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sabato 24 gennaio 2015

Doomed - Our Ruin Silhouettes

#PER CHI AMA: Death/Doom
Doomed è il progetto di una mente oscura e geniale, tal Pierre Laube, che vive la sua vita terrena in Sassonia, precisamente a Zwickau. L'idea nasce nel 2011 e 'Our Ruin Silhouettes' è il terzo album da lui prodotto, recentemente disponibile anche in vinile e distribuito dalla Solitude Productions. La band si arricchisce di cinque elementi per l'esibizione live e precisamente i membri sono: Yves (Lead Guitar), Andreas (Drums), Frenzy (Bass) e Pierre (Rhythm Guitar & Vocals). Il progetto affonda le sue radici nelle tetre atmosfere doom e death metal, quindi ritmiche lente, pesanti e ricche di basse frequenze, riff oscuri e cantato rigorosamente in growl. Ad arricchire i brani si aggiungono campionamenti ambient provenienti probabilmente dai migliori film horror che dovete sperare di non aver visto mai (oppure si, se amate il brivido). Tutto ciò aumenta la già opprimente sensazione di ansia che si ha nell'ascoltare le sette tracce di questo 'Our Ruin Silhouettes'. L'album apre con "When Hope Disappears", titolo che anticipa già il mood del brano e che viene subito confermato dall' intro di campane ed oscuri cori liturgici. Da lontano si sente il crescendo della ritmica che esplode con la chitarra e basso. Il ritmo avanza lento e demoniaco per cinque minuti abbondanti, con il successivo inserimento di riff dissonanti e doppia gran cassa. Poi gli arrangiamenti aumentano di potenza e portano alla conclusione un brano che ha ottenebrato la nostra mente per quasi nove interminabili minuti. "The Last Meal" riprende la precedente struttura, aprendo con un'introduzione fatta di synth e dalla timbrica simil drone. La traccia si trasforma in pochi secondi in un lungo volo pindarico tra death e black metal, sempre intriso di atmosfere oscure e cariche di ansia. Verso la metà il brano cambia direzione con un break più lento e dal feeling epico, che fa quasi sperare in un ravvedimento dei Doomed. In particolar modo ho apprezzato "Revolt", dove le sonorità sono meno cupe e riprendono quelle già usate da band come i Katatonia. Il cantato alterna sezioni growl a parti quasi sussurrate, seguendo l'andamento della traccia che ne svela una doppia identità: la prima potente e tenebrosa, la seconda invece ricca di riff melodici e atmosfere più distese. Probabilmente l'idea era di rappresentare la duplicità della realtà. L'album è ottimamente registrato e l'utilizzo di campionamenti e loop ambient aumenta la profondità artistica di questo lavoro, regalando un chicca che verrà sicuramente apprezzata dagli amanti del genere. I suoni sono pressoché perfetti, i Doomed hanno fatto un gran lavoro e possono ritenersi soddisfatti, oltre al fatto che tecnicamente tutti i brani sono costruiti ed eseguiti in modo ineccepibile. Un album che mi sento di consigliare a tutti, Natale è passato e potete quindi tornar ad essere cattivi come prima. (Michele Montanari)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 85
 

