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giovedì 28 novembre 2013

Ghost at Sea – Hymns of our Demise

#PER CHI AMA: Post Black, Ulver, Wolves in the Throne Room, Darkthrone
In tutta onestà, ho avuto qualche momento di difficoltà nel digerire a priori l’idea che il disco in questione (peraltro difficilmente identificabile come opera prima), prodotto da questo due esordiente proveniente dal Nord America (sodalizio Kentuky più Indiana), si serva esclusivamente di una drum machine: non tanto per il fatto in sè di utilizzare una macchina invece della pedalante potenza umana (basti vedere ciò che i Darkspace hanno partorito servendosi esclusivamente di questo espediente), quanto piuttosto perché i ragazzi propongono un genere che si nutre di umanità e che, a parere di chi scrive, meriterebbe quel tocco che solo un martellante batterista bipede riesce a dare ad un lavoro come questo. In sostanza, la perfezione della macchina rappresenta una minuta macchia, una piccola nota di demerito, laddove si avrebbe preferito sentire quella minima sbavatura o quell’indugiare voluto sul pedale o sul rullante di pertinenza esclusivamente umana e così appagante... ciò nononstante, prendete tutta questa manfrina iniziale per quello che è, vale a dire una pippa mentale da appassionato, e non un elemento limitante la fruizione di questo disco. Si tratta di un lavoro che tanto deve alle influenze indicate alcune righe sopra, dove grandi mostri del black metal si incrociano con quella nuova corrente di musica nera atmosferica che, in realtà, tanto di nero non ha se non nelle sonorità. Quale che sia la vostra idea in merito, sicuramente non si può rimanere insensibili di fronte alle note sparate a mille di questo disco che si apre nel migliore dei modi, con una chitarra ipnotica ad invitarci a guardare nel pozzo in cui saremo risucchiati di li a poche battute, per precipitare in questo viaggio in discesa di luci ed ombre. “A Fitting End To Human Suffering” ne rappresenta solo l’inizio, pezzo ben congeniato dove i blastbeat si alternano ad arpeggi di carta vetrata ma senza mai dimenticare la matrice melodica che caratterizza ogni traccia. Si passa quindi a “Wanderer”, in origine inizialmente pezzo distribuito come “singolo” e qui rivisto e riadattato ad un contesto di full-lenght, decisamente più lineare nel suo incedere marziale rispetto all’opener. Meritevoli di nota sono poi “Decay” e la sua naturale proscuzione in “The Weight of 1,000 Suns”: un ribassato ruggito di chitarra la prima, quasi a fare da intro alla seconda, caratterizzata da un incedere fantastico come piglio e ritmo nel suo intreccio di voce, chitarra e batteria, dove è praticamente impossibile non battere il tempo con i piedi, per buona pace dei vicini di casa! A chiudere il tutto è “Through the Shadow that Binds Us”, forse il pezzo più black-oriented e grezzo in senso classico (nessun orpello, nulla oltre i singoli strumenti e voce a guerreggiare tra loro), al punto da risultare quasi discostato dal resto del disco: il minutaggio importante (oltre i 14 minuti) probabilmente lo penalizza in ultima analisi e forse sarebbe stata più efficace qualche prolissità in meno, ma non mi sento di criticare la band per questo. Ripeto, stiamo parlando di un’opera prima ed un plauso va sicuramente ai due ragazzi per la maturità della composizione, pertanto quelle che possono essere delle limature da fare qua e la sono più che tollerate. Insomma, la drum machine ha fatto anche stavolta il suo sporco dovere, però il sottoscritto confiderà sempre nell’arrivo di un batterista “organico”. Ad ogni modo, avanti così! (Filippo Zanotti)