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lunedì 29 aprile 2013

Eloa Vadaath - Dead End Proclama

#PER CHI AMA: Folk Death Progressive, Ne Obliviscaris, Skyclad
Ma possibile che tutte le band nostrane debbano emigrare all’estero in cerca di fortuna e in Italia ci sia ancora chi punta su realtà straniere con la convinzione che l’esterofilia abbia una cosi grande presa sui fan italiani? Io non ne sarei cosi convinto, pieno supporto alla scena italica. Questa vena polemica iniziale per introdurre quello che è il nuovo cd dei veneto/emiliani Eloa Vadaath, che ha visto i nostri andare in Austria a trovare l’appoggio dell’attenta Noisehead Records, che pare aver creduto in loro. Conosciuti ed intervistati in occasione del loro debut, “A Bare Reminiscence of Infected Wonderlands”, bisso ora che è uscito il sequel di quel lavoro. Ebbene il sound dei nostri mantiene la sua enorme creatività con qualche piccola novità che a mio avviso ora è molto in linea con alcune delle produzioni mondiali più sponsorizzate e sto pensando all’exploit che hanno avuto nell’ultimo anno gli australiani Ne Obliviscaris. Proprio dal progressive sound dell’act australiano, miscelato al black, death e alla musica classica, il sound del combo italico accresce quella che in realtà era già la matrice di fondo della loro proposta. Si perché quando uscì il primo album, i nostri suonavano già questo genere, ma forse il pubblico nostrano non era pronto ad affrontare questi suoni avanguardistici. Ancora una volta vengo investito dal delirante folk death dalle forti tinte progressive del quintetto italico. L’immancabile intro, poi il funambolico violino di Riccardo Paltanin prende per mano i suoi compagni e inizia a dipingere drappeggi color porpora, spennellare paesaggi di un blu intenso e tessere tele di colori tenui e delicati. Mi spiace per gli altri membri della band, ma la mia attenzione è catalizzata quasi esclusivamente dall’esplosività dello strumento ad arco. Non faccio caso nemmeno alle tonalità dell’altro Paltanin, Marco, che insieme a Nicolò Cavallaro, si divide il compito delle vocals, pulite le prime e talvolta poco convincenti, un rabbioso growling invece, quello del giovane bassista. “The Sun of Reason Breeds Monsters” è la terza song che mischia la dinamicità del death metal con ambientazioni dal chiaro sapore rinascimentale, senza tralasciare quel folk rock anni ’70 incarnato alla perfezione dai Jethro Tull. Sebbene la band di Blackpool rimase famosa per l’utilizzo del flauto, lo spirito incarnato dagli Eloa Vadaath potrebbe essere sicuramente avvicinabile a quello dei rockers inglesi, vuoi per il desiderio di donare un tocco etnico e progressivo al proprio sound, e per il caratterizzante utilizzo del violino da parte dei nostri EV. “Vever” è un pezzo magico, assai malinconico ma con un finale da urlo affidato ad uno splendido assolo che avvicina di nuovo i nostri alla fiamma che mosse le band a fine anni ’60. Sia ben chiaro, per chi potesse male interpretare le mie parole, che non abbiamo in mano un disco di rock nel senso più stretto, anzi il contrario, “Dead End Proclama” è un lavoro ad ampissimo respiro, che incorpora nuove influenze, si è dimenticato di alcune vecchie (qui di black metal non c’è più traccia, se non in una qualche sporadica e talvolta fin troppo caotica ritmica serrata), ha messo da parte le influenze nordiche di scuola Opeth e ha costruito col duro lavoro, un sound che riesce quasi ad essere personale al 100%, anche se magari rimangono ancora cose che non mi convincono del tutto. Splendida la title track, ma forse un po’ troppo ricca di cambi di tempo che finiscono per sembrare fin troppo forzati; un mezzo punto in meno anche per la performance vocale di Marco (che a tratti mi ha ricordato il vocalist degli Aneurysm), non ancora a proprio agio in questa nuova veste. È sempre comunque il violino indemoniato di Riccardo a farla da padrone, è quello che fondamentalmente imbastisce la ritmica dell’ensemble, su cui poi poggiano gli altri strumenti. “Relics” è un altro fantastico pezzo, peccato solo che duri una manciata di minuti. “From the Flood” ha una vena iniziale doomish, e la band dimostra di sapersi muovere con una certa disinvoltura in tutti i generi musicali, e di sapermi conquistare per la loro fortissima carica emotiva, le splendide melodie e una enorme raffinatezza nei suoni. Tecnici, brillanti, orchestrali, sinfonici e teatrali, gli Eloa Vadaath si confermano tra le sorprese più gradite di questo primo quarto del 2013, soprattutto quando a risuonare nel mio stereo c’è il mio pezzo preferito dell’album, “Ad Rubrum Per Nigrum”; volete conoscerne il ragione? Fate vostro questo lavoro e ne capirete il motivo. Assolutamente da non perdere. (Francesco Scarci)

