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lunedì 9 settembre 2013

Bernays Propaganda – Zabraneta Planeta

#PER CHI AMA: Alternative, Post-Punk, Gang Of Four
Terzo album per i macedoni Bernays Propaganda che, forti di un’intensissima attività live in tutta Europa, continuano sulla strada già tracciata dai precedenti lavori, ovvero un “punk-funk” piuttosto tirato, e fortemente caratterizzato da quelle che sono le tematiche sociali care al gruppo, gravitante in un’orbita “anarco-ambiental-femminista-straight edge”. La loro proposta musicale si basa su una forte impronta new wave/post punk, con ritmiche incalzanti e molto “ballabili”, linee di basso belle spesse, chitarre funkeggianti e (non troppo) dissonanti e una voce femminile a declamare con convinzione i propri testi, spesso e volentieri nella lingua madre. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, dato che i Gang of Four queste cose le fanno da una trentina d’anni, ma l’inizio è molto incoraggiante, con le sferzanti “Progrešno Zname” e “Makedonski Son” che mostrano un bel piglio allo stesso tempo danzereccio e rumoroso al punto giusto. Poi, però, spiace dirlo, c’è qualcosa che sembra incepparsi, e la macchina non gira più del tutto a regime. Suonano sempre con convinzione e precisione, i Bernays Propaganda, ma si trovano presto ad avvolgersi su loro stessi, come se fossero un po’ scarichi e ripetitivi, forse a causa di pezzi non sempre all’altezza. Sono sicuro che la dimensione giusta per apprezzarli sia quella live, dove certamente sono in grado di far emergere una personalità che su supporto invece appare un po’ frenata, raffreddata, e riesce ad emergere solo a tratti (come ad esempio in “Bar Kultura”). La più interessante variazione sul tema arriva con il brano di chiusura, “Leb i Igri”, che nel suo oscillare tra pianoforti dissonanti, ritmiche forsennate e fiati free, sembra indicare una possibile e più intrigante via per il futuro, magari nel solco tracciato dagli immensi The Ex, una delle band di riferimento del genere, nel quale per il momento i Bernays Propaganda stanno ancora un po’ nel mucchio. Un album discreto che, dimezzato nel programma e nel minutaggio, sarebbe potuto essere un ottimo Ep. (Mauro Catena)

Immanent – In Acedia

#PER CHI AMA: Progressive Rock, To Mera, Hammers of Misfortune, Fates Warning
La prima cosa da dire è che questa band francese ha tanta voglia di emergere e si sente dal lavoro compositivo che sta sotto al loro primo lavoro in studio dal titolo "In Acedia". Album uscito nel 2012 autoprodotto, carico di suggestioni progressive, dagli accenti metallici e lievemente decadente. Non si debba pensare al solito impasto gotico/metal progressivo, (noi li vedremo bene paragonati ai To Mera) dove il metal è filtrato da innesti di puro rock progressivo giocati spesso sulle note del piano della brava cantante Anastasiya Malakhova che a tratti porta la musica della band vicina al magico e irraggiungibile mondo progressive dei Catapilla, '70s cult band inglese capitanata dalla stravagante e oscura Anna Meek. L'intero album è in continua evoluzione e si passa facilmente da atmosfere sulfuree a scorribande elettriche con il vizietto del tecnicismo chitarristico, per approdare a momenti cristallini di melodie e arpeggi di chitarra classica davvero d'effetto. Ed è proprio in questi intensi momenti in cui la band mostra maggiore maturità, dove la voce inafferrabile di Anastasiya esce allo scoperto con tutte le sue qualità e dona un velo d'avanguardia astratta all'insieme sonoro. Il classicismo del suo piano macchiato di jazz è la marcia in più, in questo disco che soffre un po' nella registrazione delle parti più pesanti e metal, con suoni un po' spenti soprattutto nelle ritmiche delle chitarre con uno stile troppo retrò e sempre rivolte al prog metal degli anni '80 (vedi Queensryche/Fates Warning), anche se molto più godibili negli assoli. Un ascolto approfondito ci fa notare l'ottimo lavoro svolto da tutti i musicisti e le loro qualità: inseguimenti ed evoluzione degli strumenti a suon di scale e tanta tensione (complice il tono drammatico del cantato) fanno tornare alla mente certe cose degli Hammers of Misfortune (periodo Church of broken glass) anche se ribadiamo che avremmo voluto sentirli con un taglio sonoro più d'avanguardia, futurista e con suoni più attuali ovviamente senza perdere quel soffio di underground che li contraddistingue da mille altre band. Comunque il lavoro suona decisamente bene, ispirato e l'ultimo dei quattro lunghi brani del cd dal titolo "The Demon of Acedia" è forse un ottimo emblema sonoro per capire l'intero lavoro. Adorabili e originali, tecnici e intensi...un disco che cattura lentamente e che merita un ascolto deciso e una buona concentrazione. Un album impegnativo e solo per palati fini. (Bob Stoner)

