martedì 23 dicembre 2025

Eternal Enemy - Fatal Disease Called Life

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death
Tra gli album che non ho particolarmente apprezzato in quest'ultimo scorcio d'anno, figura 'Fatal Disease Called Life', opera prima (all'attivo hanno solo un EP) dei canadesi Eternal Enemy. Se al primo ascolto ero stato gravemente critico nei confronti della band originaria di Victoria, tanto da pensare di massacrarli in sede di recensione, al secondo, il buon senso ha prevalso. Questo non significa che andrò a premiare il disco del duo nord americano, ma di certo non lo bistratterò in malissimo modo. Otto i brani inclusi (la cui durata media è di tre minuti) che si rifanno al classico old school americano, fatto di riff cavernosi ultra ribassati e vocals effettate probabilmente dall'utilizzo di soda caustica durante i gargarismi pre-registrazione. La musica sembra piuttosto piattina al primo impatto, la produzione non ne agevola peraltro l'ascolto, ma la proposta viene salvata in un qualche modo, da soluzioni chitarristiche/assoli vari che mi hanno indotto a immaginare la band come un mostro mitologico che combina il virtuosismo dei primi Nocturnus, coniugato con l'abominio degli Autopsy e alla follia recondita degli Akercocke, il tutto annaffiato dalla putrescenza dei teutonici Carnal Tomb. Una bell'accozzaglia di suoni insomma che probabilmente, alla fine non accontenterà nessuno. Tuttavia qualche buon pezzo, almeno musicalmente parlando, c'è: "Dark Days Ahead" non sarebbe infatti male, se poi non ci fosse quella voce mostruosa che rovina il tutto. Anche la successiva "Corpse Stench", song stralunata e sperimentale, potrebbe avere qualcosa di interessante da dire, se solo avesse una componente vocale di tutt'altra caratura. "Massacre the Masters" ha una linea di chitarre fresca, sinistra e melodica, ma nuovamente, il vocalist ci mette del suo per rovinare il tutto. Lo stesso dicasi dell'altrettanto atmosferica "Rivers of Ghosts", e da un taglio progressive completamente devastato da un cantato a dir poco peccaminoso. Il verdetto finale è un peccato che penalizza la proposta del duo. Il potenziale compositivo non basta infatti a superare lacune tanto gravi. La diagnosi è chiara e il rimedio uno solo: rinnovare chirurgicamente le corde vocali del frontman. Senza questo intervento cruciale, sarà impossibile per gli Eternal Enemy ripresentarsi con una proposta più solida e decorosa. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 58

sabato 20 dicembre 2025

Who Bastard - Ghoul

#PER CHI AMA: Black/Punk
Della serie album diabolici e come evitarli, vi presento oggi il nuovo EP (il secondo della loro discografia) degli australiani Who Bastard. Quattro brani, soli dieci minuti di black punk che vi corroderanno le orecchie. Ecco in soldoni 'Ghoul', uscito da poche settimane autoprodotto. Si parte col basso assassino di "Raven" che innesca la prima traccia, tra ritmiche punk e screaming vocals che, in poco meno di un minuto, risolverà la pratica in tutta la sua banalità. Si prosegue con la lunga title track, ben quattro minuti di sonorità che evocano, almeno a livello musicale, un che della creatura che ha preceduto gli Entombed, ossia i Nihilist, qui solo in una veste più thrash metal e meno death furibondo. Un bel tuffo indietro nel passato quindi, tra suoni old school che s'intrecciano con l'acidità del black odierno e addirittura sprazzi doomish che si palesano a metà brano. Poca tecnica, zero solismi, una gran voglia di spaccare culi e poco altro. Il tutto si conferma anche in un brano più compassato, come il sulfureo "Grave Hag", un pezzo che inizia piano per poi aumentare il numero di giri in un paio di riprese. Per evocare (ma sarebbe stato meglio invocare) i mostri sacri svedesi, ecco la conclusiva "Deathbringer", un'altra zampata di diabolico black punkeggiante che chiude un dischetto di cui io farei francamente a meno. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 58