domenica 28 aprile 2013

Blizzard at Sea - Invariance



#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge/Stoner
Recensiti un paio di mesi fa col loro ultimo lavoro, torno indietro nel tempo per affrontare il debut EP degli statunitensi Blizzard at Sea, uscito nel luglio del 2011. Poco importa se si tratta di un cd di quasi due anni fa, l’importante a questo punto è non lasciarselo scappare, e ora che lo sapete, andateli pure a cercare sul loro sito bandcamp. La proposta logicamente non si discosta poi di molto dall’ultimo “Individuation”. Sarà pertanto assai semplice per me parlarvi della opening track “Islands of Stars” e delle sue intense e sospese sonorità post, con un giro di chitarra che entra nella testa e non ci lascia più, in grado di sfociare in deliranti fughe math e in una splendida chiusura di chiara rock. Il suono è sempre avvinghiante per ciò che concerne le rarefatte atmosfere, ma sa anche sprigionare una bella dose di inaspettato e impastato stoner rock, come si evince dalle note di “Closed Universe”. Le vocals si mantengono sempre costantemente incazzate, con un growling di casa Neurosis su cui giri di chitarra ci sorprendono con un’altalenante girandola emozionale, in cui fanno anche la comparsa dei sorprendenti chorus. “Simulacra” attacca in modo ubriacante con un riff magnetico e magmatico, che evolve verso suoni più sludge/stoner oriented. L’incedere di “Invariance” è ben poco lineare in tutti i brani, fino all’ultima “Action at a Distance” con le ritmiche e le chitarre più in specifico, ad alternare sapientemente riffoni che indistintamente traggono la loro origine da suoni post, sludge, stoner e math. “Invariance” non fa altro che confermare pertanto che la band di Iowa aveva le idee chiarissime anche all’esordio. Un invito obbligato quindi a dargli un ascolto. (Francesco Scarci)

Antigama/Psychofagist - 9 Psalms Of An Antimusic To Come

#PER CHI AMA: Experimental, Noise, FreeJazz, Grindcore
Una piacevole sorpresa questo split di Antigama e .psychofagist.: già leggendo gli artisti, si capisce che questo disco sia molto particolare e ammettere che riesca completamente a (s)co(i)nvolgermi. La prima parte dedicata agli Antigama annega nelle sperimentazione più totale, coinvolgendo parti di death metal moderno, post-hardcore e noise, tanto che durante l'ascolto di "Paranoia Prima" mi chiedo cosa stia succedendo, mentre mi prende un sorriso in "For Just One Breath" grazie ai suoi suoni non convenzionali e al walking bass, che fanno apparire il tutto ideale per un lounge bar. Si capisce immediatamente che con "Apophtegma Nonsense" comincia la parte riservata ai .psychofagist., grazie al loro tipico sound che prevede una chitarra in stile jazzata estremamente veloce, un cinque corde dal suono ferroso ed una batteria fin troppo tecnica. Emerge "Aritmia" come traccia più varia che comprende al suo interno dei rallentamenti e l'apice ritmico del combo piemontese; in chiusura non si può non citare la cover di Tom Waits, "Misery Is the River of the World", smontata e rimontata a piacimento. Uno split con due anime diverse, la prima per chi è anche appassionato di ambient e noise, mentre la seconda per chi è più patito di free jazz e grindcore estremo. (Kent)

