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venerdì 1 maggio 2015

Haiku Funeral – Nightmare Painting

#PER CHI AMA: Electro Black/Avantgarde, Dodheimsgard
Fingere che un album simile non debba rientrare negli ascolti dovuti sarebbe da ipocriti come dire che questo duo transalpino, formato da Dimitar Dimitrov (electronics, keyboards, vocals) e William Kopecky (bass, vocals), non abbia creato un piccolo capolavoro sotterraneo. L'ibrida creazione sonora di 'Nightmare Painting' tocca vette sovrumane di originalità, costruita prendendo il meglio di tanti sottogeneri del metal e dell'elettronica alternativa. Sul lettore la carrellata di brani scorre che è un piacere. Tra i suoni troviamo un delizioso senso di perversione molto caro al black d'avanguardia e un'elettronica oscura che ricorda i pionieri Renegade Soundwave ed il Gary Numan più contorto e gotico. Dietro alla musica, c'è tanta passione per la new wave meno nota degli eighties come i gloriosi In Excelsis; il basso è dominante in molti brani e quando strizza l'occhio alle ritmiche più funk, la somiglianza con le sperimentazioni nella world/etno music del compianto Mick Karn, mette i brividi. La genetica di queste composizioni è tanto complessa e vitale che ci porta ad apprezzare una band trasversale ad ogni costo, affetta da una voglia conpulsiva di mescolare, unire e disgregare tutto ciò che fino ad ora è già stato ascoltato. Il buio sintetico e la voglia di stupire degli Haiku Funeral ricordano le cose migliori di Coldworld, Ulver e Dodheimsgard, che collegate alle sonorità elettroniche dei Project Pitchfork dei tempi migliori, ci fanno scoprire una band in piena forma creativa. Mescolando la new wave con l'ambient più decadente, la cadenza doom alla sperimentazione black, l'industrial alla psichedelia plastificata, ci si rende subito conto fin dal primo ascolto di quanta fantasia compositiva ci sia dentro queste canzoni bilanciate da un perfetto equilibrio. Il cd ha un lato commerciale invidiabile, una pregevole produzione ed una buona orecchiabilità che non guasta le potenzialità incendiarie più heavy, volgendolo sempre ad una platea d'ascolto di ampio raggio. Sebbene uscito nel 2012 per la Aesthetic Death, 'Nightmare Painting' risulta essere tutt'ora l'ultima opera di una splendida unione artistica tra due musicisti illuminati, aperti ad ogni sensazione sonica, in grado di captare, catturare e destrutturare le basi della musica estrema fino a farla apparire accessibile, mantenendo intatte le radici progressive ed estreme della band. Difficile radiografare una per una le tracce dell'album per giudicarle, in quanto il cd va messo sul lettore ed ascoltato fino in fondo come fosse un'unica immensa composizione. Esperienza sonora totale, una fucina di idee...grande prova! (Bob Stoner)

(Aesthetic Death - 2012)
Voto: 90

http://www.haikufuneral.com/

giovedì 30 aprile 2015

Dementia Senex & Sedna - Deprived

#PER CHI AMA: Post Black/Sludge Death Doom
Oggi vi propongo questo split EP registrato da due gruppi, i Dementia Senex e i Sedna, che già abbiamo avuto modo di conoscere qui nel Pozzo dei Dannati. Quando mi hanno proposto questa recensione avevo i miei dubbi, pensando a un lavoro di due soli brani. Poi ho iniziato il mio ascolto da "Blue Dusk" dei Dementia Senex: sono rimasto piacevolmente colpito da come la band, abbia saputo coagulare, mescolare e rendere in un'unica forma, un'esperienza musicale sopra le righe. Nella traccia si mescolano infatti atmosfere tranquille, quasi desolanti, e si percepisce come l'approccio dei nostri sia cosi intimistico e introspettivo, ecco direi una calma quasi rassegnata, senza comunque abbandonare le atmosfere create dal death doom atmosferico del combo romagnolo. Il brano si rivela una profonda esperienza musicale, dettata dalla capacità dei nostri di amalgamare perfettamente atmosfere cosi disperate (frutto di un vocalist dallo screaming aspro) e disparate, in un unico flusso sonico da brividi. Per quanto riguarda i Sedna, il brano del trio cesenate, s'intitola "Red Shift" e il loro approccio è totalmente diverso rispetto ai compagni di split: i tre giovani creano atmosfere post metal, senza disdegnare frequenti ammiccamenti al black metal sia a livello vocale, ma soprattutto per quelle distruttive accelerazioni che evocano gli Altars of Plagues o una versione più onirica dei Deafheaven. Frenetici e violenti, i Sedna si abbandonano in atmosfere più ferali rispetto ai loro compagni di avventura, offrendo oscure atmosfere apocalittiche. Nel complesso questo split EP è un buon lavoro, che inganna il tempo in attesa di ascoltare i nuovi full length delle due band. Sicuramente una bella scoperta per il sottoscritto... Consigliatissimi! (PanDaemonAeon)

