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lunedì 28 dicembre 2020

In Tenebriz - Bitter Wine of Summer

#PER CHI AMA: Black/Doom
Le one-man-band piovono come le stelle dalle parti di Mosca. Gli ultimi in ordine di tempo arrivati sul mio tavolo sono gli In Tenebriz, progetto guidato da tal Wolfir in giro dal 2005, con ben 12 album (più altrettanti EP e split) rilasciati con questo moniker, più un'altra serie come Chertopolokh, Tomatoes Fuck Potatoes o Wolfir stesso. La proposta del musicisita moscovita è un black doom che dà ampio risalto a melodie malinconiche con intermezzi acustici e catartici passaggi nell'oscurità più buia (l'opener strumentale "With a Taste of Wormwood" ne è un esempio). Con la seconda canzone, la title track, compaiono le harsh vocals del frontman su di un tappeto ritmico affidato quasi interamente ad un tessuto di solismi e tremolo picking che rendono il tutto estremamente gradevole e assai prog oriented, anche se l'intelaiatura rimane ancora un po' grezzotta con suoni impastati e decisamente poco cristallini. In "Into Crimson Oblivion", ecco apparire invece le contaminazioni doomish lungo un brano dai toni compassati e dalla forte componente acustico-atmosferica. "Stellar Dust" prosegue su questa scia di tranquillità sonica, con linee di chitarra piuttosto semplici e lineari, in cui la melodia delle note ci guida nell'ascolto. Interessante a tal proposito un inedito break acustico con un beat trip hop che si riproporrà anche a fine brano. Ancora melodie laceranti nella strumentale "Grass Still Remembers Your Trace" che ci accompagna gentilmente verso "Heart in the Pattern of Roots", un pezzo che evidenzia ancora le potenzialità melodiche dell'artista russo inserite in un tessuto ancora sporco, che trasuda comunque di black depressive. C'è ancora spazio per un altro paio di song: la prima è "The Birth of August" con i suoi tocchi delicati che si contrappongono ai laceranti vocalizzi del mastermind russo e ad un riffing black old school che mantiene comunque intatta la vena melodica del brano, il meno riuscito del lotto a dire il vero. La conclusione di 'Bitter Wine of Summer' è affidata ai suoni post-rock di "Let the Night Do the Talking", un pezzo strumentale che chiude degnamente questo nuovo capitolo targato In Tenebriz. (Francesco Scarci)

sabato 26 dicembre 2020

Collapse Under The Empire - Everything We Will Leave Beyond Us

#PER CHI AMA: Post Rock/Post Metal strumentale
È un viaggio tra gli astri quello che ci regala l’ascolto di 'Everything We Will Leave Beyond Us', l’ottavo lavoro dei tedeschi Collapse Under The Empire. In questi dodici anni di intensa carriera il gruppo composto da Martin Grimm e Chris Burda ha esplorato ogni anfratto di quel post-rock strumentale dalle suggestioni spaziali portato alla ribalta dai più noti God is an Astronaut e 65daysofstatic, pertanto in questo nuovo capitolo possono permettersi di procedere col pilota automatico dipingendo una spensierata tavolozza di emozioni e paesaggi astratti.

Spensierata, ma non per questo banale o raffazzonata: il duo tedesco fa della cura maniacale delle produzioni il proprio marchio di fabbrica e anche stavolta gli otto brani che compongono l’opera brillano per il perfetto incastro tra decisi riff di chitarra, cascate di delay, sintetizzatori avvolgenti e un basso prepotente. Come da predisposizione del genere, il sentimento dominante evocato da pezzi come il singolo “Red Rain”, classico saliscendi atmosferico tra momenti di contemplazione e muri sonori, o la più vivace “Resistance” è la nostalgia, tuttavia non mancano accelerazioni di stampo post-metal quasi a voler sottolineare che è necessaria una buona dose di coraggio per muoversi nel buio dello spazio e raggiungere le esplosioni di colori sparse per il cosmo.