giovedì 18 dicembre 2025

Dusk - Repoka

Ascolta "Dusk_Repoka_Industrial_Metal_Breakdown" su Spreaker.
#PER CHI AMA: EBM/Industrial/Black
Costa Rica "Pura Vida": questo era il mantra che i costaricensi continuavano a pronunciare durante il mio soggiorno in quel paese meraviglioso, un luogo fatto di sole, mare e natura sconfinata. E da un posto cosi assolato, mai mi sarei aspettato di ritrovarmi un lavoro come il qui presente 'Repoka', un emblematico esempio di industrial black a dir poco disturbante. I Dusk non sono certo dei pivelli, avendo alle spalle ben cinque full length e tre EP, tra cui il dischetto di oggi. La proposta dei nostri è un furibondo esempio di fredda estetica cibernetica nichilista che evoca i fasti dei Mysticum, miscelati alla pesantezza dei Godflesh. Al pari del sound sparatoci in pieno volto, un iceberg frantumaossa, la produzione è un monolite di freddezza chirurgica, costituita da un'indiavolata drum machine su cui si stagliano effetti sintetici ubriacanti, beat meccanici e spietati, con suoni in bassa frequenza. Dall'iniziale "Dark Shaman .2.25" alla conclusiva, e qui sta la sorpresa, "Raining Blood .2.25" (cover degli Slayer), il quartetto di Heredia, ci spiattella uno sciame di effetti alienanti, accompagnati da uno screaming de-umanizzato che resta sepolto nel sottosopra, come un rantolo proveniente da un mainframe impazzito. L'effetto finale è quello di un'atmosfera sospesa (special modo in "Directive7 .2.25") in cui la componente elettronica unita a quella estrema, collidono con violenza inaudita. La scelta di coverizzare "Raining Blood" degli Slayer poi non credo sia un omaggio alla band californiana, piuttosto una radicale operazione di rielaborazione. L'aggressione primordiale e viscerale del classico thrash viene qui trasmutata in un terrore freddo, psicologico e meccanico: il brano è quasi irriconoscibile, se non per il riff portante che emerge a fatica da un inedito e terrificante turbinio musicale in cui convogliano EBM, interferenze industrial noise, voci che sembrano uscite direttamente da 'Stranger Things', elettronica e tanta malvagità. ‘Repoka’ è un'opera di una coerenza feroce. Dall'inizio alla fine, i Dusk perseguono la loro visione estrema senza il minimo compromesso, costruendo un'esperienza sonora che non cerca di piacere, ma di sopraffare. Il risultato è un disco volutamente ostico, un assalto sensoriale che definisce con precisione chirurgica il proprio pubblico di riferimento. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

mercoledì 17 dicembre 2025

Cathedral - Society’s Pact With Satan

#PER CHI AMA: Psych/Doom/Stoner
'Society’s Pact With Satan' è un pezzo inedito che risale all'ultima incisione dei Cathedral in studio, prima del loro scioglimento, un pezzo che era andato perduto ma ritrovato dal produttore dell'ultimo 'The Last Spire', che con la band ne ha concordato la sua pubblicazione. Il degno atto conclusivo della loro metamorfosi stilistica? Come sempre, ai posteri l'ardua sentenza. Questa song, di quasi 30 minuti, sigilla la transizione magmatica che ha condotto la band dal doom metal più asfissiante e primigenio degli esordi, a una matura e complessa psichedelia occulta di inequivocabile matrice settantiana. Il DNA musicale del quartetto di Coventry è quello di sempre, ancorato quindi a un patto oscuro siglato tra la pesantezza monolitica dei Black Sabbath e l'estetica gotico-orrorifica di una certa cinematografia anni '70. A livello prettamente musicale, non si può certo rimanere delusi dalle chitarre di Gaz Jennings, che impartiscono una lezione di abrasività controllata, con la sua sei corde che gratta l'aria come carta vetrata su un muro di cemento grezzo, scolpendo riff che sono al contempo primitivi nella loro essenza e diabolicamente efficaci nel definire il mood opprimente del disco. Il basso di Scott Carlson è un'àncora che impedisce ai riff psichedelici di Jennings di dissolversi nell'etere, mentre la performance alle pelli è una scossa tellurica, che detta la cadenza di una marcia funebre inesorabile (i primi sette minuti) ma anche quella delle sfuriate che imperversano verso il dodicesimo e ventiduesimo minuto. Su questo fondale strumentale, si erge la performance vocale di Lee Dorrian che oscilla costantemente tra le urla acide quasi hardcore (sentitevela tra l'ottavo e il decimo minuto, sembra quasi il vocalist degli Entombed), il lamento e l'evocazione teatrale, a veicolare l'immaginario occulto che permea la traccia. Una song che si muove da un incedere lento, quasi liturgico, prima di virare improvvisamente verso sonorità più grooveggianti, dove a mettersi in mostra sarà sempre la chitarra ispirata del buon Gaz, sia a livello solistico che di costrutto melodico, per poi trascinare l'ascoltatore verso un abisso inevitabile. Voci da più parti aprono alla possibilità che i nostri possano ritornare, sarebbe un bel colpo per i maestri del psych doom. (Francesco Scarci)