(Drown Within Records - 2015)
Voto: 75

Jack and the Bearded Fishermen - Minor Noise

#PER CHI AMA: Indie/Rock/Noise
I Jack and the Bearded Fishermen sono una band francese che nasce nel 2005 e si consolida nella line-up attuale di sei elementi, tra cui spiccano ben quattro chitarre. Nel corso dei loro dieci anni di carriera, la band ha prodotto un EP, un paio di split e due album, prima di approdare a questo 'Minor Noise' che dovrebbe essere quindi il risultato della maturità acquisita negli anni. Il nuovo lavoro, come riportato nel loro sito è stato stampato in 1000 cd e ben 500 vinili (!!), il che risulta una mossa assai coraggiosa in un periodo storico di profonda crisi (musicale). Dal sito web non si ricavano informazioni circa la storia della band, quindi concentriamoci sulla musica dei nostri e le dieci tracce dell'album. I Jack & Co. suonano un rock che sta in bilico tra il noise e il post rock/punk per un certo senso simile ai Lucertulas, Kelvin e Il Buio, gruppi italiani di cui abbiamo parlato recentemente nel Pozzo dei Dannati. Gli amici francesi lo fanno però a modo loro, optando per arrangiamenti meno ossessivi e più distesi, ma sempre con un discreto impatto sonoro, come nella title track, che racchiude in se stessa l'essenza dei Jack and the Bearded Fishermen che in cinque minuti abbondanti affrontano le loro paranoie musicali e le esorcizzano a suon di riff. Il brano infatti è un mid-tempo che preferisce giocare con i suoni più che con le battute per minuto; basti ascoltare le chitarre che lavorano bene senza esagerare con le troppe linee di sovra incisione che ne avrebbero appesantito troppo il risultato. Le distorsioni suonano come dovrebbero, leggere e colorate, in modo da far trasparire ogni singola sfumatura e facendo cosi risaltare le linee melodiche che hanno un discreto grado di complessità. L'intreccio con la sezione ritmica funziona a meraviglia grazie alla linea di basso che accompagna diligentemente e si stacca appena può, in completa fusione con la ritmica. La batteria è l'elemento portante per questo genere e non si smentisce, diventando le fondamenta di tutta la traccia e riuscendo a esserne protagonista nei momenti giusti. Come nell'intro di "Way Out" dove il suono old school dell'ensemble di Besançon regala brividi lungo la schiena e anticipa l'entrata di forza del riff di apertura. La voce è posta leggermente in secondo piano ed è mascherata da un effetto di distorsione a completare il loop noise dei Jack and the Bearded Fishermen. Il brano è un angusto labirinto fatto di aperture e break sapientemente dosati, dove gli strumenti esprimono al meglio quel senso di nervosismo e claustrofobia. I cambi repentini e inaspettati creano uno stato perenne di ansia nell'ascoltatore che si lascia strappare dalla sua dimensione statica per essere condotto nel freddo portale posto in mezzo ad un'anonima stanza (vedi copertina). "White Hours" offre in primo piano il dualismo tra basso e batteria, lasciando le chitarre a fare da elemento di disturbo acustico, creando un brano diverso dai precedenti, ma pur sempre dal sapore ansiogeno. Il battito delle note è scandito ossessivamente e quando questo si interrompe, ci pensa la voce e le chitarre a trascinarvi nel profondo dedalo dei sensi. Concludendo, i Jack and the Bearded Fishermen hanno partorito un album che non propone nulla di nuovo, ma regala dieci tracce di indie/rock ben fatte e altrettanto eseguite, dotate di una forte componente emozionale che scava nel profondo di chi sa ascoltare con trasporto. Bravi. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 75

