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martedì 24 luglio 2012

Plasma Pool - I

#PER CHI AMA: EBM, Black, Techno
I Plasma Pool nacquero a Budapest nel 1990 dall”idea di tre artisti provenienti da diverse esperienze musicali: Attila Csihar, che fu membro e cantante dei Tormentor (black metal band di culto negli anni ottanta) e che prestò la sua voce in “De Mysteriis Dom Sathanas” dei MayheM, László Kuli, batterista proveniente dalla scena hardcore-punk ungherese e infine István Zilahy, tastierista dedito ad una musica elettronica-psichedelica. Nei primi anni novanta i tre si dedicarono ad un’intensa attività live che li vide esibirsi in discoteche e piccoli club in ogni angolo dell’Ungheria e che li proiettò verso un successo improvviso ed inaspettato. La band non impiegò molto ad assurgere allo status di indiscutibile leggenda underground grazie alle numerose gig tenute in terra d’origine: spettacoli che vengono descritti, da chi ebbe la fortuna di vivere quegli anni d’oro, come terrificanti performance di musica techno, vere e proprie esperienze alienanti che trascendevano la dimensione fisica! Nel gruppo, vita e musica venivano entrambe portate all’estremo e si tramutarono ben presto in veicoli di un’energia tanto vitale quanto distruttiva, l’energia primordiale del Sole che fu alla base del credo dei Plasma Pool e che la band stessa non riuscì a convogliare nella giusta direzione, rimanendone folgorata e lasciandosi sopraffare dagli eccessi. Il trio si sciolse così nel 1994, consegnandoci l’eredità di alcune registrazioni in studio che sono raccolte in questo album assieme a materiale live. Questo primo capitolo, che fa parte di una trilogia ancora incompleta (il secondo episodio “Drowning” è uscito per l’italiana Scarlet nel ‘99), venne diffuso inizialmente su nastro dalla Trottel Records di Budapest e solo nel 1997 venne pubblicato su CD dalla nostrana Holocaust, grazie al forte e ancor vivo interesse che alcuni addetti ai lavori della scena musicale underground italiana ed ungherese (come Luigi Coppo e Vámosi Tamás) manifestarono attorno al nome Plasma Pool. “I” è un documento prezioso, più che un semplice debutto, un ritratto fedele di una band rimasta da sempre avvolta in un alone di mistero e autrice di una musica geniale e malata che trova negli Skinny Puppy la propria diretta discendenza. L’elettronica dei Plasma Pool è sporca, deviata, grezza ed istintiva, una techno "esoterica" creata sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. In “Prince of Fire” la voce versatile e corrotta di Attila è quella di un oscuro sciamano in preda alle alterazioni di una mente in trance e nelle successive “False the Saints” e “Story of Flying” prende vita un mantra di energie occulte in cui sangue e spirito si compenetrano pericolosamente. “Brainsucker” è un brano ballabile di una techno ancora acerba e allo stato embrionale mentre in “1993” e “Again” (registrate dal vivo nel ‘92, rispettivamente a Budapest e a Szeged), il terrore diventa più che mai palpabile e prende forma in un suono penetrante e maledetto che, attraverso la modernità di synth e campionatori, risveglia suggestioni ancestrali e paure arcane. Tra le ritmiche indiavolate di “Spider” (registrazione live del ‘93 a Sopron), è invece la follia a prendere il sopravvento e a svelare stati di percezione distorti e poco rassicuranti; a chiudere l’album sono invece “Elsiettet Temetès” (sepolture premature) e “Tampa Baj”, le due registrazioni in studio più recenti (1994) che si accostano maggiormente a macabre ambientazioni dal sapore medievale. Ascoltare i Plasma Pool è un’esperienza trascendentale, un’immersione totale in un vortice di paura e mistero che coinvolge tutti i sensi, è la perdita del proprio controllo e della ragione, è l’alienazione da tutto ciò che ci circonda. È la follia. (Roberto Alba)