(Rise Above Records - 2025)
Voto: 74

martedì 16 dicembre 2025

Belnejoum - Dark Tales of Zarathustra

Ascolta "Dark Tales of Zarathustra" su Spreaker.
#PER CHI AMA: Symph Black
I Belnejoum nascono dalla mente di Mohamed Baligh "Qaswad", che con questo 'Dark Tales of Zarathustra', vorrebbe imporsi nel vasto e competitivo panorama del symphonic black/death metal, con un'opera dall'ambizione parecchio evidente, forse troppo. L’album attinge a piene mani dall’eredità di giganti come Nile e Fleshgod Apocalypse, due influenze non proprio messe qui a caso, che emergono chiaramente sia nell'approccio tematico, sia nell'opulenza degli arrangiamenti orchestrali, accompagnati a una marcata vena mediorientale che ne fanno un prodotto alquanto originale, capace di distinguersi in un genere spesso affollato da imitazioni. La produzione, elemento fondamentale per una proposta così articolata, si presenta tuttavia come una lama a doppio taglio. Da una parte, gli arrangiamenti sinfonici, impreziositi da strumenti tradizionali orientali come il ney, sono curati nei minimi dettagli. Dall'altra, la sezione ritmica, nonostante la presenza di musicisti del calibro di George Kollias (Nile), Fabio Bartoletti e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalypse), sembra mancare di quella potenza necessaria per rendere l'esperienza d'ascolto memorabile. Eppure, le chitarre spiccano con un sound incisivo e affilato come ci si aspetta nel black metal, mentre le harsh vocals si alternano a growl profondi, calandosi alla perfezione nella narrazione drammatica dell'opera. L'aspetto lirico è sicuramente uno dei punti di forza del disco, con i testi che scavano nella figura e nella filosofia di Zarathustra, esplorando la sua progressiva corruzione con un viaggio tra desolazione, insanità e discesa spirituale. A livello musicale invece, tra i brani più rappresentativi, citerei la lunga opener, "Prophet of Desolation", che emerge come un manifesto della ferocia sinfonica dell’album, abbinando maestosità orchestrale a martellanti blast-beat. "Tower of Silence", aperto dalla dolcezza del ney (il flauto tradizionale della musica mediorientale), combina aggressività e momenti più atmosferici, con tanto di vocals femminili, a celebrare l’essenza orientaleggiante del concept. "Elegie" è un interludio caratterizzato da un pianoforte e dal raro (fato da tal Rugieri a Cremona nel 1695) violoncello di Jeremy Garbarg che stempera la poetica (per la presenza dello splendido violino di Mohamed Medhat) irruenza di "On Aeshma's Wings", sigillando uno dei brani più brutali dell’album. "In Their Darkest Aquarium", con la sua melodia cinematica, sembra condurre l'ascoltatore in un film di fantasmi, sebbene poi le liriche narrino la storia di un bambino intrappolato in un acquario oscuro. L'arrangiamento alterna momenti eterei con esplosioni di blast-beat e cori spettrali, creando un'atmosfera sinistra che lo distingue come uno dei momenti più evocativi e disturbanti del disco. In sintesi, 'Dark Tales of Zarathustra' è un’opera che merita l'attenzione di chi cerca nel metal estremo non solo velocità e violenza bruta, ma anche profondità narrativa e costruzioni sonore intricate e suggestive, un disco che potrà essere una tappa obbligata per chi è appassionato di sonorità sinfoniche, dal sapore esotico. Un debutto che fa ben sperare per il futuro. (Francesco Scarci)

(Antiq Records - 2025)
Voto: 73

Sickle of Dust - Across the Vultures Trail

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Da Mosca si fa strada il progetto solista dei Sickle of Dust, guidato dal talentuoso e visionario Ash, che con le sue cinque nuove tracce, crea un tappeto sonoro capace di trasportare chi ascolta, in un universo fatto di desolazione e gloria. L’album, intitolato 'Across the Vultures Trail', originariamente rilasciato in formato digitale all’inizio 2025, trova ora spazio anche in versione fisica, grazie all’etichetta italiana Flowing Downward, sempre attenta alle produzioni più oscure e affascinanti dell’underground musicale. Questo lavoro rappresenta il quinto capitolo di una saga che ha consolidato i Sickle of Dust come un punto di riferimento nell’atmospheric black metal. Con uno stile che richiama l’epicità dei Summoning e la capacità narrativa degli Eldamar, Ash eleva il proprio approccio compositivo, intrecciando maestose melodie sinfoniche a riff taglienti e potenti, offrendo un’esperienza sonora che si colloca tra intensità e sogno. L’album prende il via con "Brothers of the Storm", una vera e propria porta verso l’ignoto. Con un’introduzione trionfale e atmosferica, arricchita da trombe e percussioni folk/marziali, il brano cresce attraverso una combinazione di riff black e voci graffianti. L’effetto è quello di evocare vividi paesaggi fantasy, un tema ricorrente che accompagnerà l’ascoltatore nei 40 minuti di questa affascinante opera. "On the Battlefield" cattura subito l’attenzione grazie alla presenza del talentuoso mandolino di Ilya Lipkin, uno strumento che arricchisce l’arrangiamento iniziale del pezzo con un tocco delicato e originale. Ritroveremo la sua maestria anche nella quinta traccia, "The Black Stones Inn", stavolta alla chitarra acustica. Qui il viaggio musicale si fa più compassato con melodie evocative e momenti di calma meditativa quasi surreali, offrendo un suggestivo equilibrio tra intensità e fragilità. La title track rappresenta il cuore pulsante dell’album. Le melodie della tromba scorrono centrali accanto a una meticolosa trama di chitarre orchestrate, mentre lo scream di Ash, aggiunge profondità al brano. Segue "Wizards Don’t Dance", che conserva un’atmosfera soffusa e affascinante con una narrazione musicale coinvolgente. Tuttavia, qualche accelerazione più audace avrebbe potuto dare maggiore dinamismo alla struttura complessiva, evitando una certa ripetitività nella formula stilistica. Chiude l’album la già citata "The Black Stones Inn", che si apre con una malinconica sezione acustica nuovamente impreziosita da Ilya. Il brano regala un finale intenso e contemplativo caratterizzato da vocalizzi puliti e profonde incursioni folkloriche, lasciando l’ascoltatore sospeso in un’atmosfera intrisa di poesia sonora. In sintesi, 'Across the Vultures Trail' si erge come una gemma nell’universo underground del 2025, un lavoro ideale per chi ama avventurarsi tra paesaggi sonori ricchi di ombre e mistero. I Sickle of Dust dimostrano di essere ancora una volta dei narratori musicali straordinari, capaci di rendere ogni brano parte di un viaggio indimenticabile. (Francesco Scarci)