Contre Jour – Passion and Fall

#PER CHI AMA: Cold Wave, Alternative, Siouxie, New Order, Kirlian Camera
I Contre Jour ci spediscono dalla Francia la loro ultima fatica autoprodotta uscita nel 2012. L'album è il terzo in sequenza dal loro debutto nel 2009. L'act francese ha le idee chiare e si esprime attraverso forme care alla new wave anni ottanta filtrata e rivisitata con sonorità sintetiche più moderne. La sintesi che ne esce è un mix di musica elettronica venata di leggere sfumature rock oriented ma in perfetto equilibrio tra loro. Il tributo ai signori della new wave è alto ma ben dosato e originale, ben reinterpretato, la lezione è stata assimilata, decisamente reinterpretata a modo e con originalità. L'album è scorrevolissimo tra memorie di Siouxie, New Order, Xmal Deutscheland e Kirlian Camera, la voce di Roxy è spettrale e calda allo stesso modo, eterea e gelida, potremmo definirla come una fata dei ghiacci ma il groove e l'attitudine dance è spinta e il leggero soffio pop la rendono ancora più ammaliante (come si può resistere a "Bittersweet!") , la sua presenza fa la differenza e alle volte sia per soluzioni stilistiche che per esecuzione ricorda un sacco il guizzo elettronico di Emilie Simon anche se in veste meno, si fa per dire soundtrack (vedi l'album "Vegetal"). Sono quattordici brani di soffice e raffinata elettro dance, ricca di momenti d'atmosfera né mai troppo pesante né troppo pop, intelligente e in alcuni casi di spiccata intuizione, una auto produzione di qualità, sempre sulla punta dei piedi e dalla incombente velata malinconia, una sorta di Miranda Sex Garden senza visioni noir e allucinogene. Il breve brano strumentale "Mirage" riporta prepotentemente alla mente Siouxie e i suoi Banshees nella forma più psichedelica e la successiva "Diseased" vola tra The Sound e Ghost Dance, progressivamente il cd scivola sempre più verso i meandri degli '80s in maniera silenziosa, abbandonando ulteriormente i contatti con le sonorità più moderne, sposando soluzioni più EBM e sperimentali che non sfigurano affatto nella scaletta dell'intero lavoro. Sicuramente i Contre Jour hanno carte in regola per tentare di emergere consci del fatto che la loro è comunque una musica di nicchia molto speciale. Per gli amanti del genere e i nostalgici degli '80s sono l'ideale, sound rimodernato e aggiornato ai tempi odierni. Un lavoro interessante, magari non innovativo ma studiato e ragionato con gusto e ampliato da una voce deliziosa. (Bob Stoner)

Half Moon Run – Dark Eyes

#PER CHI AMA: Indie Folk Alternative, Radiohead, Fleet Foxes, Ben Folds, GranDaddy
Gli Half Moon Run sono tre giovani musicisti canadesi con una sensibilità e una composizione evoluta e matura, potremmo dire già completa considerando che l'età media del trio si aggira tra i 21 e i 25 anni. Nonostante l'età la band è navigata, è al suo primo disco e ha alle sue spalle numerosi concerti in giro per il mondo. Probabilmente tutta questa repentina esperienza ha fruttato molto ai tre che hanno composto queste canzoni in maniera semplice e raffinata, dal soffice manto elettronico/ psichedelico e dal tocco folk, supportate da un'interpretazione vocale più che ottima. Siamo nei paraggi di Fleet Foxes, Ben Folds, GranDaddy e Tame Impala con quel tocco pop che fa tendenza ma che non scade mai nella banalità e la musica risente di una benevola ricerca di carica emotiva sempre in evidenza. La voce padroneggia la scena e a gran diritto si ritaglia uno spazio di prima stella tra languide sfumature elettroniche alla Radiohead e caldissime ballate di casa Neil Young periodo "Harvest 1972". Il tutto procede egregiamente con un carattere quasi corale e pastorale con armoniose melodie estasianti, solari, sonorità molto intime, innesti di elettronica minimalista in suoni tradizionali ma ben strutturati. La band mostra una padronanza del folk pop disarmante e ci si stupisce come alcune di queste canzoni così cool e moderate non siano sulla bocca di tutti (ascoltate il brano "Give Up" per credere!). Le linee melodiche espresse dalla voce ci ricordano anche alcune chicche di casa Jeff Buckley (anche se la musa ispiratrice è chiaramente Thom Yorke!) sia per tonalità raggiunta che per l'interpretazione calda, intensa, malinconica e si ha sempre l'impressione di essere dinanzi ad un cantante esperto, svezzato e al pieno delle sue capacità. E' sconvolgente l'idea che abbiamo di fronte una voce che ha poco più di una ventina d'anni! Comunque l'intero cd nell'ambito folk/pop/psichedelia di moderna generazione viaggia a vele spiegate e si fa ascoltare piacevolmente, senza una lacuna, senza carenze di alcun tipo sfiorando apici d'intensità molto cari ai Radiohead. Ovvio non stiamo parlando di nuove idee ma di una band di qualità che fa del classico pop sound un'arma vincente, credibile e godibilissima in tutti i brani. Possiamo dire per chiudere che questo è un disco consigliato pieno di intensità e intimità stilistica, dai suoni che scaldano l'anima e carico di un feeling al di sopra della media. Un album consigliato!