(Holocaust Rec.)
Voto: 90
 

Toehider - To Hide Her

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Experimental
Oh my God. Ripeto, Oh my God. Dico io, non può arrivarmi un cd così tra capo e collo, dalla copertina disegnata in stile psichedelico anni 70 e nascondere un capolavoro del genere. Ho per le mani l'album dell'anno ed è tutta colpa di questo genio, tal Michael Mills, australiano con le idee chiarissime e dal progetto ambizioso: diventare una rock star, di quelle vere, vecchio stampo. Tutto ebbe inizio nel 2008 quando uscì il primo EP e subito dopo inizio il Progetto, quello con la P maiuscola. Scrivere 12 album in 12 mesi (12 in 12). Direte voi, neanche i Queen ai tempi d'oro potevano farcela. Invece no, TOEHIDER scrive 67 (!!!) tracce in 12 mesi, a cavallo del 2009 e 2010. Dopo una meritata pausa, nel 2011 esce questo full length "To Hide Her" che conferma la sopravvivenza di Michael Mills dopo la pazzia del "12 in 12". Devo dire che ho prima ascoltato questo cd e poi sono andato a vedere la storia del gruppo (inizialmente del solista), altrimenti rischiavo di risentire della responsabilità di commentare questo capolavoro.La base di tutto è comunque la semplicità, infatti tutto parte da una base di prog con diverse influenze per singola traccia. Apriamo con "Oh my God, He's an Idiot", struggente pezzo guidato da chitarra arpeggiata e una voce incredibile, metà Bruce Dickinson e metà Justin Hawkins che entra dopo trenta secondi di silenzio assoluto e nasconde un testo volutamente banale ed ironico. Tutto questo viene spazzato via da "The Most Popular Girl in School" con una breve intro di chitarra pop-rock e da uno sviluppo in stile Queen (i cori sono inconfondibili) e addirittura un assolo di xilofono, improponibile per qualsiasi musicista, ma estremamente naturale per i TOEHIDER. Un tuffo di vent'anni in in cinque minuti netti. La mia preferita è "Daddy Issue", una canzone che potrei definire emotional-prog rock per lo sviluppo strumentale, Concludiamo con il pezzo che conferisce il nome all'album e che tira fuori le palle del gruppo, infatti ci sono dei riff heavy metal ignoranti (licenza poetica) mescolati a loop elettronici e basso che fraseggia in funky. Ecco un pò di cattiveria, ma con stile. Gli altri pezzi andateveli ad ascoltare, non perdete altro tempo a leggere e cliccate "Buy" da qualche parte su internet. PS: Bisogna dire che la macchina TOEHIDER è grossa, ottimi sponsor alle spalle e una gestione mediatica degna di gruppi più blasonati. Speriamo che la fama non li bruci, almeno prima di averli ascoltati per diversi album e visti dal vivo. (Michele Montanari)

(Bird’s Robe Records)
Voto: 90 
 

lunedì 23 luglio 2012

Ordeal by Fire - Roots and the Dust

#PER CHI AMA: Gothic Rock, The Fields of the Nephilim
Per questioni d’anagrafe non sono forse la persona più adatta per valutare un lavoro come “Roots and the Dust”, che rifacendosi ad un gothic-rock vecchia scuola, necessiterebbe quanto meno di un recensore più navigato di me! Tuttavia, penso non serva maturare alcuna anzianità per riconoscere una band con dei numeri e in questo senso gli Ordeal By Fire colpiscono già dal primo ascolto per la loro grinta e la loro preparazione tecnica. Non fatevi ingannare dal nome, perché non è di musicisti in erba che stiamo parlando e se negli ultimi anni avete sfogliato qualche fanzine italiana del settore saprete meglio di me che il gruppo nasce dalle ceneri dei torinesi Burning Gates, nome di culto della scena gothic-rock nostrana, che tra il 1996 e il 2002 ha rilasciato tre album: “Risvegli”, “Aurora Borealis” e “Wounds”. Ed è proprio dallo scioglimento ufficiale dei Burning Gates che il membro fondatore Michele Piccolo ha voluto ripartire, dando il via ad un nuovo cammino sotto il nome di Ordeal By Fire, assieme a Riccardo Perugini (chitarra), Fabrizio Filippi (basso) e XXX (batterista dei Right in Sight). “Roots and the Dust” è il primo passo discografico della band, un EP di ruvido e potente gothic-rock nel quale feeling e perizia esecutiva si incontrano magicamente; quattro tracce dalle tinte forti che ci accarezzano, ci percuotono... ci fanno sentire vivi! La sintonia tra i ragazzi degli Ordeal By Fire è talmente perfetta che nessuno degli strumenti riesce a prevalere sugli altri, anche se ascoltando l’ultimo brano “New Dark Age” (cover dei The Sound) risulta davvero difficile rimanere indifferenti alla prova superlativa del chitarrista Riccardo! Il cantato sottolinea invece con vigore ogni passaggio, destreggiandosi tra timbriche basse, ruggiti alla Carl McCoy e decise sferzate dalle tonalità più alte in cui l”ugola graffiante di Michele pare trovarsi più a suo agio. Forse in “Roots and the Dust” andava rifinito ancora qualcosa nella produzione ma per il resto quello degli Ordeal By Fire è un esordio più che convincente e ora rimane solo la curiosità di saggiare dal vivo questi brani che sembrano nati proprio per essere vissuti sul palco. (Roberto Alba)