(Self - 2012)
Voto: 75

http://immanent.bandcamp.com/

giovedì 5 settembre 2013

Sofy Major – Idolize

#PER CHI AMA: Noise, Hardcore, Sludge, Melvins, primi Mastodon, Unsane, Dozer
I transalpini Sofy Major dopo varie vicissitudini mettono in campo questo loro nuovo lavoro contornato da tanta ambizione e sotto l'ala protettrice di Dave Curran (Unsane, Pigs). L'ottima qualità del lavoro si sente al primo ascolto: i nostri si muovono a proprio agio fondendo hardcore, stoner rock e sludge in un magma sonoro ricco di richiami anni '90. Sarà la parentela geografica, ma ricordano molto per un certo modo di vedere, la musica estrema dei Treponem Pal, non a caso si sente distante chilometri che sono francesi. Il trio esaspera bene le sue influenze e tutto suona quadrato e nitido passando dalle sonorità di certo alternative alla Jesus Lizard fino ai succitati Unsane con un tocco noise di scuola retrò, stile Helmet. Tutto questo rende il disco molto dinamico e nervoso, una forma sonora in continua apprensione, tra sfuriate punk di nuova generazione e rumore dalle tinte alternative. L'intero lavoro supera i quaranta minuti e si concede anche una apertura al noise ambient molto bella e inserita nella scaletta nel punto giusto dopo i primi tre brani suonati all'arma bianca. La seconda parte di "UMPPK" suona come un brano scarnificato degli One Dimensional Men di un tempo, sormontato ad un brano degli stoner rockers svedesi Dozer. Non del tutto originale ma ben fatto, cosi come la successiva "Slow and Painful" che sembra nata da un abuso di musica stoner. Si stacca leggermente dagli stereotipi stoner "Coffee Hammam" e il brano sperimentale "Seb". Il brano "Platini" riporta il punk alternativo in casa Sofy Major, ma la formula stoner/hardcore/noise li seguirà fino alla fine (la chiusura del disco è assegnata a "Power of their Voice" cover dei Portobello's Bones) dando conferma e anche una certa stabilità all'intero disco. In totale un buon percorso sonoro, forse un po' carente di personalità in alcune parti e non sempre originale, ma ben orchestrato e ben suonato... Da ascoltare... Un lavoro ben fatto! (Bob Stoner)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 70

