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domenica 26 giugno 2016

Ogmasun - Out of the Cold

#PER CHI AMA: Psichedelia/Stoner/Post Metal
La piccola realtà crescente della Cold Smoke Records ci offre un appetibile cd su cui sfogare le nostre più svariate voglie psichedeliche. Uscito nel 2015, 'Out of the Cold' è il primo lavoro di questa splendida band di Friburgo, un riassunto live dell'elevata qualità compositiva ed esecutiva del quartetto svizzero, registrato e mixato da Christoph Noth (FireAnt Music) al Blend Studio in Svizzera nell'autunno del 2014. La performance in studio del quintetto è a dir poco stratosferica, impeccabile sia per tecnica che per varietà d'esecuzione, cosa che prende la sua forma eccelsa in "Cutty Sark, Pt.2", quando l'incedere nevrotico del brano, oscuro e complicato, sfocia in un intermezzo (ascoltate al minuto 04:13 cosa succede...una vera perla!) inaspettato fluido e caldo, classico e dal profumo estraniante, come solo Bugge Wesseltoft's, in certa musica acid jazz di classe, era riuscito a fare in un album come 'New Conceptions of Jazz', negli anni d'oro. Tornando ai nostri eroi Ogmasun invece, dobbiamo dire che musicalmente il disco si divide in quattro lunghe suite (in realtà tre, poiché "Cutty Sark" è divisa in due parti) indicate come nipoti di quel capolavoro che fu dei Pink Floyd 'Ummagamma' e tutta la progenie del genere che negli anni ha seguito, dai 35007 ai Russian Circle passando per i Long Distance Calling, disturbati dall'introduzione di muscolosi e lisergici atti sonici, con una velata punta di stoner alla Karma to Born, con trasversali scorribande nel mondo complicato e indomito del mathcore dei Candiria fino ad arrivare al post metal dei Callisto. Una miscela esaltante ed affascinante che richiede un ascolto impegnativo ma agevolato da una buona produzione e da una egregia regia che ne esalta la registrazione live, senza denigrare l'aspetto qualitativo del risultato finale, una specie di John Peel Sessions all'ennesima potenza, moderna e soprattutto fatta da musicisti capaci, produttori esperti, amanti e sperimentatori del genere. Un album da ascoltare tutto d'un fiato, immergendosi nelle variegate atmosfere e intercalandosi nei suoi meandri più cerebrali. Una via di fuga, un bagno cosmico ricostituente, pieno di vitalità, ricco di spunti riflessivi, di intelligente energia rock lisergica e free style, fatto da musicisti che hanno voluto varcare il confine cercando di spingersi oltre, al di là del già sentito ed anche se i paragoni sono quelli classici della psichedelia, questo live ci offre la possibilità di accostare nomi contrastanti tra loro come 35007, il Tricky più drammatico e sulfureo di 'Pre-Millennium Tension' e il post metal alla The Ocean. Album pazzesco! (Bob Stoner)

(Cold Smoke Records - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/cuttysarkofficial