(Innermost Phobia)
Voto: 75

Graveflower - Returning to the Primary Source

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride, October Tide, Paradise Lost
Già dalle prime note sono eccitato per questo album. Sinceramente non sapevo bene cosa aspettarmi, l'intro di "White Noise" è alquanto enigmatica e mi ha subito conquistato. Poco più avanti emerge nettamente la natura death/doom della band russa. Parto subito dicendo che la qualità audio è perfetta e riesce a far risaltare ogni strumento facendomi apprezzare ancor di più questo lavoro. Che la band non sia emergente (le cronache narrano di una loro formazione nel 2002) si sente subito dal songwriting che abbraccia sia lo stile decadente britannico che quello più cupo svedese. Le tracce sono originali e ben strutturate, colme di interessanti intermezzi e riff strazianti. La proposta artistica non si ferma però ai clichè del genere, in quanto riesce ad implementare parti originali come l'arpeggio mistico di "White Noise", gli armonici di "Rain in Inferno" o la cavalcata sludge della seconda parte di "Falling Leaves", traccia per questo paragonabile a "Shutter" dell'ultimo lavoro dei Forgotten Tomb. Nel loro piccolo i nostri compagni sono arguti nel non sfiancare mai l'ascoltatore. Questo full-lenght non è un susseguirsi di morte-depressione-claustrofobia-morte-romanticismo inglese, bensi presenta delle piacevoli parti in acustico dove i musicisti danno prova del loro lato più tranquillo e pacato. Anche se leggermente malinconiche queste parti contribuiscono a creare, oltre che una splendida atmosfera, uno stacco dall'aria pesante ed oscura che prevale sul disco. Insomma, si può dire senza paura che questi Graveflower sono veramente validi. Le idee non mancano, la tecnica pure, un’ottima produzione contribusce ad impreziosire il tutto. A parte l'artwork che non mi aveva convinto molto al primo approccio, direi che per il prossimo futuro mi aspetto molto da questo combo russo. (Kent)