(Flowing Downward - 2025)
Voto: 75

Starlit Pyre - Veins of Sulfur

#PER CHI AMA: Melo Death
Il debut EP dei francesi Starlit Pyre, 'Veinsof Sulfur', si colloca con una certa prepotenza nel panorama del melo-death con qualche robusta iniezione di metalcore, per un sound che evoca tanto la potenza degli Arch Enemy, quanto la vena melodica degli In Flames, pur mantenendo un'identità fresca e contemporanea. La produzione è pulita, quasi chirurgica: le chitarre sono affilate e tridimensionali, con un croccantezza ben definita che non sovrasta mai il basso, presente e roccioso; la batteria poi è dinamica e potente. La voce di Nicolas Potiez infine, è una buona amalgama di growl e scream più ruvidi che aggiungono uno strato di aggressività ben calibrata. Il dischetto si apre con la marcia inarrestabile di "Empire's Downfall", che s'impone come un inno di battaglia, caratterizzato da riff cadenzati e un coro che è pura adrenalina, un vero manifesto della loro miscela melo-death di scuola svedese, che si confermerà anche attraverso la ritmica, forse ancor più incisiva, della successiva "Solar Rays". La title track, "Veins of Sulfur", è un altro pezzo roccioso che si dipana tra sassate di grancassa e ringhiate di chitarra, in un viaggio sonoro che non rinuncia neppure a momenti tecnici, a un bridge di grande impatto e a un assolo da urlo. "On My Own" si affaccia, almeno inizialmente, sul lato più melodico e orecchiabile della band, con un'architettura più aperta, che ben presto si trasformerà, attraverso incisive dinamiche compositive, in un'arma tagliente e letale che chiude alla grande un lavoro convincente e da ascoltare obbligatoriamente. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 73