mercoledì 22 giugno 2016

Master Crow - Die for Humanity

#FOR FANS OF: Melo/Techno/Deathcore, Arsis, Gorod
Hailed as a supergroup of French talent, this second full-length from the melodic/technical death metallers Master Crow bringing along plenty of highly enjoyable elements to make for one of the most explosive and enjoyable offerings in the style. The main segment at play here is the fact that the riff-work is just simply overwhelmingly technical and frantic, whipping up sizeable storms of complex chugging patterns driven along with plenty of ferocious industrial intensity, leaving this one to bring along the sort of blistering rhythms and cold, mechanical feel that’s simply devastating. The approach works in spades with the differing rhythm styles come along with the melodic leads that adds an accessible tone to those mechanical chugging patterns, furthering the overall enjoyment factor of the album with the wholly appealing facet where it’s complex and challenging rhythms that retain a wholly listenable approach with some appropriate and engaging melodies thrown into the mix. Though this does make the album seem somewhat one-note and without a whole lot of variation it’s still engaging and enjoyable enough for a wholly enjoyable listen. The tracks here represent that with a lot to like overall here. The opening title track takes an epic series of swirling rhythms before turning into ravenous pounding drumming and ferocious chugging riff-work leading through the stylized industrial rhythms and polyrhythmic patterns swirling along throughout the solo section and carrying into the frantic chugging patterns in the finale for a highly enjoyable opener here. ‘Down from the Sky’ features blistering technical polyrhythmic riff-work and light melodic drumming chugging along at a frantic mid-tempo pace offering plenty of stylish technical breakdowns alongside the swirling melodic leads bringing the tight riffing patterns through the final half for another highlight effort. ‘Road of Vice’ brings polyrhythmic technical charging patterns and blistering technical drum-work along through plenty of ravenous riffing and plenty of dynamic drum-blasts that bring the melodic flurries in small doses against the dynamic chugging whipping along through the finale for a decent enough effort. ‘Katyusha’ takes a slow, swirling series of droning riff-work and dexterous, technical drumming whipping along through highly complex rhythms full of feverish tempos blasting along through the breakdowns in the chugging rhythms through the solo section and keeping the frantic technical energy along through the chugging final half for another strong highlight. ‘Scream in the Night’ blasts through dynamic chugging riffing and pummeling drumming with plenty of driving technical rhythms firing along through the explosive series of overwhelming technical patterns blasting away against the melodic leads augmented with the clean vocals into the breakdowns of the finale makes for a wholly impressive offering. ‘Staind in Blood’ uses buzzing chug rhythms and mechanical patterns through a series of furious breakdowns that whip along through a wholly frantic and furious blast of blazing technical chugging alongside the blasting drum-work that chops along through the final half for a blazing highlight. ‘Born to Be Crucified’ takes stuttering technical rhythms and frantic mechanical rhythms with pummeling drum-work carrying along through the stuttering tempo as the melodic rhythms carry along through the explosive swarm of up-tempo rhythms along through the breakdown-laden solo section and on through the finale for a strong and overall enjoyable effort. ‘Eye of the Troll’ takes blistering, blazing drumming with plenty of tight, choppy technical rhythms alongside the furious technical, challenging riffing with plenty of stellar polyrhythmic runs along through the tight breakdowns as the choppy melodic leads carry the frantic paces along through the sprawling final half for a decent and enjoyable offering. Closing with the Theo Holander version ‘Down from the Sky’ which doesn’t really offer much of a difference from the earlier normal version and doesn’t offer enough of a change that there’s any reason for it to be included here as it’s the same blasting drumming over frantic technically-challenging chugging that appeared on the other version, leaving it a curious inclusion overall. Overall this one had quite a large amount to fully like here. (Don Anelli)