Aut Mori - Pervaja Sleza Oseni

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, Draconian
Primo lavoro per questo relativamente nuovo gruppo: formatisi infatti nel 2009 in Russia, la band è composta da Alexey Chernyshov e Stepan Sorokin alle chitarre, Maria Sorokina alle tastiere (e anche unica voce femminile) e Evgeniy Chepur alla voce. Tra le loro maggiori influenze si possono contare i Draconian e gli Auto-de-Fe, dalla quale band la maggior parte dei componenti provengono. Scritto e cantato totalmente in russo, le atmosfere espresse, si affacciano sul gothic doom metal, con il solito trito e ritrito connubio voce soave – growl (insomma la bella e la bestia) e tante tante tastiere che enfatizzano la malinconia e la parte più introversa dell'ensemble. L’alternanza di melodia e ritmi doom rendono il lavoro interessante da un punto di vista di attenzione, ma diventano poi ripetitivi ad ogni brano, con il risultato di risultare pesanti all’ascolto e definitivamente noiosi alla lunga. Le vocals maschili non mettono i brividi, anzi: appaiono flebili, seppur profonde; probabilmente la causa è anche l'utilizzo della lingua russa, che tende ad essere molto consonantica e poco musicale. Da sottolineare la presenza di Jerry Torstensson dei Draconian alla batteria (e responsabile anche delle registrazioni) e di tal Olof Göthlin al violino. Difficile dare un giudizio completamente positivo, a meno che non siate ragazzine che giocano ad essere dark sbandierandolo ai quattro venti, e particolarmente attratte dai ruoli di “la bella e la bestia” nelle band metal. Almeno i Nightwish avevano Tarja Turunen che metteva alla prova le sue grandi capacità liriche e trasmetteva passione; qui purtroppo non ve n’è traccia.(Samantha Pigozzo)