lunedì 19 gennaio 2015

Metal Castle – The Battle for Metal Island

#PER CHI AMA: Folk metal, Korpiklaani, Pogues, Tenacious D
Progetto goliardico e burlone ben realizzato dalla band finlandese Metal Castle che al loro secondo album (a breve uscirà una già annunciata nuova assurda avventura musicale intitolata 'Tea Nation', già disponibile in preorder su bandcamp!), piazzano un lavoro autoprodotto di rara e inconcepibile genialità... Basato su una storia inverosimile che tratta la riconquista della propria isola (Metal Island) da parte di un popolo sottomesso ad uno oscuro signore. Chi si avventura all'ascolto del cd, entrerà progressivamente in un mondo musicale concepito come opera narrativa (per cui è difficile citare una qualche song in particolare, va ascoltato tutto di un fiato), scritta con i dettami del rock. L'album si muove su coordinate care ai film di Monty Pyton e trae spunto dalle fiabe per bambini, con l'aggiunta di una voce narrante (Peter “the Cake” Baker) che introduce e spiega le incredibili vicende dello strampalato esercito raccontato. L'album è illogicamente bello, poiché alle orecchie di un appassionato di metal moderno risulterà inascoltabile, mentre se visto con gli occhi comici di Tenacious D, risulterà irriverente, stralunato e fantastico. Il suono vintage e l'attitudine di non prendersi troppo sul serio la fanno da padroni. I nostri menestrelli non dimenticano mai di essere comunque dei buoni musicisti e lo dimostrano seminando qua e là assoli e chicche stilistiche molto ricercate, rendendo l'intero album un forziere d'oro tutto da scoprire. Il piano fantasy in cui l'album si muove, sembra essere imbevuto di una miscela folk metal, costellata di acidi ed LSD con un gusto particolare verso il concept stile progressivo degli anni settanta. La forma musicale è difficilmente spiegabile. Possiamo dire che la band finlandese sta al metal come gli Stranglers di 'Rattus Norvegicus' stavano al punk nei tardi anni settanta. Così troveremo un violino intrecciato con tastiere uscite da qualche film psichedelico dei 70's, con ritmiche metal dal suono aggressivo tanto quanto lo potevano essere gli Anvil, gli Iron Maiden del primo album e i Black Sabbath di un tempo, con spunti folk da osteria (vedi Korpiklaani) e un cantato splendido a metà tra Shane Mcgowan dei Pogues, Paul di Anno di "Prowler" e tanta sottile, geniale visionaria stranezza che li accomuna alla già sopra citata mitica band inglese (riuscite ad immaginare gli Stranglers in veste folk ?). Una strada musicale divertente e fatta per divertire, con ingegno e intelligenza, con quel taglio da film di serie B e novella per bambini metallari che ricorda con i dovuti paragoni e differenze di genere, la novella "The Angel and the Soldier Boy" dei Clannad. 'The Battle for Metal Island' è un album consigliato a metallari poco arrabbiati e in pace con se stessi, piacevolmente disturbati dalla sindrome di Peter Pan e per intellettuali amanti del rock in qualsiasi salsa esso venga proposto. (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 75

Holotropic - Permeate

#FOR FANS OF: Progressive/Groove Metal, Meshuggah, Animals as Leaders
From the seemingly endless fertile grounds of Slovakia, this progressive-minded piece tends to wholly envelop the progressive side of their sound with a dense, multifaceted album that really has more going for it than it seems. Heavily influenced by both the Djent and Technical Death Metal realms while adding plenty of experimental marks, Middle-Eastern harmonics and just plain schizophrenic leanings, this collision of extremity results in some extremely off-the-wall arrangements here with the mixture at times never really sounding all that cogent to heavy metal styles yet that experimentation is the bands’ greatest strength here at being able to somehow mix all these different styles together into what does amount to a cohesive sound at times. This is really more of a songwriting tour-de-force than it is a performance record since this one does wonderfully show how to effectively change from all these different styles at once, though naturally the ability to effectively go there is what makes this work as well. Some of the songs are overall hit-or-miss, but the ability to keep this interesting and not descend into mindless meandering is a definite strongpoint. Intro ‘Judge’ opens with clanking folklore instrumentation before settling on ravenous riffing, dynamic rhythm changes and dynamic drumming that really sets the stage for the bands’ explosive attack to come. Likewise, ‘Scintillate’ again works the Middle-Eastern vibes into the fray before using the bands’ dexterous drumming and sweeping riff-work to create a finely-honed and dynamic attack that just seems lacking in urgency throughout here. The wacked-out ‘Rupture’ features jazzy lounge-music to open into djenty rhythms with plenty of chugging patterns, pounding drum-work and irregular riff-work to make for a veritable sweeping style that continually keeps shifting around into such different patterns that there’s a lot to like about how well this one integrates all the parts into a solid whole. The instrumental ‘Wysinati’ provides different echoes with moody guitar-trinkling and jazzy drumming while the buzzing bass-lines offer up their most full-on Djent-inspired release here, though if intended for a breather it’s certainly placed rather oddly this early into the track order. ‘Traveller’ offers dynamic Middle-Eastern rhythms against groove-filled drums-blasts, swirling chug rhythms and continues the Arabian influences throughout the different rhythms and arrangements that still remain rooted in their Djent-inspired background, effectively making this the album’s central highlight and greatest showcase of their overall styles. ‘Tantrums’ comes off like generic Meshuggah-inspired Djent/chugging with technical patterns and pounding drumming swirling throughout, much like ‘Filters’ though the former is a tad livelier than the latter and is a better effort due to that. The short instrumental ‘Hunch’ is another short breather with folklore-ish riffs and droning atmospheres which sets up the album’s massive epic, ‘Integral’ which is another outstanding piece of progressive-minded work by managing to incorporate clean vocals into their extreme sound as the deep chugging patterns, heavy Djent-influenced arrangements and long-winded arrangements sweep and soar through twisting, long-winded rhythms here that shift and turn into various dynamic patterns and keeps the bands’ penchant for challenging arrangements intact. This makes for an exciting conclusion that should help them expand and grow in the scene for years to come with this kind of innovation and extremity mixed effectively together. (Don Anelli)