martedì 21 giugno 2016

Nekhen – Entering the Gate of the Western Horizon

#PER CHI AMA: Doom/Drone/Dark Sperimentale
Sarà l'oscurità e l'aura mistica che circonda questa one man band italiana nata nel 2014, senza dichiarata dimora all'interno dei patri confini e capitanata dal polistrumentista Seth Peribsen, che rende spettrale ed appetibile questo primo ispiratissimo e sperimentale lavoro, uscito nel 2015 autoprodotto. Il tema trattato è l'antico Egitto, per l'esattezza il 'Trattato della Camera Nascosta', un libro connesso alla sepoltura trovato nella tomba del sovrano Menkheperra Thutmose. La band spiega sul proprio bandcamp l'esposto sonico in questo modo: l'album è inteso come un unico brano diviso in 12 tracce, composto seguendo la struttura del trattato stesso, come rappresentato nella tomba, raccontando il viaggio notturno del Dio Sole Ra nell'Amduat, ossia "Ciò che è nel mondo sotterraneo, nell'aldilà". La copertina, che rigorosamente richiama temi egizi e geroglifici, è ben curata graficamente mentre le dodici tracce, tutte di breve durata, sono legate dal filo unico conduttore di rendere l'ascolto un unico intenso viaggio nei misteri di un mondo sommerso e misterioso, espresso tramite una musica carica di evidenti aperture cinematiche e postrock, caratterizzate da sonorità doom influenzate da Electric Wizard, Ramesses, in parte dai Nibiru, dai Goatpsalm e dai Cathedral del brano "Halo of Fire", ovviamente senza il cantato, visto il concept strumentale proposto, il tutto corredato poi da un'alta concentrazione di suoni sperimentali e soluzioni musicali vicine anche allo sludge e all'ambient, con l'utilizzo di una strumentazione e percussioni di carattere folk etnico, ideali per ricreare il giusto pathos, dal sapore antico e dalla forte propensione mistica e sciamanica. Difficile trovare un brano sopra gli altri perchè l'album va apprezzato in toto ed ascoltato a volume alto o ancora meglio isolati da un paio di cuffie, in clausura e concentrazione, per assaporarne il vero valore. Anche se di non facile comprensione, dopo alcuni ascolti ripetuti, il concept diviene catartico ed ammaliante grazie ai suoi chiaroscuri e ad una macabra acidità sonica che colpisce, complice il retaggio degli immancabili Black Sabbath, i padri assoluti del genere doom. Il suono pesante delle distorsioni si incrocia sovente alle percussioni tribali ed etniche mediorientali, formando un'unica, infinita marcia funebre, un'iniziazione, un rituale pronto a farci scoprire segreti inimmaginabili. Questa fatica mastodontica di trenta minuti appena, deve essere valorizzata ed ascoltata perchè dischi del genere non escono tutti i giorni. Considerate poi l'autoproduzione che corrisponde ad una qualità impeccabile corredata da un'ottima produzione, 'Entering the Gate of the Western Horizon' dovrebbe trovarsi in cima alla lista dei desideri di ascolto di tutti gli amanti della sperimentazione in campo doom, drone e folk metal. Un' opera prima davvero notevole per questa promettente one man band italiana. (Bob Stoner)

domenica 19 giugno 2016

Keeper - The Space Between Your Teeth

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Due song per i Californiani Keeper per dimostrarci di che pasta sono fatti vi sembrano poche? Niente paura perché i due brani in questione, durano rispettivamente 17 e 16 minuti scarsi. Più che sufficienti per delineare il profilo fangoso del duo statunitense, in questo EP uscito nel 2015 e intitolato curiosamente 'The Space Between Your Teeth'. "The King" è sludge doom allo stato puro: un riffing lento ma incendiario, che dal primo all'ultimo minuto mantiene intatte le proprie fattezze, muovendosi minaccioso attraverso atmosfere venate di pura tenebra e screaming vocals demoniache che rappresentano l'unico punto di contatto dei nostri col black metal. Poi è solo la distorsione delle chitarre a dominare, in uno slow tempo dai contorni asfissianti ma emotivamente intensi (merito anche di una produzione spettacolare), che per certi versi mi hanno ricordato la proposta dei francesi Crown, qui ancor più cupa e decadente. Non c'è stacco tra la prima traccia e "The Fool", se non un brevissimo attenuarsi a livello ritmico, uno sprazzo di noise/drone, come ideale ponte di congiungimento tra le due song. Poi, solo il marziale incedere del duo americano, a tracciare scenari desolati da fine del mondo e a creare un inevitabile disagio interiore, che va via via crescendo nel corso dell'ascolto della traccia. L'esito conclusivo è assai soddisfacente, se solo ci fosse un maggiore dinamismo a livello delle linee di chitarra, rischieremo di trovarci tra le mani una band dalle potenzialità enormi. (Francesco Scarci)

