Cerca nel blog

giovedì 27 giugno 2013

King Bong - Space Shanties

#PER CHI AMA: Instrumental Psychedelic Space Rock, Stoner
Bel trip, quello messo in piedi dai King Bong (nome che non lascia dubbi sull’ispirazione “psichedelica” della loro musica) nell’arco di sei pezzi strumentali, durata media dieci minuti, che compongono questo loro terzo lavoro. Brani lunghi e stratificati, questi “canti dello spazio”, che a volte si basano sulla reiterazione di un’idea, poi espansa e dilatata a dovere, e altrove mostrano una costruzione più meditata e complessa, laddove invece il precedente “Alice in Stonerland” era totalmente improvvisato sul momento. I King Bong (un classico trio chitarra-basso-batteria) hanno inciso il disco dal vivo in studio, senza sovraincisioni, come si apprende dalle note del cd, e questo depone decisamente a loro favore, oltre a donare al lavoro un feeling particolare, che valorizza l’interplay dei musicisti, e un suono più caldo e “rusty”. Non rimane che chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dall’incedere sinuoso di “Even 50 Feet Hamsters Have Feelings”, affascinante ibrido di post rock meditabondo, doom e psichedelia. La successiva “Of Bong and Man” sembra incanalarsi verso binari più classicamente stoner, salvo poi deviare senza preavviso verso atmosfere dilatate e quasi jazzy (da sottolineare il bel lavoro della chitarra). Si continua tra valli ariose e tranquille, improvvisamente spazzate da venti furiosi (“Kilooloogung”), foreste abitate da presenze sinistre (la jam psichedelico-sabbathiana “A.B. Ong”), fino ad arrivare alla conclusione del viaggio con l’allucinatoria e lovercraftiana (nel titolo quanto nelle atmosfere) “Cthulhu”, 12 minuti di crescendo potente, un buco nero che risucchia inesorabile qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Qualche personale perplessità solo su “Inhale On Main Street”, dove il maestoso maelstrom sonico che caratterizza la seconda parte del brano cozza con una prima parte quasi funk-rock che mi ha lasciato un po’ così, ma sono dettagli. In definitiva un ottimo lavoro, che lascia ancora ampi spazi di manovra e di crescita ad una formazione a cui manca davvero poco per fare il definitivo salto di qualità. (Mauro Catena)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 75

http://kingbong.bandcamp.com/

mercoledì 26 giugno 2013

Zgard - Astral Glow

#PER CHI AMA: Black Epic Avantgarde
"Astral Glow" è il nuovo album del duo ucraino Zgard, licenziato dall'etichetta doom russa Solitude Production nel 2013. Nel suo secondo full lenght, la band fa le cose in grande stile e sfodera una serie di brani convincenti e ben orchestrati con un'attitudine moderna e progressiva, psichedelica e oscura. L'artwork è molto bello e rimanda perfettamente al concetto sonoro degli Zgard con i suoi paesaggi interstellari mistici, i dolmen integrati in terre cosmiche e spirituali come se il risveglio della saggezza degli avi dalle antiche tombe pre indoeuropee fosse l'unica via per il futuro. A corredare il tutto un flauto emerge s tratti come un richiamo magico, un senso di astrazione sensoriale votata agli dei ed una energia più orientata al black e in altri momenti più al gothic a generare piacere estatico. Poche band riescono a creare un'intensità tale, mantenendola per tutti i settanta minuti del cd senza cadere in brani riempi pista. L'impostazione black metal assicura il tiro necessario per non abbassare mai la guardia, le tastiere e i numerosi effetti d'ambiente, ci conducono in mondi inesplorati e interstellari, la voce incupita e gutturale narra le sue storie con la forza di un leggendario guerriero su di un tappeto di chitarre che ricordano un capolavoro sconosciuto come "Futile" dei Rapture del 1999. Alla fine, quel flauto ancestrale che ricorda tanto i guerrieri irlandesi Cruachan di "Tuatha na Gael" ma inserito in un contesto più potente, violento e psichedelico, d'avanguardia e futurista, crea un perfetto ponte tra passato e futuro, tra folk di un tempo e il moderno black metal epico e pagano dei Wintersun. Quindi non fatevelo scappare e affrontate il viaggio! Ne vale la pena! (Bob Stoner)