(Self - 2014)
Score: 85

domenica 18 gennaio 2015

Rosàrio - Vyscera

#PER CHI AMA: Stoner/Alternative
I Rosàrio sono un quintetto padovano, Montagnana per l'esattezza, zona che concentra una particolare attività musicale grazie ad un live club/sala prove/studio di registrazione in continuo fermento (Circolo BAHNHOF) e l'etichetta In the Bottle Records, giovane ma già con ottimi lavori all'attivo. La band nasce nel 2013 e accoglie musicisti di altre band come Neither e Lorø, probabilmente alla ricerca di un progetto alternativo che permetta di sviluppare idee che altrimenti non troverebbero spazio nei rispettivi gruppi. 'Vyscera' segna l'esordio del gruppo e si presenta in un fantastico metal box contenente sette tracce dalla spinta crescente, un vero pugno in faccia dato dalle basse frequenze generate dal bassista Fabio e dal chitarrista baritono Riccardo che è venuto a dar man forte a Nicola. Il mix è aggressivo, stoner e psichedelia ben amalgamate tra loro con un tocco di sludge e doom che neanche chef Ramsay sarebbe stato di in grado di far meglio, culinariamente parlando. L'album apre con "Dome", song dai riff in classico stoner alla Truckfighter e Kyuss, potenti e decisi quanto una bordata. Il vocalist Alessandro si inserisce bene negli arrangiamenti e grazie al suo bel timbro non troppo profondo, arricchisce le tracce rendendole dinamiche. "Caravan Kid" non smentisce l'idea che ci eravamo fatti e continua sull'onda stoner, questa volta con una marcia in più visto che il batterista Stefano dà sfogo al suo bisogno incontrollabile di picchiare ad una velocità assurda, aggiungendo un breve break finale che permette all'ascoltatore di riprendere fiato. Brano che dura appena centocinquanta secondi, un peccato perché non appaga la nostra dipendenza da riff desertici, ma in questo modo i Rosàrio si differenziano dalla moltitudine di band che a volte ci affliggono con brani lunghissimi e ripetitivi. L'album chiude con il brano"Inner", caratterizzato dall'intro con didgeridoo, una valida alternativa al sitar ormai abusato per creare atmosfere tribali/folk. Dopo pochi secondi arriva l'esplosione dominata dai riff di chitarra che vengono accompagnati con forza dagli altri strumenti, per regalare un vero e proprio muro di suono. Nonostante l'album non brilli in termini di creatività e qualità di registrazione, ritengo che sia assolutamente da avere nella propria collezione. Inoltre regalatevi almeno un live dei Rosàrio, l'impatto sonoro sarà simile a quello dei Sunn O)))), quindi se non siete avvezzi, prendete contromisure adeguate adottando un qualsiasi dispositivo di protezione dell'udito o rischierete di soffrire di malessere, capogiri e nausea da elevato numero di decibel! (Michele Montanari)