Un disco che trasuda volontà e personalità da tutte le parti, a partire dalla sua genesi. Il trio francese, dopo un paio di release minori e un full lenght nel 2010, si era trasferito a New York City per lavorare al nuovo disco presso i Translator Studio di Brooklyn. Peccato che, lo scorso ottobre, l'uragano Sandy abbia raso al suolo l'intero studio di registrazione e tutto il lavoro fatto dai Sofy Major: fortunatamente, grazie all'aiuto di Dave Currane (Unsane, Pigs) e della scena locale, hanno rimesso insieme i pezzi e messo in stampa questo "Idolize". Volontà e personalità, dicevamo: perché non è facile fondere insieme con successo il suono dello sludge con la violenza del post-hardcore, la follia noise dei Melvins con i Mastodon e i Tool, e inondare il tutto di fuzz e di riff memorabili. Non è facile proporre un crossover di influenze ed uscirne comunque a testa alta, con uno stile che resta originale e personale pur nel citazionismo (a volte esagerato: l'inizio di "Comment" assomiglia un po' troppo a "Gardenia" dei Kyuss, per dire). I Sofy Major sanno come muoversi bene in questo territorio pericoloso e poco definito ai confini tra lo sludge, l'hardocore e il noise. Tolta l'atmosferica "UMPKK Pt. 1" e la sperimentale "Seb" che sembra uscita dritta dritta dall'ultimo disco dei Melvins, "Idolize" si muove su ritmi veloci e potenti, dando prova di grande perizia tecnica (le prime note di "Aucune Importance" mi hanno fatto quasi pensare all'ennesimo disco math), di capacità compositive per una volta davvero originali ("Bbbbreak", la disturbante "Platini"), di idee chiare anche quando il riffing si avvicina più alle cadenze doom ("Steven The Slow", la parte centrale di "Coffee Hammam"). Aggiungete una produzione impeccabile nel rendere il calore e la violenza del genere, e avete la ricetta di un disco che girerà parecchio nelle vostre orecchie. (Stefano Torregrossa)

(Solar Flare - 2013)
Voto: 75

http://sofymajor.bandcamp.com/album/idolize

Wildernessking - The Writing of Gods in the Sand

#PER CHI AMA: Post-Black, Wolves of the Throne Room
Il post-black è definitivamente il fenomeno dell'anno. Se anche dal Sud Africa mi arriva del materiale (peraltro interessante) dedito a queste sonorità, devo per forza decretare la globalizzazione di un genere che è sorto da quei suoni provenienti dal West US, in quella zona detta Cascadia, grazie ai Wolves of the Throne Room. Il resto è storia recente, con eccellenti realtà spuntate come funghi in tutto il mondo (una su tutte, i Deafheaven). E ora eccomi recensire il debut cd dei Wildernessking, band di Città del Capo che, grazie all'Antithetic Records, ha avuto modo di pubblicare questa loro release. Giunto tra le mie mani, il digipack autografato dei nostri, si presenta assai minimalista in termine di colori (bianco e nero), mentre in fatto di suoni, vengo immediatamente investito dal sound acido e corposo di "Rubicon (The Fletting Vessel)", song che mette in mostra subito una buona produzione con i suoni degli strumenti ben bilanciata, in cui emergono delle chitarre piuttosto lineari su cui si stagliano corrosive vocals ad opera del bassista Keenan Oakes. La proposta è appunto un black venato di influenze post-metal e suoni progressivi, con citazioni che spaziano dal desolante sound dei Cult of Luna, al black "made in USA" dei già citati WotTR, per un risultato che ha comunque del sorprendente. "Discovery (Chasing the Gods)" è un bel pezzo che vive dell'alternanza tra suoni mid-tempo e sfuriate black, che mette in mostra nel suo interno un intermezzo acustico che può rievocare gli ultimi Enslaved, mentre la successiva “River (Nectar of Earth)” ha un che di apocalittico nel suo primordiale incedere. “Utopia (Throne of Earth) apre con un bel basso in primo piano, la song non è troppo corrosiva e un po' si discosta da quelle ascoltate fino ad ora, se non per l'abrasivo cantato di Keenan e poi c'è quell'apertura ambient nel suo ventre che ci dona un senso di pace, prima dell'assolo finale. “Surrender (The Ages)” è un altro pezzo più meditativo e intimista, che lascia si spazio alla violenza, ma è anche pervaso da un forte senso di malinconia. Siamo agli sgoccioli e ci rimangono a chiudere la potente traccia strumentale “Reveal (Nightfall)” e la lunga “Infinity (And the Dream Continues...)”, song notturna nella sua prima metà e più irsuta nella seconda parte. Che dire, se non auspicare che i Wildernessking ce la possano fare a mettersi in mostra in questo mondo cosi globalizzato, in cui però le barriere molto spesso sono assai difficili da valicare. In bocca al lupo ragazzi! (Francesco Scarci)