venerdì 12 dicembre 2025

The Rootworkers - Don't Beat a Dead Horse

#PER CHI AMA: Garage/Desert Rock
L'ultima fatica discografica, in realtà il primo full length della band marchigiana The Rootsworkers, è alquanto interessante, non per lo stile scelto ma per il tipo di registrazione che lo caratterizza e lo identifica nell'atlante geografico musicale mondiale. D'altronde, come sempre dichiarato, le radici della musica di questa band sono radicate sulle rive del delta blues americano delle origini. Quindi, è un suono caldo e umido quello che ci attende, ma anche corposo che richiama i classici ritmi e stereotipi del genere, e li rivive anche con un sound granuloso, ruvido e psichedelico, che sta a metà strada tra il garage e il desert rock. La cosa strana è che alla fine questa soluzione non soddisfa né uno né l'altro stile, perché il risultato, sarà per l'effettistica usata sulla voce e quei bei riverberi vintage, li fa assomigliare più ai nipotini (anche se meno sperimentali), del mitico Captain Beefheart nel disco 'Clear Spot', che cercano di risuonare questo album alla maniera dei Mother Superior, non la band americana che collaborò con Henry Rollins, ma quella svedese di 'The Mothership Movement', splendido esempio di garage rock del 1999. 'Don't Beat a Dead Horse' è un album molto bello, giocato su suoni retrò, distorsioni e sonorità che si srotolano tra un rock aspro e un vellutato blues d'altri tempi, come nel caso di "Desert", mentre in "Unstoppable Pleasure", la mente torna ai primi anni 2000 e al modo ruffiano di fare indie rock degli EELS in 'Soul Jacker', anche se in questo disco, e va sottolineato, il classic rock blues è sempre e comunque predominante. Molto interessante "It's Gone (and Its Allright)", song dal piglio cool e suoni dilatati, una voce graffiante alla Tom Waits, un pathos che mette in risalto una ricerca sonora bella e certosina, a forza inseguita dalla band, che immerge le canzoni in un misto di suono lo-fi, ronzii e suoni rudi annessi, per una cavalcata verso il mitico "Rancho de la Luna", quel posto che ha dato vita a suoni e album dal sound immenso. I The Rootworkers lavorano sulla personalità, sfornando suoni veri, reali, fatti di sudore e polvere, che provano di continuo a ritagliarsi uno spazio sonoro proprio, cosa non certo facile in questo ambito musicale, ma la qualità compositiva e il buon gusto verso certe sonorità, li aiutano a non farli cadere nel mai così scontato baratro della deriva stilistica. Per concludere, possiamo definitivamente approvare questa nuova fatica dei The Rootworkers e catalogarla tra gli album doverosi di un ascolto a tutti i costi. Lasciatevi trasportare dal calore liquido di "Dead Flower Blues", per una fuga psichedelica di tutto rispetto. Un disco da ascoltare a tutti i costi, dove la mia preferita è l'acida e irriverente "Not My Cup of Tea". (Bob Stoner)

(Bloos Records - 2025)
Voto: 70

mercoledì 10 dicembre 2025

Nimbifer – Vom Gipfel

#PER CHI AMA: Raw Black
L'ultimo assalto sonoro dei tedeschi Nimbifer, l'EP 'Vom Gipfel', è una nuova incursione in quel black metal crudo e ferale, che li ha resi uno dei nomi caldi della scena underground dopo l'ottimo 'Der Böse Geist' dello scorso anno. Un nuovo trittico di tracce a incarnare il nucleo più gelido e battagliero del black teutonico, che potrebbe riecheggiare nella potenza grezza e nello spirito nichilista dei primi Darkthrone, con una vena epica che non disdegna neppure l'influenza di certe atmosfere dei Bathory più ancestrali. La produzione sembra volutamente lo-fi, funzionale e in linea col genere, un muro sonoro dove il tremolo picking delle asce, affilate come lame di ghiaccio, si fonde in un impasto sonoro che lascia poco spazio a pulizia e modernismi, mentre il basso si muove in sottofondo come un'ombra minacciosa e la batteria, martellante e primordiale, suona secca e distorta. Il cantato di Windkelch è poi un urlaccio disperato, che squarcia il magma sonoro con urgenza quasi ritualistica. "Der Berg" spicca per la sua marcia inesorabile e le sue algide melodie ossessive, un'esemplificazione perfetta della loro miscela tra furia ed epicità, mentre il lancinante cantato del frontman, fa sgorgare sgraziatamente dalla propria gola tutto il proprio dissapore. Subito dopo, "Das Ende" s'introduce più compassata, ma non temete perché il ritmo sfocerà ben presto in un blast beat corrosivo con una qualche venatura folk in sottofondo a evocarmi un che dei Windir, soprattutto nella parte conclusiva. La chiusura "–Rückkehr–" è ahimè un inutile brano ambient che nei suoi quattro minuti scombina tutto quanto ascoltato sin qui. In conclusione, 'Vom Gipfel' è un lavoro di raw black metal, essenziale, onesto e brutale, caldamente consigliato a chiunque sia devoto al suono dei primi anni '90, ma soprattutto a chi non cerca produzioni patinate o elementi progressivi. (Francesco Scarci)