Parlando di coraggio è necessario muovere un appunto: in 'Everything We Will Leave Beyond Us' tutto è cristallino e ben orchestrato, ma nulla si muove al di fuori dei confini di un genere che da ormai troppo tempo si limita ad ammirare la propria immagine riflessa. Per quanto il disco riesca ad ammaliare (e non dubito farà innamorare gli appassionati del genere), terminata la musica e svanita la sua ipnotica magia poco rimane se non un potenziale accompagnamento per opere fantascientifiche e l’eco di una schiera di gruppi pressocché identici. Insomma, un buon compito senza dubbio, ma nulla più. (Shadowsofthesun)


(Finaltune Records/Moment of Collapse - 2020)

Corecass - Void

#PER CHI AMA: Ambient/Soundscapes/Experimental
Un susseguirsi di legno antico che respira tra i respiri dei Corecass. Respiriamo cosi insieme ad un ritmo da colonna sonora di un film dall’epilogo imprevisto. “Void I”. Mentre l’ossigeno ci percorre, visioni orientali spazzate dall’impero imperioso del dark ambient. Il suono gradualmente diviene intenso, spasmodico ed improvvisamente mellifluo, lento, nuovamente di liuto come una geisha di suoni servizievole e lontana, nella terra sognata. D’incanto, piove. Un moto forte sonoro di sensi accoglie “Carbon”. Ancora il legno che schiuma le percezioni sonore. Al legno piano si uniscono poi suoni elettrici corali, graffio lungo di tasti e di corde tormentate appena. La voce che sfugge sottesa, femminile, insistente, prepotente, sino a portare il pezzo ad un orgasmo metallico nero come una messa di chi chiede giustizia. Tocchi reiteranti, vellutati, sicuri su un organo che non lascia il fiato al respiro. “Void II”. Una spinta virtuale incurva le spalle se si asseconda il suono. Un ruggito affonda i canini deliziandosi con le paure di ognuno. “Amber”. Una song introspettiva, temporalesca, uno scenario da casa stregata. Seguitemi in questo viaggio, sarò il vostro Caronte, ma non dimenticate l'obolo per il vostro passaggio. Tornare indietro sarà magia. Curva il suono, aberrante, spazi chiusi e colori invisibili. “Void III”. Esercizi di stile in fingerstyle rivisitato da mani che aprono e chiudono le finestre per indurre buio e luce a loro piacere. L’epilogo. Come promesso. Imprevisto. Una risacca di mare che culla speranze, suoni, paure. “Breath”. Un brivido dopo inferno, purgatorio e paradiso. 'Void' si chiude come un racconto che ci ha fatto vivere sensazioni, momenti, ostacoli, velleità. L'album dei Corecass ci porta a viaggiare dentro di noi tra sospesi, paure e bellezze. Un ascoltare necessariamente tutto d’un fiato sospeso. (Silvia Comencini)

(Golden Antenna Records - 2020)
Voto: 80

https://corecass.bandcamp.com/album/v-o-i-d

Abbath - Outstrider

#FOR FANS OF: Black Metal, Immortal
The Immortal-esque sound is all there it seems to be a combination of 'Damned In Black', 'Sons of Northern Darkness' and a tint of way back when 'At The Heart of Winter' came out. Though the synthesizers were not overpowering. The riffs seem to be pretty strong on here and it's a blend of those albums (to me). The only thing that doesn't pack the punch are the drums since Horge still was with Immortal though now their status is disputed. Abbath came up with some pretty darn good riffs here. Pure Norwegian black metal and Abbath seems to blend it with some sounding like blackened thrash.

I would venture to say that this one could've been longer in length but it's nevertheless a good follow-up the the self-titled album. I suppose fans for now should follow this band rather than Immortal now that their status is on hiatus. Both Abbath albums have been good, this one a bit better than their debut. If you're a guitar player I'd say the riffs are what's key to follow on here. Abbath does a good job in that department as well as the vocal department. Not so much in the leads, though he puts in a good effort. This album is rather slow in tempos, though there are some fluctuations but not too much.