Forgotten Sunrise - Cretinism

#PER CHI AMA: Suoni sperimentali
Ogni volta avvicinarsi ad un album degli estoni Forgotten Sunrise e descriverne i suoi contenuti in modo corretto, si rivela un'impresa irta di pericoli. Lo aveva fatto in passato il mio compagno di ventura Rob, in occasione dello splendido “Ru:mipu:dus”, ci provo oggi io, con l'uscita del nuovo “Cretinism”. Un album di 15 pezzi per una durata totale che supera abbondantemente i 50 minuti. La proposta dei nostri, che aveva preso già largamente le distanze dal death metal prima e dal metal poi, ha definitivamente abbracciato la sfera della sperimentazione più avanguardistica, mantenendo inalterata però la forte componente elettronica che si palesa già dopo l'evocativa intro. L'inizio e il tema portante di “The Moments When God Was Wrong” infatti, se non fosse per le vocals di Anders Melts, potrebbero avvicinarsi alle prime produzioni dei Depeche Mode. Nei momenti in cui Anders canta, il sound è più vicino alla dark wave. Comunque sia, nulla è scontato nella musica dei nostri: le melodie e le ritmiche decisamente '80s, la tribalità affidata all'inizio di “Samewonder” cosi come pure la sua fluida dinamicità che sembra fuoriuscita da un videogame dell'Atari; poi ecco far capolino la voce femminile di Gerty Villo e delle harsh vocals che mi lasciano francamente stranito. Un po' nintendo style, con un pizzico di EBM, una spruzzata di industrial e quel mood neo folk e il gioco è fatto. Risultato: il delirio più puro. Un breve intermezzo mi riporta alla realtà, ma so che è solo un preludio alla follia che i nostri si preparano a spararmi nelle orecchie. Non mi sbagliavo di certo perché con “All Ctrl” (un tributo al tasto Control del Pc?) i nostri mi scaldano con eterei suoni infernali, vuoi per la soave voce di Gerty che si contrappone ai malvagi grugniti di Anders sopra un tappeto di percussioni che ho adorato e che mi ha evocato nella mente addirittura i Prodigy. Eletta mia song preferita. Ancora suoni inquietanti, direi marziali e “Sisters, Brothers & Other Hellborn Creatures” si fa notare per lo più per la sua forte aurea sulfurea. Un altro interludio prima di “Tankover Trinity”, oscura song dal ritmo disco dance, a cui fa seguito “...dots” che abbina electro music con gorgheggi death (affidati a Nuclear Holocausto Vengeance dei blackster finlandesi Beherit) e flebili cleaning vocals: song spettrale dal forte impatto emotivo. Terza pausa ed è il momento di “Numb-er Ate”, pezzo quasi trip-hop che introduce a “Our Oun”, altra song che abbina elementi psichedelici, electro e darkwave sotto l'egida della carismatica voce di Anders. “Niit” funge da ponte con la conclusiva tenebrosa e delirante “Bo:gie”. “Cretinism”, la cui etimologia deriva dal francese antico “Chretien”, rimanda alla storia dei cristiani eretici che si rifugiavano nelle valli dei Pirenei con scarsa presenza di iodio, e che avevano prole affetta da ipotiroidismo. Un tema contorto per un disco contorto, che rappresenta quanto stessi realmente aspettando dal comeback discografico dei Forgotten Sunrise. (Francesco Scarci)