(Vendetta Records - 2025)
Voto: 66

lunedì 8 dicembre 2025

Asunojokei - Think of You

#PER CHI AMA: Blackgaze/Post Hardcore
Il terzo album dei giapponesi Asunojokei, 'Think of You', rappresenta un ulteriore e deciso passo avanti nella definizione del loro stile unico, da loro battezzato Blackened J-Rock. Questa particolarissima commistione di blackgaze, prende vita grazie a un sapiente equilibrio tra la grinta del black metal atmosferico e l’eleganza melodica tipica del pop e del post-hardcore nipponico. È un mix che s'ispira a illustri predecessori come i Deafheaven, ma che porta queste sonorità su un piano inedito, aggiungendo una profondità emotiva rara. La produzione è incredibilmente pulita, fin quasi al limite della perfezione per un genere che solitamente abbraccia una certa ruvidità sonora. Questo rende però possibile cogliere ogni singolo dettaglio degli arrangiamenti. Le chitarre di Kei Toriki brillano con un carattere cristallino, dove i riff in tremolo picking si distendono in melodie aperte e luminose. Il basso fretless di Takuya Seki dona una dimensione jazzata che sorprende per quanto s'integri naturalmente nel tessuto sonoro. Alla batteria, Seiya Saito si muove con estrema versatilità tra frenetici blast beat e passaggi più lenti e riflessivi. Dal canto suo, Daiki Nuno si destreggia tra urla screamo cariche di intensità emotiva e linee vocali pulite molto più confidenziali rispetto ai lavori precedenti. Ci sono momenti in cui il suo screamo, talvolta dal taglio quasi punk, può sembrare un po' in contrasto con la ricchezza strumentale, ma questa scelta aggiunge una tensione che non passa inosservata. L’album si apre con "Dawn", una traccia che funge da dichiarazione d’intenti. Qui i toni post-hardcore iniziali sbocciano in una travolgente esplosione blackgaze, stabilendo subito il mood del disco. "Stella" è un altro snodo fondamentale: i delicati arpeggi iniziali creano un’atmosfera sospesa che viene poi interrotta da growl rabbiosi, in un gioco di contrasti tra presente e ricordi più oscuri. "Angel" si distingue per una tonalità più melodiosa nella sua apertura e si impreziosisce ulteriormente con un assolo di basso sinuoso e jazzato che sembra quasi avvolgere l'ascoltatore nel cuore della notte, prima di sfociare nell’inevitabile climax sonoro. Il richiamo ai Deafheaven rimane ben percepibile lungo tutto l’album, ma gli Asunojokei sanno come affermare la propria identità, seppure con influenze evidenti. Ad esempio, in "Zeppelin", il gruppo intraprende un viaggio che parte da un’introduzione emo-punk dal taglio malinconico per arrivare a esplosioni di riff travolgenti e orecchiabili. Questa traccia emerge come uno degli inni più memorabili del disco, rimanendo impressa nella mente molto dopo l’ascolto. 'Think of You' alla fine brilla per personalità: ogni brano mostra la maturazione della band, sia nella composizione che nelle intenzioni emotive. Il risultato è un lavoro potente e ben definito, in grado di sposare la forza del metal con una sensibilità più melodica e riflessiva. È una colonna sonora perfetta sia per le giornate illuminate dal sole sia per le notti cariche di malinconia. Un ascolto consigliatissimo per chi ama il lato più emozionale e intimo del metal, dove le atmosfere "gaze" prendono il sopravvento sull’austerità tipicamente associata al genere. (Francesco Scarci)

(Vinyl Junkie Recordings - 2025)
Voto: 73

Tsorvat - Reflections of Solitude

#PER CHI AMA: Suicidal Black Metal
M piace andare a pesca negli acquitrini più isolati, lo trovo decisamente stimolante. Il pescato di oggi mi porta negli States con la one-man band dei Tsorvat e il demo di debutto, 'Reflections of Solitude', che si colloca nella scia del depressive suicidal black metal, con riferimenti stilistici che vanno dai primi Shining (quelli svedesi) agli umori rarefatti e disperati di altre formazioni più atmosferiche (Lustre). Come spesso accade in questi casi però, non si va a reinventare la ruota, si prova semmai a farla girare nel modo più corretto per i canoni del genere. Questo per sottolineare che il mastermind originario della California, non propone nulla di nuovo, regalando riff glaciali, tetri e al contempo introspettivi in un contesto estremo, mitigato dalla presenza di sinistre tastiere ("From the Ruins of Memory"), quasi una rinnovata versione dei Burzum dei tempi d'oro, quelli dotati di un suono monotono e ipnotico, in cui il gracchiato isterico delle vocals s'insinua in una ritmica in cui la batteria predilige blast beat veloci ("White Nail") per contrastare la melodia delle chitarre o un sound che si farà decisamente più oscuro ("The Murmuring Grove"). La catarsi si raggiunge nella conclusiva "Spiritbound", il pezzo migliore del lotto, per frenesia, convinzione, melodie e disperazione delle sue vocals. Insomma, un disco per pochi fan incalliti del depressive, che cercano nella musica, uno specchio delle proprie angosce più profonde. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 61