The sound quality is damn good with a little aura that is grim. This one isn't too intense of a release I'd say it's way catchy. Not only that, but the frontman of Immortal's older lineup. Abbath's vocals are unique and cool, making the album and band sound better than a lot of other black metal bands. I'm glad that there's no real synthesizers on here, but the atmosphere is dark. Like I said, it's sort of blackened thrash metal but with a tint and aura of black metal mixed in. I like it, I like the vibe here. Abbath seems to have improved on lead guitar, but he could've left that part out. So be it, however.

This is definitely an album to check out if you like black metal in general or Immortal with Abbath in the band. This one is a definite "B" rating to me, but if the leads were out I would've raised the rating. Definitely is worth picking up because the music on here is so awesome. And the Immortal influence that I touched upon gets listeners entranced. At least, it did to me. Hopefully Abbath will continue to make music since he's 47 now, he won't retire for years on end. The guy has a lot of riffs put down and 'Outstrider' is just a small dose I'm sure of what he has left for us. Check it out now! (Death8699)


(Season of Mist - 2019)
Score: 75

https://www.abbath.net/

Slowly Building Weapons - Echoes

#PER CHI AMA: Post-Punk/Shoegaze/Post-Metal
La Bird's Robe Records da sempre ci ha abituati a morbide sonorità post-rock strumentali. Quest'oggi invece mi sorprende con un'uscita fuori dalle righe. La proposta degli Slowly Building Weapons (SBW), quartetto originario di Sydney, è all'insegna di un mix tra post-punk, shoegaze e black metal. Si avete letto bene, black. Io mi ero già lasciato ingannare dalle tiepide sonorità poste in apertura con "Armada of Ghost", prima che delle chitarre super corrosive scatenassero una furia colossale per una manciata di secondi. Una sorta di sassaiola tremenda abbattutasi improvvisamente sulla testa e poi suoni più doomish giusto a creare un po' di confusione mentale in chi vorrebbe provare ad affibbiare un'etichetta a questi quattro tizi particolari. Con la seconda "Foal to Mare", i nostri ci conducono dalle parti di uno shoegaze intimista che con i suoni dell'opener non hanno davvero nulla a che fare, fatto salvo per quella voce delicata che mi ha ricordato un che dei finlandesi This Empty Flow o degli Handlingnoise, due band che potrebbero avere più di un punto di contatto con questi SBW. Con la terza "We are All Animals" si torna ad accelerare il ritmo con improvvise percussioni telluriche che si inframezzano a parti ancora dal piglio shoegaze. "Acid Gold Sun" è un po' più robusta a livello ritmico, con dei suoni forse un po' impastati nei quali rischia di perdersi la voce di Nicholas Bowman, ma la vena melodico/malinconica che permea questo brano, ne risolleva comunque le sorti. E questo mood malinconico si mantiene anche nella successiva "Dissolving", che ammicca ancora a quelle band finniche che con i Decoryah, avevano aperto un filone musicale davvero originale. I nostri mancano forse ancora di quel pizzico di originalità in più che mi aveva portato ad amare follemente quelle band, però devo ammettere che il sound degli SBW ha comunque il suo perchè, soprattutto laddove i nostri impongono un ritmo più solenne ai brani. Più fumosa "Heaven Collapse", la traccia che forse meno mi convince di questo 'Echoes'. Non si offendano i quattro australiani quindi se decido di skippare avanti a "Disc of Shadows", un brano breve ma ficcante, con una ritmica densa e oscura che va riproponendosi nella spettrale "Echo from Hill", un altro pezzo interessante ma che sembra mancare di una verve più spiccata, visto un finale quasi interamente lasciato a voce e percussioni. Magnetico l'incipit di "The Final Vehicle", una song in bilico tra post metal e alternative rock, con un finale a sorpresa all'insegna di un doom disarmonico. Ancora percussioni tribali nella prima parte di "Omega" (il finale sarà ancora sludge/doom), ultimo atto di questo interessante 'Echoes', un disco certo di non facile assimilazione ma che sarà in grado di regalarvi attimi di inquieta emotività. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2020)