(In the Bottle Records - 2014)
Voto: 80

Merkabah - Moloch

#PER CHI AMA: Experimental Avantgarde/Jazz/Noise, Zu, Yakuza, John Zorn  
Album splendido e fantasmagorico, apoteosi della follia, invenzione divina e valchiria selvaggia del modo più libero di fare e intendere la musica, questo è 'Moloch' il nuovo album dei polacchi Merkabah. Un infinito di colori in musica, tecnica e genialità al servizio della pazzia compositiva, venata di jazz e post-core, la perfetta colonna sonora per un'opera tratta dal teatro dell'assurdo di Samuel Beckett. Tutto questo mi spaventa ma al tempo stesso mi commuove, rendendomi particolarmente felice di tenere tra le mani un cd cartonato dal digipack stupendo, dal nome e titoli illeggibili, con all'interno un ricco booklet pieno di foto astratte e nessun'altra notizia riguardante la band. Sentire con quale angelica irruenza e demoniaca violenza il suono si scaglia nell'aria, con quale energia ci rende alieni alla realtà che ci circonda, proiettandoci verso fughe mentali senza freni, caotiche e sconvolgenti, entusiasti di correre all'impazzata verso il nulla. Prendete il progressive rock dei Catapilla fino ad arrivare al metal d'avanguardia di Yakuza, unitelo alle stratificazioni dei Soft Machine nei migliori anni del Canterbury sound, gli Zu di 'Carboniferous', il progetto capolavoro 'Painkiller' a nome John Zorn/Bill Laswell/Mick Harris e avrete soltanto una lontana idea del cosa aspettarsi da questo capolavoro. Guidato da un sax che supera i confini della realtà, meno violento del più famoso Zorn ma più stralunato, nevrotico, psichico e ipnotico, sulle orme di un moderno James Chance (vedi James Chance and the Contortions), padrone assoluto della scena strumentale, che cavalca una schizzatissima onda sonora prodotta da un combo che suona come se i Napalm Death di 'From Eslavement to Obliteration' si trovassero alle prese con un brano dei King Crimson, il tutto con un suono naturale, raffinato e graffiante, caldo e avvolgente sulle coordinate soniche degli Anekdoten di 'Nucleus'. Licenziato nel 2014 via Instant records, 'Moloch' è un vero gioiellino da avere a tutti i costi. Otto tracce strumentali per perdere la cognizione del tempo e della morale, da "Reed Idol" fino alla conclusiva "Ah! Ça Ira" in un album altamente tossico che annienterà la vostra stabilità mentale grazie a una tecnica compositiva straordinaria unita ad una esecuzione magnifica. Non cercate di immaginare il solito album dai dogmi jazz prescritti e virtuosismi a go go inutili, questa è arte allo stato puro... ovvero l'Avanguardia per antonomasia. (Bob Stoner)