Elfsgedroch - Voor de Groninger Poorten - Hoogmoed Eindigt in As

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
L'EP 'Voor de Groninger Poorten, Hoogmoed Eindigt in As' degli olandesi Elfsgedroch, è un'immersione profonda nel black metal venato di lievi influenze folkloriche. L'EP è interessante in quanto le sue liriche rappresentano una cronaca in musica di un momento cruciale della storia olandese, ossia l'assedio di Groninga del 1672, noto anche come il Gronings Ontzet. A livello musicale tuttavia, la proposta non può dirsi altrettanto entusiasmante, in quando i tre brani che compongono l'EP, tra l'altro concepiti come capitoli narrativi, si dipanano con una musicalità alquanto piatta e scontata che non rende giustizia alle tematiche storiche affrontate. "1665 – De Slag bij Jipsinghuizen" alterna momenti furiosi a passaggi acustici, creando un contrasto dinamico che simboleggia la calma prima della tempesta. "1672 – De Opmars" ricomincia laddove si era conclusa la precedente song, ossia con una ritmica furiosa, un cantato che è un grido rauco e stridulo e un sound che cerca di trovare attimi di atmosfera per stemperare una ferocia intrinseca. La conclusiva "1672 – Gronings Ontzet" conclude l'assedio con una risoluzione quasi epica, in cui il riffing sembra farsi più celebrativo e compassato, pur mantenendo una tonalità cupa e severa. Alla fine però, non mi rimane nulla dentro, se non l'amarezza di aver sprecato una bella occasione di mettersi in mostra. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 55

venerdì 5 dicembre 2025

Glorious Depravity - Death Never Sleeps

#FOR FANS OF: Death Old School
New York-based band Glorious Depravity is back with their essential sophomore effort, five years after the remarkably solid debut album ‘Ageless Violence,’ where this young band showed great devotion to 90s metal. The project consists of five members with a good degree of experience in the metal scene, as they are part of different projects that range from traditional heavy metal to more extreme tendencies. With Glorious Depravity, the focus was clear and plain: to display some brutality under the metal banner, with no room for modern tendencies.

'Death Never Sleeps' is the name of the new beast, and it confirms the potential of this band. From the eye-catching album artwork, which depicts a hellish landscape, it is clear that the band has done its best to outperform its debut. The production is faultless, clear yet powerful, allowing both the drums and the guitars to show their full potential and sound like a true wall that hits the listener from the very beginning. Doug Moore’s performance as the singer is undoubtedly one of the highlights of this album. His vocals are tremendous, and even though variety is not usually a characteristic in metal albums, he tries to add some nuances as he combines growls with different levels of depth and occasional high-pitched screams, like the ones you can hear in the devastating track "The Devouring Dust".

Pace-wise, the album is quite varied. Glorious Depravity successfully combines speedy sections with slower ones that are truly headbanging-inducing. I can easily imagine that songs like "Freshkills Poltergeist" or "Carnage at the Margins" could create some nice mosh pits at a concert, which is always a good sign for a metal album. One of my personal favorites is "Stripmined Flesh Extractor" with its relentless fury. This track could certainly create some chaos among fans. In each song, the fast, medium, and slower sections are excellently combined as these tempo changes flow naturally through the entire composition. The riffing is as heavy and solid as you can imagine; the whole album is full of crushing riffs that will make you move your head like crazy. There is almost no room for solo virtuosity, although the album closer "Death Never Sleeps" gives away a glimpse of it.

All in all, ‘Death Never Sleeps’ is a very good album that will delight die-hard fans of 90s metal. This effort, however, has a contemporary feel to its production that makes it sound fresh. In any case, expect no less than a classic and satisfying, neck-breaking dose of pure metal.

(Transcending Obscurity Records - 2025)
Score: 80

mercoledì 3 dicembre 2025

In the Woods... - Otra

#PER CHI AMA: Prog Death
Che cambio stilistico hanno fatto gli In the Woods... dai loro esordi a oggi! Li ho amati nel loro black primordiale ma atmosferico di 'Heart of the Ages', passando per le porzioni progressive di 'Strange in Stereo' e 'Three Times Seven on a Pilgrimage', fino ad arrivare alle ultime uscite, con "Otra" a riaffermare la band nella scena norvegese non come black metal puro, ma come una raffinata fusione di avantgarde, progressive e death melodico, in grado di richiamare l'epos degli Enslaved più riflessivi e la malinconia dei Katatonia. Una produzione pulita e atmosferica, essenziale per gli arrangiamenti complessi contraddistinguono il lavoro; le chitarre sono stratificate, bilanciando un rifferama accattivante a passaggi acustici e melodici, con il basso a pennellare una base progressiva e la batteria a privilegiare ritmiche elaborate. La voce è pulita, baritonale e drammatica, un recitato epico che troverà spesso modo di spezzarsi in scream e growl più crudi. Affidandosi a tematiche introspettive poi, i nostri ci consegnano sette nuovi pezzi: "The Things You Shouldn't Know" è una sintesi prog-black, "A Misrepresentation of I" è un pezzo più diretto con un groove marcato, mentre "The Crimson Crown" è una traccia più riflessiva e compassata nella sua ritmica possente ma pur sempre mid-tempo, che si spingerà verso orizzonti di Katatonia memoria, pur mantenendo presente il cantato growl. Poi spazio alle oscure atmosfere di "The Kiss and the Lie", un brano che dopo un tiepido approccio, deflagra in un'esplosione death melodica. "Let Me Sing" lascia intravedere qualche influenza folk rock, mentre le conclusive "Come Ye Sinners" e "The Wandering Deity" aprono a ulteriori orizzonti musicali, capitanati da Amorphis e soci. Insomma, 'Otra' è un album complesso, non proprio immediato di primo acchito, ma che necessita di ripetuti ascolti per capire la nuova dimensione musicale in cui gli In the Woods... saranno in grado di portarvi. (Francesco Scarci)