Sepvlcrvm – Vox In Rama

#PER CHI AMA: Drone/Ambient
I Sepvlcrvm, progetto anticonformista e ultraterreno, ci regalano 'Vox in Rama', album sacrale meditativo e trascendente. Un altro gioiello di casa Agronauta, che ho avuto il piacere di contemplare all’Argonauta Fest di quest’anno. Premetto che l’ascolto su disco e davanti ad uno stage sono due esperienze totalmente differenti per qualsiasi act, ma per i Sepvlcrvm il salto è ancora più grande. Dal vivo l’atmosfera è come se fosse in grado di fermare il tempo, ma non al momento presente, bensì in un momento non meglio specificato del medioevo oscuro ove gli animi delle persone erano tormentati dalla violenza, dalla fame e dalla sofferenza. 'Vox in Rama' appare come un’espiazione di colpa, una via crucis che purifica lo spirito ed eleva la coscienza. La classificazione del genere ci porta sotto l’ala del drone ritual/ambient, se vogliamo identificare progetti simili possiamo citare i Sunn O))) ma mi permetterei di andare indietro nel tempo fino a Brian Eno e ai King Crimsom anche se non finirebbe qui, visti gli echi di musicalità dimenticate da secoli: canti sacri, formule magiche e suoni ancestrali. La band si esibisce utilizzando svariati strumenti che vanno dai moderni sintetizzatori, looper e chitarre elettriche fino ai sonagli, ai flauti indiani e ai tamburi sciamanici. La commistione di nuovo e antico colloca i Sepvlcrvm fuori dal tracciato del drone moderno sconfinando nel sacro e meditativo ed in più, lasciando una volta per tutte i lidi della forma canzone, arriviamo ad una fruizione musicale inversa dal classico concerto rock. Qui l’ascoltatore non assiste a dei brani o a delle soluzioni musicali orecchiabili, ma è costretto a ricercare dentro se stesso il senso di quanto accade sul palco, come se la canzone si formasse direttamente nella mente dello spettatore, bypassando la percezione del senso letterale delle parole e del senso musicale delle note. Tutto è un unico flusso di energia che si evolve lentamente; ascoltare 'Vox in Rama' è come ammirare il tempo atmosferico che muta e si trasforma, rimanendo immobili in un limbo di coscienza cosmico. Ma ora premiamo play. Rumore, sonagli, la sillaba sacra intonata con fermezza: sembra una processione di monaci custodi di un segreto inaccessibile che, con il loro fardello, vagano senza sosta e senza destinazione. D’un tratto una radura sonica di qualche secondo e poi il tuffo nella prima mastodontica parte dell’opera. Si passa da voci provenienti dalle profondità abissali al suono dell’industria moderna. Difficile parlare di struttura quanto di melodia, ma ad ascoltare con attenzione, vi accorgerete quanto ogni elemento è curato e come ogni passaggio porti ad un ambiente complementare al precedente. La seconda parte, se mai fosse possibile, appare ancor più criptica della prima. I suoni si fanno più aggressivi e ruvidi, una jungla notturna di frequenze, in continua sospensione. Circa a metà della traccia, le voci ancestrali dei monaci escono di nuovo allo scoperto e si fanno più presenti ma solamente per sprofondare in un deserto artico dal quale emergono le prime voci umane, che sembra un accorato dialogo preso da un vecchio film in bianco e nero. Un ultimo assalto sonico ci riporta nella roboante tenebra propria dei Sepvlcrvm, ma lentamente anche questa sfumerà per approdare ad un finale deliziato da una voce femminile. La ragazza è quella del fim in bianco e nero, parla di sogni, religione e morte e ci lascia ancora un volta sospesi nel vuoto. L’ascolto del cd è un’esperienza forte, permette a chiunque si lasci completamente trasportare dalle onde sonore, di viaggiare nel profondo della propria anima e delle proprie paure. 'Vox in Rama' è un memento mori, è un monito che ricorda di vivere non nella paura ma nella consapevolezza della morte, come se il domani non esistesse. (Matteo Baldi)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 85