domenica 26 aprile 2015

Sulphur Aeon - Gateway to the Antisphere

#PER CHI AMA: Death Metal, Behemoth, Absu
'Swallowed by the Ocean’s Tide' fu un buon disco di debutto, all'insegna di un classico death/black metal, ma diciamocelo con franchezza, nulla di cosi trascendentale. Tornano i tedeschi Sulphur Aeon con un album nuovo di zecca, 'Gateway to the Antisphere', e le cose si fanno decisamente più attrattive, forti anche della collaborazione alle proprie spalle di Vàn Records e Imperium Productions. Lo stile dei nostri veleggia verso lidi più death oriented, influenzato dai racconti di H.P. Lovecraft e trasfigurato in sontuosi arrangiamenti e spietate melodie. Dopo la prevedibile intro, ecco imperversare le chitarre di "Devotion to the Cosmic Chaos", song che deflagra con un ritmo dapprima arrembante e che poi si accomoda su un mid-tempo melodico, che trova anche modo di citare i Melechesh più orientaleggianti. Con "Titans", il terzetto della Renania torna a descrivere atmosfere orrorifiche degne del famoso scrittore di Providence, anche se è con la successiva "Calls from Below" che i riferimenti alle divinità blasfeme e alle creature cosmiche descritte nel 'Ciclo di Chtulu', trovano la loro perfetta collocazione. Il sound si muove infatti su un territorio più melmoso, alternando sonorità impetuose con atmosfere infestate dai mostri fantasy di Lovecraft. Se "Abysshex" rappresenta l'ennesima rasoiata in termini di furia death metal, "Diluvial Ascension - Gateway to the Antisphere" raffigura invece la perfetta narrazione della discesa negli abissi oceanici, lenta e tortuosa, in assenza di ossigeno e luce, inquietante e misteriosa, spaventosa e drammatica. La musica in questa traccia acquisisce toni angoscianti, cupi e minacciosi, andando a scalare la mia personale classifica di gradimento delle song e qualificandosi come mia traccia preferita. Ben bilanciata a livello di chitarre, ottima la sepolcrale performance vocale di M. e solenne è la furia vibrante insita nelle ritmiche del brano, che richiama in causa nuovamente Melechesh, ma anche Absu, e Behemoth, per un risultato finale da peggiore degli incubi. Il furore del trio germanico trova sfogo anche in "He is the Gate", mentre in "Seventy Steps" sembra incappare in un apparente attimo di quiete che nella seconda parte della song, avrà di nuovo modo di irrompere con ottime linee di chitarra, dal sapore quasi avanguardistico, che ammiccano addirittura ai Ved Buens Ende. La ferocia dei Sulphur Aeon è implacabile, anzi continua a spingersi oltre, sferrando colpo dopo colpo, attacchi di elegante brutalità che evocano la malignità degli Aevangelist, la morbosità dei Morbid Angel e l'indigeribilità dei Mitochondrian, in un album di totale devastazione che sul suo cammino sarà solo in grado di mietere vittime. Che altro dire se non suggerirvi di far vostro quanto prima questo lavoro, non fosse altro per lo splendido e curatissimo digipack con cui le etichette lo presentano. Sulphur Aeon, dannatamente feroci. (Francesco Scarci)