mercoledì 4 settembre 2013

Mal Etre - Medication

#PER CHI AMA: Black Ambient Shoegaze Dark
Avevo incontrato gli svizzeri Mal Etre in occasione del loro primo album, “Torment” e li ritrovo in occasione del loro secondo lavoro, “Medication”, facente parte della “99 Screams Series” della russa Kunsthauch Productions, lavori stampati elegantemente in digipack, limitati a sole 99 copie. Fiero di far parte di questa ristretta elite di fortunati possessori di questa release, metto nel mio lettore il cd e mi lascio ancora una volta guidare nel malato mondo di Nocturnalpriest in un altro dei suoi psicotici viaggi. La proposta della one man band del cantone di Vaud, si presenta assai personale, anche se quella lacerante violenza che saltuariamente trapelava dalle note del primo lavoro, è stata riposta in soffitta, lasciando posto ad un sound già maturo, oscuro e che, come citato nel flyer informativo, suona molto in stile punk. Il tutto si evince dall'ascolto delle prime due song, che poggiano la loro struttura su una tetra musicalità, richiamando pur sempre nel loro avanzare, lo shoegaze degli Alcest. Il basso è l'elemento predominante del disco e l'inizio di “Manicomium” lo conferma: il suono pulsante dello strumento rappresenta infatti l'elemento su cui poggia l'intera ritmica dell'act elvetico, con delle vocals (pulite e scream) che sono al limite del delirio, per non parlare poi dell'atmosfera malsana che aleggia in questa song in particolare, ma in generale in tutto il lavoro. “Brainfood” sembra quasi un omaggio alle sonorità dark dei The Cure, cosi come “Conspiracy Against Life” rappresenta un altro bell'esempio di quanto abbia avuto un grande significato l'influenza di Robert Smith e compagni nella crescita musicale dei Mal Etre. Cori litanici e sprazzi di metallo vero, completano quella che forse è la mia song preferita. Con l'enigmatica “Nightmare” si continua a vagare nell'incubo di Nocturnalpriest: desolazione, freddo e paura sono le sensazioni che emergono forti dall'ascolto di questo pezzo. “Dernier Voyage” è forse l'ultima montagna da scalare con i suoi 11 minuti di musica in cui si palesa per la prima volta la componente black. Le chitarre, elettriche e acustiche, avanzano in una straordinaria amalgama di suoni maledettamente malinconici, su cui irrompe lo screaming del vocalist svizzero e dove emerge più forte l'influenza dei gods francesi Alcest. Ancora un temporale, ancora gocce di pioggia che cadono, cosi come in occasione della prima release, incupendo un'atmosfera già di per sé assai pesante. Con la title track si riprendono i suoni psichedelici delle prime tracce; per di più fa capolino anche la voce di una fanciulla che si affianca a quella del mastermind. “Schizoid” è la degna conclusione di questo album: malata ai massimi livelli, combina lo screaming con evocativi cori, su un tappeto sonoro psichedelico noise ritualistico, che conferma la qualità non indifferente della seconda opera targata Mal Etre. Definitivamente intriganti. (Francesco Scarci)

martedì 3 settembre 2013

Prehistoric Pigs – Wormhole Generator

#PER CHI AMA: Stoner strumentale, Kyuss, Sleep
L’esordio di questo trio udinese “a conduzione familiare” (composto infatti dai fratelli Jacopo e Juri Tirelli, mentre Mattia Piani è loro cugino) ha raccolto ovunque recensioni a dir poco entusiastiche, con la “benedizione” giunta niente meno che dal Gran Mogol degli appassionati di rock “rumoroso” della penisola, Claudio Sorge; e di rumore deve averne fatto abbastanza anche fuori dai confini italiani, se i tre sono stati chiamati a suonare in Irlanda e Germania. Con tale biglietto da visita, ci si accosta all’ascolto con grande curiosità, e una certa trepidazione. L’immagine di copertina di questo elegante digipack lascia pochi dubbi su quale sia il contenuto del dischetto: colori e iconografia molto “desertiche”, traslate in un contesto spaziale come mi è capitato spesso di vedere ultimamente, compresa l’immancabile la citazione dell’astronauta degli Sleep, fanno presagire massicce dosi di stoner, psych e space rock. Fare stoner oggi non è cosa semplice, o meglio, non è semplice avere qualcosa da dire che si discosti almeno un poco dal mare di produzioni, tutte mediamente buone, facilmente rintracciabili oggi giorno in giro per la rete. Il compito appare poi anche più arduo se di decide di rinunciare alla voce e affidarsi ad una proposta interamente strumentale, come quella dei “Maiali preistorici”. Una proposta basata essenzialmente su riff granitici, iperdistorti, ossessivi al limite dell’ipnotismo, lenti e pachidermici nell’avviarsi in un incedere che, una volta giunto a regime, diventa davvero difficile da arginare (vedasi la strepitosa "Interstellar Gunrunner"), su una percussività tribale e potente e su costruzioni architettate con precisione, fantasia e gran gusto come le ottime "Primordial Magma" o "Ente Lodonts". La lunga e conclusiva "Electric Dunes" si fa desertica e riflessiva, e potrebbe essere l’ideale colonna sonora di un viaggio sul pianeta rosso, spazzato da incandescenti venti interstellari. Un ascolto estremamente appagante, soprattutto considerando l’apparentemente limitato spazio di manovra offerto dalla loro scelta stilistica. Bravi davvero. (Mauro Catena)