(Solitude Productions)
Voto: 80 
 

Agruss - Morok

#PER CHI AMA: Post Black, Death, Crust, Behemoth, Dissection
Cheffigata. Vorrei liquidare così la recensione di questo "Morok" degli ucraini Agruss. Sono veramente senza parole dopo l'ascolto di questo lavoro. Felicemente sconvolto dalla loro opera mi metto a cercare le parole giuste per descriverla al meglio per poter trasmettervi quello che ho provato io all'ascolto delle prime note di questo trionfo della morte. Non è tanto la musica a far da padrone a quest'opera ma le atmosfere che essa produce. Beh comincio presentandoveli con informazioni reperite dalla rete, dato che le uniche parole del packaging sono solo la tracklist sul retro della confezione. Gli Agruss si formano nel 2009 a Rivne, e "Morok" è il primo disco di una trilogia riguardante la "vita" dopo il disastro di Cernobyl. Difatti l'opera è stata rilasciata durante il 26° anniversario della disgrazia sovietica. L'attitudine della band è orientata verso il crust, quindi due cantanti (uno specializzato in growl ed uno in scream), improvvisi cambi che portano a ritmi forsennati ed atmosfere malsane. Dai tag avrete già capito che ha qualcosa di speciale questa musica. Ma bisogna davvero ascoltare per riuscire a capire veramente ciò che vorrei raccontarvi. L'opera si apre con "Damnation", preludio colmo di un oscuro shoegaze, accompagnato da apocalittici cori che vanno a sfociare in una malvagità senza precedenti. Il primo impatto è un black/death imponente dal ritmo pestato, ma all'entrata del rullo giunge il black metal più totale, con lo screaming lacerante che poco dopo si alterna ad un growl gutturale, accompagnato da veloci fraseggi chitarristici. Con il blast beat si raggiunge l'apice della violenza di questo primo scorcio di dolore, stoppato da un breakdown che mi trasporta in un attimo di calma shoegaze per poi rifiondarmi di nuovo nella più totale brutalità crust. La traccia, alquanto prolissa e sconvolgente come introduzione di quest'opera ci lascia, scemando con un sottofondo costituito da un ribollio inquietante che apre la seguente "Morok". La title track si presenta dalle tinte lugubri per poi trasformarsi in un death metal tecnico e corposo che in alcune occasioni si maschera di depressive. La parte centrale del disco presenta più compattezza compositiva con "Punishment for All", "Fire, the Savior From Plague" e "Ashes of the Future". Tracce capaci di concentrare al massimo il tecnicismo death, i gelidi riff del black e la devastazione del crust. "When the Angels Fall" sinceramente non m'ha preso subito come le altre, la ritengo la traccia più core per via dei vari breakdown e della prevalenza del growl, tuttavia ognitanto scopre delle parentesi con notabili sfuriate crust e tremolo picking black. Ora inizia la triade di "Under the Snow". Tracce che racchiudono la parte più shoegaze, depressive ed ambient della band, con episodi che a tratti raggiungono anche un funeral doom, in primis la parte III. Non viene però accantonata la vena più malefica del combo ucraino che puntualmente riprende il predominio sulle composizioni. Gli Agruss hanno saputo fondere vari generi ed ambientazioni assai ostiche, difatti ricordano i gruppi più disparati all'ascolto: breakdown in stile Molotov Solution, passaggi alla Nile, muri sonori tipici dei Nagflar o Behemoth, rabbia rifacenti ai Iskra e Martyrdod, insieme ai riff più freddi e malefici di Craft e Ancient. Ma i gruppi che più mi sovvengono come elemento portante di tutto sono i Dissection per come riescono ad amalgamare il black più grezzo alla potenza del death e i Black Kronstadt per la struttura musicale (ad esempio le classiche intro narrate o le malsane atmosfere) e lo spaziare dalle parti più tranquille al crust più cieco e devastante. Beh, che dire, sono stato veramente sorpreso fin troppo positivamente da questo debut album. Anche se non amante delle sonorità brutal death, mi son trovato davanti ad un prodotto veramente ben congeniato che merita l'appoggio di tutti gli amanti delle sonorità estreme. (Kent)

(Code 666)
Voto: 85
 

Mind Split Effect - Introspection

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Anathema, Porcupine Tree
Mind Split Effect è un progetto solista nato nel 2011 dal francese Maxime Defrancq che partorisce questo "Introspection". Attualmente i Mind Split Effect sono composti da quattro elementi e stanno lavorando ad un nuovo cd. L' autore di "Introspection" dichiara che la sua musica trae inspirazione dalle opere di Jack Kerouac, scrittore americano e fondatore del movimento Beat. Non starò qua a dire se l'influenza si sia riversata nello stile dei Mind Split Effect e in che modo, piuttosto andiamo al sodo e vediamo cosa offrono in termini di musica. So di ripetermi, ma ho già scritto che i progetti solisti sono facilitati dalle nuove tecnologie e se uno se la cava con software vari , può sopperire al fatto di mandare avanti un progetto da solo. Alcune cose sono comunque da rivedere, come il basso sintetizzato in "My Mind Out of Reach", troppo sterile per sembrare vero e poco convincente se si volesse credere alla raffinatezza tecnica. La canzone poi comunque ha un ottimo svolgimento, con suoni freschi e la voce che aiuta a creare un ottimo amalgama. Cinque minuti con diversi stacchi, assoli e struttura ritmica coinvolgente. "Leaving my Body" inizia con un bel arpeggio di chitarra che poi vi fa pentire di averlo pensato quando entra la solista, dal suono veramente poco convincente. Il pezzo rimane lento per tutta la sua (breve) durata. Ho apprezzato anche l'uso della chitarra acustica in "...Ataraxy" e "On the Road", sempre per una continuità nella freschezza dei suoni, aiutati anche dal pianoforte incastonato in modo perfetto. Sembra quasi che la cura dei dettagli sia altalenante in questo "Introspection", il nostro Maxime sembra metterci l'anima, ma si vede che la mancanza di un gruppo alle sue spalle, non permetta il confronto interno e quindi il miglioramento di certi aspetti. Sarà per questo che ora i Mind Split Effect sono in quattro? Vedremo, attendo il prossimo lavoro. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 65 
 

mercoledì 18 luglio 2012

A Prison called Earth - Rise of the Octopus (Realistic Tale of a Sprawling City)