(Vàn Records/Imperium Productions - 2015)
Voto: 80

Those Made Broken - Dead History

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree
La band di oggi è un quartetto alternative rock/metal proveniente da Glasgow, che dopo un imprecisato tempo esce con l'album di debutto 'Dead History'. Infatti dal loro sito non si ricavano molte info riguardanti la storia della band, probabilmente è una formazione che si è formata da poco, ma non importa ai fini della recensione. Sta di fatto che i Those Made Broken (TMB) suonano dannatamente bene: dodici brani ben bilanciati e caratterizzati da una discreta qualità di registrazione. "Endgame" è l'opener di questo 'Dead History' ed inizia in grande stile con un bel riff di chitarra che poi verrà ripreso ciclicamente durante tutta la traccia. Song che è un perfetto mix di sonorità alternative rock/metal, velata di malinconia e sfumature dark messe in risalto da suoni cupi, arrangiamenti aggressivi e dal timbro vocale del cantante. I suoni sono tendenzialmente moderni, quindi fanno uno smodato uso di compressori e simili nella fase di post produzione della sezione ritmica, con le distorsioni dotate di quel taglio tipico del nu metal, anche se mai effettivamente esasperato e sempre vicino al rock, soprattutto come struttura compositiva. Il breve break centrale dà respiro al brano e ricorda i momenti più atmosferici dei Katatonia, per poi caricare ed esplodere nell'allungo finale. Tanta potenza gestita in modo bilanciato, una sorta di pugno nello stomaco che si trasforma in una carezza musicale. "All You See" è un brano più tirato: batteria e basso nervosi e incalzanti, come gli arrangiamenti di chitarra che conducono la linea ritmica sempre in perfetta sintonia. Il vocalist si conferma all'altezza, sia per tecnica che per timbrica, cercando di staccarsi dalla melodia per creare una propria linea melodica. Il brano può ricordare Tool e A Perfect Circle o i più recenti Soen però con un piglio personale che rende merito alla band scozzese. I riff vengono preferiti agli assoli super tecnici, giovando quindi al groove, con qualche piccola chicca in post-produzione per arricchire le linee di incisione. "Reach" cambia registro sin dall'intro che ci porta nelle lande americane a suon di southern metal, grondante di sudore per quei suoi cinque minuti abbondanti. I TMB uniscono due terre geograficamente lontane con arte, portando l'ascoltatore a muovere una qualsiasi delle estremità del corpo, questo a conferma della genuinità della traccia. Tanto groove, suoni massicci, cambi di tempo al punto giusto sono gli ingredienti essenziali per l'ottimo mix offerto dai nostri. Personalmente lo ritengo il brano migliore di 'Dead History', bravi ragazzi. Per il resto l'album è per lo più discreto, con buone idee che a volte vengono sviluppate in maniera ripetitiva; l'impressione che ho avuto è che i brani debbano durare almeno trecento secondi altrimenti il rischio è che non piacciano. Avrei puntato a produrre un cd con qualche traccia in meno (troppe 12), ma sviluppate meglio, proprio per non cadere nel circolo vizioso di dover faticare per arrivare alla fine di ogni brano. La band ha buone potenzialità che spero possano evolvere ulteriormente, soprattutto sfruttando la creatività che sembra essere celata sotto una patina dettata dagli standard di questo genere musicale. Meno quantità e più qualità. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