(Moonlight Records - 2013)
Voto: 75

http://prehistoricpigs.bandcamp.com/music

domenica 1 settembre 2013

Jack B. Kisberi - Another Nobody’s Diary

#PER CHI AMA: Experimental blues, Leonard Cohen, Nick Cave, Hugo Race
Jack B. Kisberi è un cantautore e musicista ungherese straordinariamente prolifico, se è vero che tra il suo album precedente, il notevole "Songs from the Corner of the Room/Songs from the Mirror", ed oggi è trascorso solo un anno, e che nel frattempo ha rilasciato ben cinque titoli diversi, tra album, Ep e raccolte di vecchi brani, e questo "Another Nobody’s Diary" non è nemmeno l’ultimo, essendo stato seguito da un nuovo Ep, "Her". La sua musica si muove tra blues desertici, suggestioni mitteleuropee e sperimentazioni rumoristiche, tenendo sempre ben presente la lezione dei grandi cantautori, come un ipotetico viaggio in treno, in uno scompartimento diviso con compagni quali Leonard Cohen, Nick Cave, Hugo Race e gli Einsturzende Neubaten. Questo album non fa eccezione, anche se è evidente uno smarcamento da certe atmosfere cameristiche ed una maggiore adesione a canoni strumentali più tipicamente rock. "Another Nobody’s Diary" è una raccolta di dieci canzoni, 6 autografe e 4 cover, molto coesa in termini di tematiche e sonorità piuttosto scure, frutto di un’introspezione profonda a seguito di un periodo che si intuisce essere stato piuttosto duro per l’autore. Molto particolare la scelta delle cover, dalla celeberrima “The Thrill is Gone” di Chet Baker trasfigurata in uno spettrale blues di frontiera, alla ballata “Faithless” dei tedeschi Fatal Shore, fino ai ben due pezzi tratti dall’esordio dell’interessantissima cantaurice etiope-norvegese Mirel Wagner: le solenni “Joe” e “No Death”, quest’ultima trasformata in una macabra ballata pianistica che non avrebbe sfigurato su “Murder Ballads” di Nick Cave. Le qualità autorali di Kisberi (che, tra l’altro, fa tutto da sé suonando tutti gli strumenti) non sono certo seconde a quelle interpretative, e a metterlo subito in chiaro sono lo spettacolare blues “Sorry to Say” che apre il lavoro, avvolto in spirali elettriche e coltri di feedback, l’incalzante “Where is My Baby”, che ha il suono del sole che fa capolino dopo una notte di tempesta, o ancora lo scarnificato gospel “Dear Someone” e la sferragliante “I Had, I Was”. Un gioiello nascosto, questo disco, non di quelli luccicanti e appariscenti, quanto piuttosto un pietra dura e scurissima, da portare sempre con sé e custodire gelosamente. "Another Nobody’s Diary" è in downoad gratuito su bandcamp, ma una volta entrati dentro queste dieci canzoni preziose, sarà inevitabile voler acquistare l’oggetto fisico, sia esso cd o vinile. (Mauro Catena)