(Instant Records - 2014)
Voto: 95

sabato 17 gennaio 2015

Isa - Songs of the Dead

#PER CHI AMA: Black Folk, Summoning, Negura Bunget, primi Ulver 
Detto che nel web le informazioni circa questa band sono parecchio scarse e confuse, posso solo dirvi che il combo di oggi arriva da Novosibirsk, nel distretto siberiano della Russia. In internet si identificano col semplicissimo monicker I, Iza o Isa, che poi starebbe per ghiaccio (ice), ma in questo caso identificherebbe la runa ISA, che racconta l'impermanenza delle cose che come le forme del ghiaccio stesso, si sciolgono e svaniscono, simbolo del mondo interiore, della solitudine, dell'introspezione, ma anche della tristezza e della malinconia. I nostri debuttano con questo album, grazie alla Autodafeprod, interessante etichetta moscovita, offrendo del sofisticato e atmosferico folk black. Il platter si apre con la lunga title track, "Songs of the Dead" (titolo e testi ovviamente sono in cirillico), traccia che si muove su ritmi sognanti e i cui tratti black si limitano al solo cantato abrasivo di Alexandr. Tutto il resto invece ha un che di fatato con l'utilizzo di strumenti folk, flauto (a cura di Artem) e tastiere che rendono il tutto cosi lontano e fuori da ogni tempo. I due giovincelli russi strizzano l'occhiolino ai Summoning, velati da un tocco depressive, e come dargli torto, se poi la piacevole miscela sonora che ne esce dai solchi di quest'album, ha il grande pregio di nebulizzare i miei pensieri e farmi sprofondare in un mistico sonno. "On the Knife's Blade" prosegue inseguendo fantastiche creature mitologiche in paesaggi bucolici, dai colori accesi e non di questa terra. Summoning si, ma anche una versione dei Negura Bunget al rallentatore o i Burzum più meditativi, senza dimenticare Pazuzu e gli Ulver di 'Kveldssanger'. Delicate chitarre pennellano fatate melodie ancestrali, per cui si sarebbe facile e scontato immaginare la musica degli Isa come colonna sonora dei momenti più magici della saga de "Il Signore degli Anelli". Andando avanti nell'ascolto ci si imbatte nell'oscura atmosfera di "Harvest Glow", cupa ma dall'aura fiera in cui a tener banco rimangono le tastiere, che guidano il flusso emotivo dell'intero lavoro. "Back to Home (The Edge of the Earth)" abbassa ulteriormente i toni, neppure ce ne fosse stato bisogno, e con morbide melodie e voci sussurrate, si aggrappa dolcemente alla nostra anima, anche se il suono di corvi svolazzanti rivela un presagio di morte, che si materializza nella funesta melodia di sottofondo e nel cantato tagliente del vocalist. Lentamente (le tracce superano tutte gli otto minuti) ci avviamo verso la conclusione: chitarre, sempre in tremolo picking, aprono "Winds Brothers", brano in cui gli innesti di flauto dolce duettano con la voce e il suono tribale della batteria si avvinghia a quello di malinconiche tastiere e chitarre, qui leggermente più taglienti, per quanto voglia dire qualcosa questo aggettivo in un album, dove non c'è mail il benchè minimo accenno a velocità o pesantezza. "Memory of the Flooded Villages (Farewell)" è il pezzo in coda al disco in cui più forte è la componente ambient (che già si era ritrovata qua e là nel corso dell'ascolto di 'Songs of the Dead'), anche se poi l'intesità delle chitarre va via via aumentando, arricchendosi di ulteriori elementi secondari (suoni orientali) che rendono il tutto più complesso e catartico, ma regalandomi anche le ultime preziose emozioni di una release, apparentemente di facile approccio, ma alla fine non cosi facile da digerire. Sontuosi. (Francesco Scarci)

(Autodafe Prod - 2014)
Voto: 75

mercoledì 14 gennaio 2015

My Shameful - Hollow

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Shape of Despair, Thergothon, Skepticism
Dagli amici russi della MFL Records, giunge tra le mie mani il nuovo lavoro dei finlandesi My Shameful, band che probabilmente ho già incontrato sulla mia strada in un passato assai remoto. Il trio scandinavo arriva con 'Hollow' alla sesta release in quasi 15 anni di militanza nell'underground (del 2000 i loro primi 3 demo), non scostandosi musicalmente di molto rispetto ai precedenti funerei lavori. 'Hollow' include otto tracce per poco più di un'ora di musica devota agli abissi profondi, senza dimenticarsi tuttavia di propinare violente sfuriate death. Ecco quanto accade già nella ritmata opening track, "Nothing Left at All", song dall'aura macabra e dotata di una certa atmosfera mefitica che rende la lugubre proposta dei nostri, più accattivante e meno ostica da digerire. Stiamo parlando di funeral doom quindi difficile attendersi una certa dinamicità di fondo, che trova modo di manifestarsi qua e là in selvagge galoppate che fanno da contraltare a laceranti e lunghi tratti di buio pesto, che ci fanno letteralmente sprofondare nelle tenebre. Marziale è l'incedere della title track, in cui la corrosiva voce di Sami Rautio, squarcia l'avanzare offuscato e dilatato del combo nordico. Le nuvole si addensano ulteriormente con "And I Will Be Worse", traccia che mostra un ottimo songwriting e buone soluzioni melodiche nelle linee di chitarra e che non disdegna nemmeno un paio di accelerazioni, ben assestate come un pugno nello stomaco. "Hour Of Atonement" si conferma pesante e claustrofobica più delle altre, offrendo anche una certa dissonanza di fondo a livello ritmico che già avevo percepito nella seconda traccia. Con i primi 3 minuti e trenta di "The Six" si continua su questo binario costituito da ritmiche ossessive e deprimenti; poi un intermezzo ambient mi consente di distaccarmi cerebralmente da quell'universo che lentamente mi stava inghiottendo e di ripartire con delle ritmiche un po' più ariose, passatemi il termine, e devastanti. Dopo due minuti di suoni lontani, attacca "Murdered Them All", brano dalla melodia definitivamente più catchy che in un disco funeral doom, magari stona un po', ma che in questo contesto consente di prendersi una bella boccata d'ossigeno, prima di inoltrarsi alla scoperta delle ultime due canzoni. "No Greater Purpose" è la settima song, lunga e deprimente, mentre la conclusiva "Now And Forever" ci concede gli ultimi catartici e strazianti minuti di un lavoro che certamente farà breccia tra i fan della band e tra gli amanti di un genere, non cosi accessibile alle grandi masse. Un macigno sullo stomaco. (Francesco Scarci)