My Answer - Pictures & Reminders

#PER CHI AMA: Post Hardcore
Già con un certo seguito nel mondo dell'underground transalpino, ho scoperto solo di recente i My Answer, quintetto post hardcore di Nantes, con all'attivo due EP. 'Pictures & Reminders' sembra essere Lp di debutto, anche se la durata di 28 minuti scarsi, farebbe propendere per un altro Extended Play. Il dischetto attacca con "Mistakes", song che possiede tutte le carte in regola per ammaliare i fan con melodie cariche di groove (ma anche di una forte vena malinconica, quasi shoegaze) su cui si pianta lo screamo efficace di Saymon. Un bell'urlaccio apre "Untitled", traccia oscura, dal ritmo nervoso che incanta per delle strazianti chitarre in tremolo picking, per quelle sue variazioni continue al tema e un certo alternarsi tra screaming e growling. Le song filano veloci grazie a delle durate mai eccessive e mi ritrovo senza rendermene conto a "Just a Breath" e alla sua ritmica pungente, calda e pesante, dove ancora mi preme sottolineare la performance vocale di Saymon, veramente bravo in tutte le manifestazioni dello spettro vocale. Si prosegue con "Unsignificant", altra song bella dritta, con interessanti aperture melodiche alle chitarre, un growling profondo e un intenso break atmosferico nella seconda parte del pezzo. Il disco prende questa direzione anche con le successive tracce: "Nightmares" palesa una ritmica serrata, a tratti schizofrenica, senza rinunciare anche a dei rallentamenti e a delle brusche accelerazioni. Con "Our Own Grave" i toni si fanno ancora più dimessi e plumbei, corredati da tutte le caratteristiche del sound targato My Answer. "Coward" chiude un disco, da cui francamente avremo voluto ascoltare qualcosa in più, e lo fa mostrando il lato migliore dei nostri: grande dinamicità, buon impatto emotivo e ottima prestanza. Per il prossimo disco un unico suggerimento, sforzarsi di suonare almeno dieci minuti in più. (Francesco Scarci)

giovedì 16 giugno 2016

Magoth - Der Toten Gesang

#PER CHI AMA: Swedish Black, Dark Funeral, Narvik, Dissection
Mi sembra che nell'ultimo periodo ci sia stata una sorta di recupero della primordialità del black metal per cui in giro per il mondo, esista un vero e proprio movimento che spinga per un ritorno alle origini del genere. Neppure la Germania è rimasta immune a questo richiamo e dalla regione della Westphalia, ecco arrivare i Magoth con il loro demo cd 'Der Toten Gesang' ('Il Canto Funebre'), che include sette brani di black old school che chiama in causa i maestri scandinavi degli anni '90. Tempo di una brevissima intro e poi il sound dei Magoth irrompe con il ruvido riffing della title track: chitarre semi-zanzarose, drumming serrato e screaming vocals demoniache. Per tipologia della proposta, oltre a rievocarmi per intensità e velocità i gods svedesi Setherial e Dark Funeral, ho trovato anche qualche similitudine con i loro conterranei Narvik. C'è da dire che la furia belluina dell'inizio lascia ben presto spazio ai toni sulfurei della seconda metà del brano, grazie a un black mid-tempo condito dalle urla dei dannati in sottofondo, destinati all'eterno dolore della città dolente. I ritmi si fanno ancor più cruenti ed esasperati con la successiva "Sheol", song che lascia comunque un certo spazio alla melodia delle chitarre e a rallentamenti occasionali, che permettono almeno alcuni attimi di tregua dalle scorribande dell'act teutonico. "Craving Blood", oltre a viaggiare su ritmiche glaciali ed impetuose, trova il modo di costruire impalcature da brividi, alternando interessanti giri di chitarra con sfuriate da manuale del black, scomodando qualche paragone con gente del calibro di Unanimated e Dissection. "Mental Fortress" è invece un pezzo che miscela il black al thrash con epiche galoppate in stile Old Man's Child, per un risultato che, per quanto possa essere palesemente derivativo, ha comunque il suo perchè. Si continua sulla linea del riffing melodico (e pure malinconico) con "Requiem Deus", altra traccia che in fatto di velocità e intensità, non lascia scampo. È però nei momenti più bui e meno caotici, che l'act di Bonn risulta più convincente e coinvolgente nella propria proposta. E l'ultima "Funeral" non fa che confermare le mie parole: spettrale, agghiacciante, tracimante odio e portatrice di atmosfere primigenie, è forse la mia canzone preferita, peccato solo che non vi sia traccia delle truci vocals di Heergott. 'Der Toten Gesang' alla fine è un buon biglietto da visita per i Magoth, in attesa che riescano ad affinare al meglio lo stile, plasmando una propria personalità. Comunque promossi con alti voti. (Francesco Scarci)