(Prophecy Productions - 2025)
Voto: 75

Meteora - Broken Mind

#PER CHI AMA: Symph Death
Gli ungheresi Meteora si ripresentano sulle scene con l'EP 'Broken Mind ', nonostante un altro EP sia uscito solamente ad agosto, ma in realtà, questo lavoro è il secondo capitolo di una trilogia. Il dischetto affonda inequivocabilmente le proprie radici nel death metal sinfonico, epico e grandioso, rievocando la maestosità orchestrale degli Epica, ma anche accostabile a certe sfuriate dei Dimmu Borgir, pur mantenendo una vena progressiva che ricorda i momenti più complessi degli After Forever. E per proporre questo sound, la produzione cristallina è un must, ideale per esaltare ogni strato sonoro: il muro di chitarre e gli arrangiamenti sinfonici sontuosi, tra pianoforti e i cori operistici affidati alla cantante della band, Noémi. La sezione ritmica è bella potente, e l'opener "Broken Mind" lo conferma subito, grazie a un basso che gronda presenza e una batteria dinamica che spazia tra cavalcate furenti (ma melodiche) e groove più compassati, mentre l'alternanza vocale si dipana tra la suadente e potente voce di Noémi e il growling possente di Máté Fülöp. "Morningstar" s'introduce con una vena più melodica, con la voce della frontwoman che tesse delicate linee vocali, un'esemplificazione del bilanciamento tra durezza e melodia che i Meteora hanno affinato nel corso della loro carriera. In "Elysion" compare invece un cantato maschile pulito che sottolinea la versatilità della band magiara, ma che non mi convince pienamente. Il pezzo migliore, a mio avviso, è la conclusiva "In My Name," il brano più lungo del lotto e forse anche quello più ambizioso, che funge da cattedrale sonora, dove tutte le caratteristiche della band convogliano in un unico punto: voci pulite maschili e femminili, riff pesanti sorretti da orchestrazioni sinfoniche e growl, accelerazioni rabbiose, interrotte solo da un intermezzo di piano e violoncello, rievocando le atmosfere più riflessive del doom, prima di riesplodere in un finale di intensità epica. 'Broken Mind' alla fine è un disco che, sebbene di breve durata, è denso e stratificato, un ascolto che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati di sonorità sinfoniche ma che non disdegnano incursioni anche nel death metal più tecnico. Ora, non possiamo far altro che attendere il terzo capitolo. (Francesco Scarci)

(H-Music - 2025)
Voto: 70

lunedì 1 dicembre 2025

The Old Dead Tree - London Sessions

#PER CHI AMA: Gothic/Prog/Dark
I The Old Dead Tree sono sinonimo di qualità nella scena prog francese e non solo. Quasi trent'anni di esperienza, per carità inframmezzati da sospensioni della loro attività, e i cinque parigini sono ancora qui. Dopo l'ottimo lavoro dello scorso anno, 'Second Thoughts', ecco arrivare un EP registrato nientepopodimeno che negli Abbey Road Studios di Londra. Da qui 'London Sessions' appunto. Quattro pezzi che si muovono sempre con diligenza ed eleganza nei paraggi di un gothic dark rock possente e ispirato, e in cui la voce di Manuel Munoz la fa sempre da padrona. "Feel Alive Again" apre le danze con una dichiarazione d'intenti ben precisa, guadagnarsi la credibilità dell'ascoltatore con un prog dark ordinato, senza sbavature, e in cui i tremolo picking delle chitarre s'intrecciano con le vocals del frontman, in un contesto malinconico e atmosferico. Nessun atto di forza, non c'è voglia di stupire con chissà quali architetture musicali, ma il solo puro desiderio di emozionare. Un'emozione che si fa più riflessiva nella seconda "Time Has Come", in cui la linea melodica delle chitarre rimane compatta, ma in cui la voce di Manuel, forse si fa più rancorosa. Al contrario della successiva "By the Way", un brano uscito in realtà nel lontano 2005 nello straordinario 'The Perpetual Motion', e qui riproposta semplicemente in modo più cupo e languido, al pari dell'ultima "What Else Could We've Said" (anch'essa presente su 'The Perpetual Motion') per una più melliflua reinterpretazione, con tanto di archi a sostegno, di una vecchia hit della band, che alla fine mi fa riflettere se queste sessioni londinesi siano una semplice mossa commerciale o un dischetto a testimoniare la vitalità della band? A voi l'ardua sentenza. (Francesco Scarci)

(Season of Mist - 2025)
Voto: 70

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