(MFL Records - 2014)
Voto: 70

martedì 13 gennaio 2015

Release The Long Ships - Wilderness

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze Strumentale
Dall'Ungheria ecco arrivare il progetto Release The Long Ships, misteriosa one man band dedita a un post rock strumentale. Il disco si apre con “Mist Pillars”. Song magnetica, ingorda di attenzione. Abusa di chitarre che distorcono le melodie, facendole diventare ballerine ubriache dalle ritmicità distoniche. L’intercalare sussurrato, è solo una proiezione anterograda all’epilogo metal. “Snow”: per chi non è mai stato in Giappone, si tolga i vestiti e indossi un chimono e sandali di legno, preparandosi ad inchini beffardi d’innanzi a tocchi sonori che presto sconvolgono le atmosfere che profumano di pesco, per diventare belve inferocite, il cui pasto sono solo timpani vergini a tortuosità impreviste. Sotto al chimono, spero abbiate tenuto i vostri abiti dark che odorano di borchie e di pelle nera. Vi faranno sentire a casa. “So Murmured the Wide Seas”. Seguo questa traccia che è senza inizio e senza fine. Nessuno può trovare questa via, a meno che, non se ne voglia scoprire la mappa, tra rovine oceaniche e maledizioni così ben descritte dal fondale offuscato che dipana rumori, poi suoni, poi velleità, sino a tracciare con le ultime sonorità un manto che oltraggia il senso e l’equilibrio. Questo brano termina scostante, così come è iniziato. Trovarne il senso, sarebbe renderlo contro natura. Lo abbandono. “Aether” è estasi metallica, oscillante. I suoni divengono cavi d’acciaio vibrante, il sottofondo mescola un reiterare ritmicamente orientale. L’uscita di scena dei suoni è prematura, nostalgica. Viene da allungare le braccia per trattenere il più a lungo possibile questa essenza in musica. “I Am the Sun”. Non posso che ammansire le palpebre. Chiudere gli occhi. Cercare la provenienza dei suoni. Inutile. Le sonorità sono talmente eclettiche, da creare una dimensione sonora multipla, per poi, scemare. D’improvviso gongola la musica. Per un attimo ancora, romanza su se stessa la musica. Poi il gongolio e il romanticismo si fondono in destreggi metallari che ne salvano l’anima dark senza nessuna pietà per i pregressi. Colpi inflitti e mortali annientano ogni intenzione aliena dal metal. “The Heart of Mountain”. Questo brano è un baccanale di note che sembra calare come nebbia densa su terra arata. Scava la musica. Rimangono in superficie i pensieri. Si fondono i pensieri alla terra, come un ossimoro improbabile, che sublima come foschia in un cimitero di anime erranti. Chiude “I Have Never Seen the Light”. La premessa è di un requiem metallico, sospinto da eclissi sonore sospiranti. Respiri corti. Suspance come suoni. Attese contratte e poi destate da rivoli animosi mascherati in suoni suadenti. Contrazioni. Gorgheggi strumentali. Mescolanze afrodisiache. Nulla ora mi impedisce di perdermi e vorrei che il brano non finisse. Il compendio è silenzioso. I brani sono strumentali e troppo brevi. Bellissimi. Fossi in voi li aggiungerei nella playlist del Black Friday. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 80