venerdì 24 aprile 2015

Bio-Cancer - Tormenting the Innocent

#FOR FANS OF: Black/Thrash, Dark Angels, Sadus
What's this? Bio-Cancer? A biohazard symbol in the logo? Artwork by Ed Repka depicting a chained up mutated humanoid? We know what we're all thinking - and in some ways, you're right to think pessimistically. However, if you begin to write these Greek speedsters off as another pseudo-crossover failure like Fueled By Fire or Thrash or Die(*shudder*!), then you are missing out on some incredibly tight and entertaining genuine thrash metal, written for the 21st century audience. 'Entertaining' really is the key word here. Bio-Cancer seem to fill every nook and cranny of their sound with subtle compositional devices which make a huge difference to the overall effect. A bass lick here, a drum fill there - it all adds up to a unique and memorable experience (the 0:53 mark in opening track "Obligated To Incest", Lefteris' primal grunt, is a prime example). Speaking of vocalist Lefteris; he puts on one hell of a performance here. Completely balls-to-the-wall insane shrieks and a vitriolic lyrical delivery are the norm for this madman. His supporting cast are also en point throughout "Tormenting The Innocent". Original riffage, tuneful solos, a range of dynamics, and most importantly, a variation in pace. This is best exemplified in the middle section of "F(r)iends or Fiends" where the rhythm section truly prove that they can hold their audience's interest without the need for a simplistic verse-chorus-verse-chorus structure. Think Mastery, but with a seriously impressive vocalist at the helm. The production quality is stellar: the guitars and bass work together as one well-oiled machine, Tomek's blast-beats are always highlighted superbly and the gang-shouts become an integral part of the compositions due to the gravitas given to them. In fact, if there's any fault with this album at all, it's that Lefteris' English pronunciation is far from accurate, but that just adds to the mad hilarity of this release! Who gives a shit about lyrics anyway? "Tormenting The Innocent" flows with surprising fluidity; each track leading to the next with an almost narrative through-line - climaxing on the one-two deathlike punch of"Haters Gonna...Suffer!" and "Life Is Tough (So Am I)". The songs all have something that will make you want to come back and hear it again and again. Be it the mesmerizing melodic middle-eight of "Boxed Out" or the relentless chanting of "Think!", you'll find yourself becoming enthralled by a detail you missed on previous listens. It's clear that these Greeks have placed themselves on a plinth of thrash metal godliness. Along with the Finns in Lost Society and the more established Brits in Evile, let us hope their toxicity develops and infects us all! (Larry Best)

(Candlelight Records - 2015)
Score: 90

Sonic Prophecy - Apocalyptic Promenade

#FOR FANS OF: Heavy/Power, early Primal Fear
More tales of warriors, kings, legends and dragons? Yes please! Sonic Prophecy, a sextet of Americans, are forging their path through our beloved genre in their own way. Nothing they're doing may be considered particularly innovative or original, but then what is these days? However, some of their techniques and compositional devices are somewhat quirky, especially considering their nationality. One thing's for sure, their entry for 2015 is nothing if not huge! At a whopping 1 hour 13 minutes, Sonic Prophecy are making sure there is quality stashed somewhere in that quantity. The production isn't quite spectacular - the guitar tone is a bit mellow, and a little engulfed by the bass (that's a first!). But fortunately, the folk instruments and Shane Provtgaard's mid-pitched vocals are well mixed. These two aspects are probably the stars of"Apocalyptic Promenade". Provtgaard has a warm, welcoming voice - and is able to portray a sense of storytelling through the fantastical lyrics. The folk instrumentation is a sheer delight, acting as the multi-coloured sprinkles on this cake of power metal. Regarding their debut album, "A Divine Act Of War", this new effort has slightly dampened the conventions they had previously established; lacking such energetic hymns as "Call To Battle" or the crunching headbangers like "Heavy Artillery". On "Apocalyptic Promenade", the youthful vibrancy is missing and songs feel dragged out to far longer than they're worth. Circa 2011, you could confuse this band for a young Primal Fear, but circa 2015, they seem more like latter day Judas Priest. This is by no means a negative remark, but it does sap a little of the energy out of their songwriting. There are plenty of positives scattered about this album though. Choosing to open your album with a 13-minute epic is a risky move, but "Oracle of the Damned/The Fist of God"is such a well-composed, structurally sound piece of metal, it proved a totally worthwhile decision. This helps set up the narrative characteristic of the album which, thankfully, holds steadfast throughout. The majority of tracks on "Apocalyptic Promenade" are mid-tempo and average around 6:30 each. The swaying waltz of "Legendary" and the brooding melodies of "The Warrior's Heart" are definitely the stand-outs that thrive in this structure. Rather than an up-tempo gallop through a fantasmic land of dragons and warriors, this feels more like a calm amble across a meadow of long grass. A ... promenade, if you will? Nothing about it is unpleasant or outright bad - there are plenty of sweeping melodies and grandiose ideas. It would just be a refreshing change if they were to return to the celestial ways of their debut. (Larry Best)