#PER CHI AMA: Progressive Symphonic Metal, Dol Ammad
Concept demo cd davvero interessante per questa band di Nantes, che propone un sound di non facile ed immediata catalogazione. Un lavoro suddiviso in 3 parti, la cui iniziale, “Subterranean Evolution” ha un piglio progressivo, che trova il primo vero spunto particolare, a cui realmente ho postato l’orecchio, in “The Secret Transmission”, dove le vocals di Florent, sembrano trarre qualche ispirazione dal rap; niente di scandaloso, anzi, ma qualcosa di piuttosto innovativo. “An Army of Iconoclastic Robots” invece mi è ronzata un bel po’ nella testa per le sue cibernetiche tastiere, quanto mai spettrali e molto eighties, che coniugato ad un riffing squisitamente suggestivo, mi ha rinvenuto alla memoria gli esordi dei cechi Master’s Hammer. Certo siamo lontani anni luce dalla proposta black epic del combo est europeo, ma la vena che si scorge in taluni frangenti, può essere riconducibile a “Jilemnický Okultista”. Chiaro che poi quando ascolto “Contagion of Anger”, mi accorgo che siamo molto più vicini al rock piuttosto che a sonorità estreme, complice le vocals assai pulite e rappate. Abbandonata la prima parte, ci addentriamo in “The Great Awakening” dove sembra prevalere la componente heavy metal, anche se le orchestrazioni presenti, mi fanno ipotizzare una qualche vicinanza del sound dei nostri, a quello dei greci Dol Ammad e alla loro proposta sinfonica. Tanta carne al fuoco in questa lunga sfilza di tracce (17), che portano la durata del demo a più di 50 minuti. In “Rise and Fall of Steam Babylon”, terza parte del disco, echi di Orphaned Land e Dream Theater, completano un’opera sicuramente ambiziosa, che non potrà non far gola a tutti coloro dotati di un palato un po’ più raffinato rispetto la media. Sicuramente c’è ancora molto su cui lavorare, ma “Una Prigione chiamata Terra” è sicuramente sulla giusta strada per confezionare qualcosa di realmente interessante. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

lunedì 16 luglio 2012

Rainy Days Factory - It’s Your Time

#PER CHI AMA: Post Rock, Dark, Fields of the Nephilim, The Cure, Mogway
Buffo, avevo contattato l’Ethereal Sound Work per l’album dei Vertigo Steps; lo ricevo, con questo bonus cd in omaggio e mi ritrovo a recensire per primo proprio quest’ultimo, un trio proveniente da Lisbona, chiamato Rainy Days Factory. 4 song per quasi 20 minuti di musica. Un sound che trae origine dal dark anni ’80, nella vena di The Cure e Fields of the Nephilim, che colpisce per quella sua linea di basso già dall’iniziale “All About Love”, cosi malinconica, grazie alla voce oscura di Oscar Coutinho. Il basso apre anche la seconda “See the Light”, seguita immediatamente dalla voce di Oscar e progressivamente da un’eterea chitarra e dal drumming punkeggiante di Johnny. Mi sembra di essere catapultato ai primi anni ’80, una sensazione piacevole di deja vu, che colpisce per la semplicità e la linearità dei suoi suoni. Nulla infatti di trascendentale c’è nella proposta di questi Rainy Days Factory, se non quella verve uggiosa, emotivamente instabile, che ha da sempre contraddistinto le band British che in passato hanno proposto questo genere. Ci avviamo già lentamente verso la conclusione dell’EP e “Autistic Eyes”, non fa che confermare quanto di buono abbiamo ascoltato fin qui anche se mi sembra che la band nutra qualche difficoltà nel diversificare la propria proposta, lasciando sempre ampio spazio al pulsare magnetico del basso e alla voce del buon Oscar, i protagonisti di questo “It’s Your Time”. A chiudere ci pensa “Sorry”, altro esempio di sound tipicamente dalle tinte rossastre, tipiche del tramonto, della decadenza, della stagione autunnale, della fine di un moto impetuoso che mi ha cinto gola, anima e cuore. Deprimenti. (Francesco Scarci)

(Ethereal Sound Works)
Voto: 65