifesto dell’anonimo trio strumentale romano (dal vivo, i Malclango indossano scimmie da gorilla e, a quanto sembra, nessuno sa davvero i loro nomi), che sforna un disco essenziale nei suoni ma molto intelligente dal punto di vista compositivo. Essenziale, ma non minimale: scordatevi la forma-canzone, scordatevi ritornelli da fischiettare o melodie catchy. I due bassi si muovono eclettici tra distorsioni e pulizia, tra accordi e soli, note e riff; imponente anche il lavoro ritmico, sempre preciso e mai troppo autoreferenziale. A colorare il risultato finale, campionature assortite tra versi di scimmie, battimano, vento che soffia, spezzoni di notiziario. Si passa senza indugio dalla velocità dispari di “Nimbus” alle ritmiche tribali di “Petricore”, dalle dissonanze di “Ostro” alla malinconia deviata di “Anatomia di un battibecco”, dalla rabbiosa “GranBurrasca” alla saltellante “Sant’Elmo”. Ci vuole un attimo a trasformare tanta varietà e libertà compositiva in un prodotto freddo e studiato a tavolino. Ma non è il caso dei Malclango che, anzi, confezionano un vero disco rock: di un rock essenziale e primitivo (le tre scimmie nella tempesta, in copertina, la dicono lunga), che rompe le convenzioni e fluisce — non a caso: il tema dell’acqua e della pioggia è un leit-motiv trasversale a tutti i pezzi —, libero da strutture o ritmiche pari, libero da etichette di genere. È un lavoro che pesca contemporaneamente da Primus e Sonic Youth, Fluxus e jazz, primi Soul Coughing e dalla musica folk, destrutturando e ricomponendo tutto senza paura ma con molta, molta ironia.(Stefano Torregrossa)

(SubSound Records - 2017)
Voto: 74