(Badmoodman Music)
Voto: 55

https://www.facebook.com/autmoriband

Ulver - Svidd Neger

#PER CHI AMA: Ambient
“Preface”, ”Surface” Venite con me. Versatevi qualcosa di forte e sedetevi in un comodo abbandono. Vi guiderò io tra le sonorità cupe di questo Svidd Neger in cui gli Ulver richiamano passioni dark sopite e perpetrano il loro stile inconfondibile tra tastiere, accordi circolari, effetti sfumati, malinconici, sensuali ed ipnotici. Soffia un vento lento che scopre le tracce di piedi nudi coperte dalle sabbie del pensiero. Il pensiero diviene fisso e suddito, preso, imprigionato, deviato dalla sua realtà fino a perdersi tra i cambi di strumenti e di ritmo. “Preface”, “Surface” sono solo l'assaggio al come gli Ulver possono cambiare la vostra dimensione, il vostro tempo, le vostre certezze sonore. Venite con me è solo l'inizio… 3. “Somnam” …l'inizio di un viaggio da ascoltare in cuffia. Non vi nego che dovete essere preparati a questo ascolto. Potreste subire danni alle corde dell'anima, forse dovrete riaccordare il vostro strumento. Rumori, suoni sottesi all'inconscio si avvicendano, vi esplorano, percuotono la vostra coscienza. Si interrompe la musica, ma è un risveglio apparente…andiamo a…”Widcat”. Rimanete fermi. Rimanete immobili. Forse sarete scossi. Vi dico che reagiscono gli occhi a questi lamenti, che questi lamenti parlano come contrazioni del viso di fronte a chi guarda. Poi la musica accarezza l'angoscia…da provare… È la volta di “Rock Massif” e “Poltermagda” Mi ridesto dal torpore. Scuoto il capo e poi seguo le percussioni nell'intro aggressivo di questo brano che mi fa abbassare ed alzare la testa ripetutamente. Il piatto della batteria sembra una tortura che frusta i timpani, ma ancora una volta gli Ulver non lasciano nulla al caso ed è solo un graffio all'anima…il sangue che sgorga cola su “Poltermagda” che sa di intermezzo futile e funzionale a chi s'è perso nelle caverne buie degli Ulver…si prosegue con… “Mummy”, “Burn the Bitch” e “Sick Solliloquy”: tenetevi saldi a qualsiasi cosa abbiate a portata. Chiudete gli occhi. Lasciatevi disintegrare. Durano poco questi tre brani, ma sono efficaci. L'uno horror. L'altro elettronico. “Sick Solliloquy” inquietante, parlato. Torniamo a noi. Una ritmica da ballo. Degli intercalari inaspettati. Dei suoni quasi caldi muscolari accentuati. Piacevolmente sorpresa mi alzo e danzo tra le note di questo brano che spezzano il gotico senza lasciarlo mai. È “Waltz of King Karl” che sembra continuarsi in “Sadface”, ma d'improvviso percussioni impreviste spezzano il ritmo, si mescolano al ritmo, poi si addensano, infine divengono ossessive sino all'epilogo di “Fuck Fast”, che chiede senza diritto di replica. Ci involiamo verso la conclusione con il trittico “Wheel of Conclusion”, “Camedown” e “Ante Andante”. State comodi. Le ultime note di questo album vi accompagnano ovunque vogliate andare, cullano i vostri desideri, guidano i vostri pensieri, vi scortano con arte fuori dall'antro degli Ulver che vi aspetta non appena vi vada di perdervi di nuovo. (Silvia Comencini)

(Jester Records)
Voto: 85

http://ulver.bandcamp.com/

giovedì 25 aprile 2013

Royal Talons - Royal Talons

#PER CHI AMA: Heavy psichedelia, Sludge metal, Stoner
A volte ci si chiede come certe band non si pongano il punto della questione e alla fine il risultato delle loro azioni sia raccogliere semplicemente frutti acerbi e indesiderati. Spieghiamoci, i Royal Talons arrivano da Denver, sono bravi, pubblicano questo album per la Consouling Sounds e si fregiano del genere sludge metal, termine che tutto e nulla indica... L'album è ben prodotto, suonato a modo, i suoni sono buoni, le composizioni lunghe e psichedeliche, a loro modo variegate, mostrando una grande conoscenza delle band che gravitano attorno all'heavy psichedelia, ma quello che sconcerta è che in ben quarantasei minuti nulla è originale! Tutto suona di già sentito, un copia e incolla compositivo di tutte quelle band che hanno fatto grande il genere in questione tra cui gli OM fotocopiati drammaticamente sul brano “Robot Cities” e via via Acrimony, Core, Shrinebuilder, Nightstick, Sleep senza un briciolo di cuore o anima propria e non basta intromettere un cantato alla Neurosis nelle litanie psycho religiose di Al Cisneros, per essere monolitici ed heavy psichedelici, ci vuole di più molto di più, bisogna scavare nelle viscere del proprio universo cerebrale, smembrarsi e dilatare l'anima per suonare questa musica. Manca la cultura sciamanica di fondo, la dedizione alla scoperta di nuovi viaggi sonori e la fantasia ipnotica e profonda cultura del trip. Nonostante questo, l'intero lavoro suona a meraviglia tutto intento all'aspetto, alla perfezione ma non al contenuto che di questo genere un tempo era la forza e il suo nesso logico/illogico, la visione magica del terzo occhio... Un album perfetto per chi si affaccia per la prima volta allo stoner/doom/ heavy psichedelia; da evitare per i veterani e conoscitori di questa scena. (Bob Stoner)