martedì 22 dicembre 2020

Zed Destructive - Corroded by Darkness

#PER CHI AMA: Death/Black
La scena israeliana si arricchisce di un nuovo player, i Zed Destructive. 'Corroded by Darkness' è il primo squillo del quartetto capitanato da quel Zed Destructive, voce dei Winterhorde. Undici i brani a disposizione dei nostri per dimostrare tutto il loro potenziale dinamitardo. Si parte con "Repulsive Society", una song devota ad un black death con buone linee melodiche e la voce growl di Zed che si conferma ancora di ottima qualità. Un assalto frontale fatto di cambi di tempo, riff serrati, accelerazioni e bordate ritmiche. Niente di nuovo all'orizzonte come spesso dico, ma quanto prodotto non è affatto male. Il canovaccio è il medesimo in un po' tutti i brani con qualche variazione al tema. La seconda "Deformed Minds (Hatred)" ci offre infatti velenose scorribande black, con qualche urlaccio sparato sopra, in una traccia che conferma le doti tecniche di una band quadrata, capace e volenterosa, in grado anche di infilare un bell'assolo nel corso della song. Apertura acustica mediorientaleggiante per "The Dark Wanderer" e bei fraseggi prog death che mettono in mostra le doti della band nonchè una certa capacità di saper variare non poco la propria proposta musicale, sfoggiando sciabolate di chitarra a destra e a manca. Suoni più cupi per "Church", dotata di una ritmica che mi ricorda qualcosa dei Cradle of Filth, periodo 'Cruelty and the Beast' (forse anche a livello vocale, ricordando il Dani Filth più oscuro). Bene cosi quindi, tra rasoiate di chitarra, accelerazioni feroci, giri di tempo in stile Death ("Traitors"), ma anche assoli da paura ("Raped Existence"), roboanti e mortifere ritmiche (la title track e "Evil Wind", cosi Swedish death in alcune sue parti) o ancora porzioni epico-atmosferiche che arricchiscono di non poco il sound dei nostri (penso al finale strepitoso di "Eternal Damnation"). In chiusura, da segnalare anche la cover dei Deicide "The Truth Above", che secondo me poco avrebbe da che spartire con il sound dei Zed Destructive. Magari c'è ancora da lavorare alla ricerca di una maggiore dose di personalità, ma direi che i nostri sono sulla strada giusta per poter raccogliere ottimi consensi in futuro. (Francesco Scarci)

(Wings Of Destruction/GrimmDistribution - 2020)
Voto: 70

https://www.facebook.com/ZedDestructiveBand/

Empheris - The Return of Derelict Gods

#PER CHI AMA: Black/Thrash, primi Bathory, Sodom
Con un ritardo di quasi due anni, arriva sulla mia scrivania l'ultimo album degli Empheris, 'The Return of Derelict Gods', uscito ormai nella primavera del 2019 e riproposto in digipack un anno fa dalla Wings of Destruction. Con il 2021 alle porte potrete capire il mio stupore, magari con un nuovo album già programmato per il prossimo anno, vista la frequenza con cui i nostri rilasciano lavori. Comunque vi racconto un po' di questa band polacca che ha appunto un'estesissima discografia di EP e split album usciti dal 2005 a oggi. Il quintetto originario di Varsavia ci spara in faccia 10 tracce del più classico black vecchio stampo, quello che si combina con il thrash metal dalle ritmiche tirate, grezze e lineari, il tutto accompagnato da harsh vocals, insomma un tuffo indietro nel tempo di oltre 30 anni, che ci conduce ai vagiti di Celtic Frost, Bathory e Sodom, tanto per citare i nomi più scontati, anche se dentro ci senterei anche un che dei primissimi Rotting Christ, Kreator e Necromantia. Questo almeno quanto mi dice l'ascolto delle prime tracce, "The Beginning", la più rutilante "Rot No More" o la più breve e devastante "Testimony of Frozen Soul". Con una simile proposta, mi auguro che il feedback che si possano aspettare band ed etichetta, sia che quello degli Empheris non sia un album fresco, innovativo o cosi tanto vibrante. Diavolo, dovrei essere un ipocrita se dicessi il contrario e quindi come si dice in Italia "pane al pane vino al vino": questo è un lavoro che probabilmente anche 30 anni fa avrebbe sofferto di una certa obsolescenza. Sia chiaro, i nostri non suonano male, provano anche a giocare con cambi di tempo, accelerazioni e rallentamenti, voci gracchianti, qualche assolo piazzato qua e là. Però fondamentalmente vi ho riportato la descrizione di almeno qualche centinaio di migliaia di album, tutti uguali. Dubito pertanto che 'The Return of Derelict Gods' possa diventare una pietra miliare del metal estremo, anche se non manca qualche episodio piacevole come potrebbe essere "Palladium in Fire" o la conclusiva e sofferta "Necromantic". Insomma nel 2020, mi aspetterei qualcosa di più originale del più classico "back to the past". Solo per nostalgici amanti di quelle sonorità. (Francesco Scarci)