John Holland Experience - S/t

#PER CHI AMA: Psych Blues Rock
I John Holland Experience (JHE) sono un power trio nato nel 2013 nella provincia di Cuneo che si è subito concentrato sulla produttività: nel 2014 lanciano il primo Demo EP mentre a marzo di quest'anno arriva questo self title di debutto. Un album fortemente spinto a livello di produzione, co-prodotto da una lista interminabile di labels, tra qui Tadca Records, Electric Valley Rec, Taxi Driver, Scatti Vorticosi, Dreamingorilla Rec, Brigante Records, Longrail Records, Edison Box, Omoallumato Distro e altro ancora. Il digipack è stilisticamente ben fatto, la grafica in particolare richiama gli anni '70 grazie ad una invasatissima fanciulla che in ginocchio, ai piedi di una landa desolata, innalza le braccia al cielo, laddove si staglia il logo della band. I JHE sono anagraficamente giovani, ma sono stati tirati su a buon vino e blues rock, a cui hanno aggiunto influenze garage e qualche goccia di beat. I testi sono in italiano e se in prima battuta potrebbe sembrare una scelta assennata a discapito dell'audience, dimostra invece di essere vincente, con i testi azzeccati che accompagnano perfettamente il sound dei nostri. Inutile parlare di impegno sociale o abusivismo edilizio mentre la musica in sottofondo diventa sempre più festaiola. Vedi la donzella che ci fa girare la testa in "Festa Pesta", una sorta di serenata in salsa hard blues che ha lo scopo di lusingare la tipa di turno mentre i riff classici e ben suonati, si snodano sopra e sotto le ritmiche incalzanti. "Elicottero" è un ottimo crescendo, dove il trio si sfoga al massimo, aumentando il tiro e la velocità mentre si decanta l'infanzia sognante che si trova a far i conti con la dura realtà della vita. Il rallentamento a metà brano ci dà qualche secondo di respiro, giusto per lanciarci di nuovo nel vortice hard rock organizzato ad hoc dalla band. Menzione d'onore va infine a "Tieni Botta", un classic blues che vede la collaborazione di un vocalist dalla voce più calda che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. Se i JHE hanno l'energia e il sacro fuoco del rock 'n'roll dalla loro, l'ospite ci delizia con la sua timbrica suadente e graffiante, affinata a suon di wiskey e sigarette, consumati nei peggiori bar di New Orleans. Pochi minuti di blues scatenato che si tramutano in uno stacco quasi psichedelico, lento e abbellito da un assolo hendrixiano. Un album ben fatto, suonato altrettanto bene, che merita di essere ascoltato (la release è scaricabile peraltro gratuitamente su Bandcamp), soprattutto perchè ci suone buone possibilità che la band prenda la giusta via e tornino presto a far parlare di sè su queste stesse pagine. Nel frattempo i JHE sono in tour per l'Italia: io vi consiglio di andarveli a vedere. Io l'ho già fatto ed è stata una gran scarica di energia. (Michele Montanari)

(Tadca Rec, Brigante Rec, Electric Valley Rec, Dreamin Gorilla Rec, Scatti Vorticosi Rec, Edison Box, Longrail Rec, Omoallumato Distro, Taxi Driver Rec - 2016)
Voto: 75

https://johnhollandexperience.bandcamp.com/album/john-holland-experience