(Maple Metal Records - 2015)
Score: 55

giovedì 23 aprile 2015

Limerick - S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Stoner/Grunge
I Limerick sono tornati e lo hanno fatto con il botto. Se fossi costretto a riassumere il loro nuovo album in poche parole, queste sarebbero quelle giuste. Avevamo lasciato la band verso la fine del 2012 con il loro precedente cd e già a quei tempi si capiva che il trio avrebbe riservato grandi sorprese. Nel frattempo la band vicentina ha lavorato duramente, continuando ad esibirsi dal vivo e questo self-titled segna un traguardo importante per la loro crescita artistica. Il cd si presenta con un bel jewelcase, dalla copertina tenebrosa e disegnata ad hoc per quest'album, ben riuscita e che trasmette il mood dei brani contenuti. La prima traccia è semplicemente "Track 1", della serie meglio un titolo anonimo che uno scelto a caso e già dalle prime note si percepisce la buona qualità della registrazione. Dopo alcune folate di vento campionate, inizia l'ipnotico arpeggio di chitarra che sarà l'elemento trascinante per gran parte del brano. Una ninna nanna dal tono sommesso, ma che cresce piano piano, con una struttura semplice e solida fatta di batteria e basso intrisi di psichedelia. Il cantato segue la scia tracciata dagli strumenti e si alterna ad altre linee di chitarre cariche di effetti come riverbero e delay. Dopo questa brano introduttivo, il cd prende il volo con "Red River Shore", pezzo veloce e pesante fatto di puro stoner. La voce di Amedeo non lascia dubbi e la sua timbrica si riconosce facilmente, ruvida e ben definita che richiama influenze grunge; nel frattempo Flavio (batteria) e Giordano (basso) creano il tessuto pulsante del brano senza mai perdere tono. A metà pezzo arriva il break che permette all'ascoltatore di prendere fiato e iniziare a ballare una danza quasi dimenticata, mentre suoni dissonanti di chitarra slide ci trascinano in un vortice sempre più veloce che ci riporterà al riff iniziale, per poi chiudere in bellezza. Gli arrangiamenti dei Limerick vantano un tocco di personalità e aumentano la riconoscibilità dei brani, una mossa vincente che permette una maggiore visibilità tra le molteplici band in circolazione. "Wet" è un tributo al sound dei QOTSA (quello di "Songs for the Deaf" per capirci), ma le similitudini si fermano al riff iniziale perché poi i Limerick stravolgono le cose e fanno capire che non hanno certo bisogno di fare il verso ai gods statunitensi per convincerci. Infatti, dopo poco la canzone evolve, basso/batteria cominciano a scalciare indomabili e le chitarre s'ingrossano a dismisura. Gli arrangiamenti si confermano raffinati e studiati nel dettaglio, con un velo malinconico e oscuro che piace e convince. "Buried Love" è quel brano che finisce presto (poco meno di tre minuti), ma che c'incatena davanti alle casse dello stereo mentre la pressione sonora riempie i polmoni di aria calda del deserto. Uno schiaffo in piena faccia fatto di riff arroganti, un drumming propulsivo che sembra uscire dagli speaker e le linee di basso che si stringono intorno al collo come serpi assetate. In tutto questo non mancano le finezze in sede di sovraincisione, come la seconda voce del buon Flavio che finisce per cavarsela egregiamente. Un brano che dal vivo scatena il pubblico e da testimone non posso che confermare la capacità del trio nel regalare da sempre concerti degni di essere vissuti; tre musicisti che non sentono minimamente la mancanza di un sostegno addizionale perché loro bastano e avanzano. In definitiva un ottimo album che non deve mancare assolutamente nella vostra raccolta e che meriterebbe una versione in vinile quanto prima per poter gustare al meglio ogni singola sfumatura di questo album omonimo; anche uno split con un'altra band non sarebbe male, ma sono certo che presto avremo altre novità dai Limerick. Ormai il sentiero è tracciato, ora va seguito con convinzione. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 80