lunedì 21 dicembre 2020

Cave Dweller - Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)

#PER CHI AMA: Neofolk/Psych
Sono dieci i brani che compaiono in quest'album di debutto in qualità di solista, del musicista americano Adam R. Bryant. Uscito con il nome di Cave Dweller (da non confondere con altri, omonimi progetti sparsi per il web), già mastermind e componente effettivo della band post industrial, Pando, Mr Bryant ne evolve il concetto musicale, spostandolo decisamente verso le terre sconfinate del neofolk. Dieci canzoni immerse nelle nebbie mattutine, notti insonni e spazi aperti di natura incontaminata tra i paesaggi del Massachusetts. Storie che parlano di solitudini e disordini mentali, malattie, affrontate con il tono solenne del folk apocalittico ("Ancestor"), dell'alternative country filtrato dalla più buia espressività del dark e dell'alternative più rumoroso ("Why He Kept the Car Running"). La ballata nello stile di David J, soffocata da rumori d'ambiente, cicale, uccelli, fruscii, registrazioni in finto low-fi, una sorta di Burzum in veste di menestrello folk, imbevuto nello shoegaze, che a suon di chitarre acustiche mescola la selvaggia libertà di 'Into the Wild' con certo noise minimale e sperimentale, tanto caro ai Death in June. 'Walter Goodman (or the Empty Cabin in the Woods)' è un disco intimo e frastagliato, che riporta alla mente proprio l'album del 2016, 'Negligible Senescence', degli stessi Pando, con una ricercata vena poetica di base che si snoda lungo tutte le tracce. A volte si sentono echi post rock ma il suono è scarno, acustico e pieno di interferenze, anche il folk psichedelico appare tra le fila, ma il buio lo anima e lo rende tragico, mai spensierato, spesso ipnotico, malinconico, a volte persino evanescente, quasi ad inseguire un suono fantasma che ammalia, rapisce e sconcerta ("Where Trees Whispers"). Parti recitate e rumori d'ambiente inquietanti, disseminate ovunque ("Upon These Tracks"), registrati con smartphone e qualche altro aggeggio anomalo. Allucinazione e un senso di angoscia che si trasforma nei quattro brani conclusivi, spostandosi verso una tenue luminosità quasi pastorale con il coro di "The Secret Self", la cavalcata, alla Hugo Race (tipo 'Caffeine Sessions 2010'), tra country e synth wave cosmico di "Your Feral Teeth", lo strumentale dal solitario e rallentato passo bluegrass con il sottofondo di gabbiani e mare di "Bliss" ed il finale (con l'inizio che ha la stessa intensità della splendida "October" degli U2) lasciato ai rintocchi di piano di "To Return", segnano il battito di un disco non convenzionale, pieno di paesaggi in chiaroscuro tutti da scoprire, un viaggio insolito nel mondo di un folk parallelo, assai personale, intimo e nero come la pece, votato alla pura espressività poetica, per certi aspetti coraggioso ed innovativo. Una nuova veste per il neofolk a stelle e strisce. (Bob Stoner)