(Solitude Productions)
Voto: 75

http://zgard.bandcamp.com/album/astral-glow

Deville - Hydra

#PER CHI AMA: Stoner, Queens of the Stone Age
Questo cd gira già da qualche giorno nella mia macchina, mi porta al lavoro, durante il week-end e via dicendo. Giuro, è difficile separarsene e ancora dopo un paio di settimane non mi molla. Questo è l'effetto Deville, simile ad una sindrome di Stendhal, ma meno garbata e più ruvida. I Deville sono quattro ragazzoni svedesi che calcano la scena stoner dal 2003 in dieci anni di attività e che hanno una sana dipendenza da live pesanti e furibondi. Anche l'attività in studio non è da meno, ma impallidisce di fronte al numero di concerti fatti in questi anni. Questo fa capire di che pasta sono fatti i Deville e come suonano. "Hydra" è fresco fresco di release e in undici pezzi vi catapulterà in quel mondo sabbioso e pieno di bassi che contraddistingue lo stoner. La peculiarità dei Deville è quella di aver dato una leggera sferzata di stile rispetto al classico stile svedese con l'aggiunta di sonorità più raffinate e uno studio ad hoc per la sezione arrangiamenti. Ma lasciamo perdere le chiacchiere e passiamo al sodo. "Lava" è la prima traccia ed è stata scelta a dovere perchè oltre ad essere la più orecchiabile, sicuramente è quella che incarna meglio il Deville-style. Ritmica a go go, riffoni grossi di chitarra con distorsioni meglio definite delle classiche da stoner e cambi di direzione che vi porteranno alla fine del brano in un baleno. Qua inizia la sindrome da dipendenza che vi porterà nella spirale del dover ascoltare il resto quanto prima. Poi è il momento di "The Knife" che apre con un bel basso distorto e una vaga influenza Queens of the Stone Age a livello melodico, questa però scompare immediatamente con il break che odora di post rock. Il trucco funziona alla grande perchè i riff che seguono sembrano ancora più cattivi. Ringraziamo il dio chitarra, inginocchiamoci tutti e adoriamo. Con "Over the Edge" si ritorna alle origine, grazie ad un bel giro melodico che fa molto hard rock-blues e permette di rispolverare il wah-wah e un solo di chitarra tra l'iper tecnico e il ruffiano. Breve, ma intenso, come il sesso consumato nel bagno di un polveroso bar nel bel mezzo del deserto. Chiudiamo con "Imperial", pezzo impegnato e tecnico per le diverse sfaccettature melodiche e sonore che in sei minuti abbondanti ci portano a spasso attraverso il mondo dei Deville. La ritmica è più cadenzata e lenta rispetto ai pezzi precedenti, ma siamo lontani anni luce dal doom. Il cantato è sempre all'altezza e riesce a staccarsi dalla melodia principale rendendo questa traccia e le altre sempre godibili. Devo dire che l'album è di pregevole fattura, ottimi suoni e gran lavoro di arrangiamento e mastering, difficile trovare difetti. Ora la palla passa a voi, nel frattempo "Hydra" rimarrà nel mio stereo per molte settimane ancora. (Michele Montanari)

(Small Stone Records)
Voto:90

http://smallstone.bandcamp.com/album/hydra

domenica 23 giugno 2013

Duobetic Homunculus - Ani Já Ani Ty Robit Něbudzeme, šedněme Do Koča, Vozit še Budzeme

#PER CHI AMA: Prog metal, Avantgarde, Iceburn, Atheist, Uz Jsme Doma
Un titolo allucinante e lunghissimo (peccato che non sappiamo tradurlo!) per un duo al limite della realtà. Non poteva capitarci di meglio da recensire ed era dai tempi dei Vampillia (recensiti sul Pozzo dei Dannati) che uno splendido, impazzito duo di musicisti scatenati, fantasiosi, incontenibili non ci capitava tra le mani. Nelle note di copertina della loro pagina bandcamp si spacciano per una coppia di semplici metallari ma a Wokis e Walis, che si dividono strumenti vari e programmazioni elettroniche, il metal in senso stretto non va proprio a genio. Questi due strepitosi musicisti della Repubblica Ceca si fregiano del tocco metal progressivo degli Atheist, passando per il 70's prog dei Kultivator ed Hatefield and the North con la verve delirante dei Boredoms e Alboth e gli estremismi dei Sigh! Tirati e veloci, tecnici e precisi, folli, a volte nevrotici, psichedelici ma sempre con la bussola ben direzionata, così a ruota appaiono il piano, e un numero non meglio precisato di strumenti di tutte le razze e idee sonore da manicomio sparse tra i complicati brani del cd. Ci sono rumori, discorsi rubati alle tv e campionamenti, folk della loro terra e cori di musica popolare, il cantato in lingua madre è nevrotico e riporta alla mente l'avant garde di Uz Jsme Doma e il miglior Rock in Opposition in salsa metal. Giochi musicali psichedelici che ricordano vagamente i Beatles in acido e una energica forma di neo progressive che si riallaccia solo ideologicamente all'ultimo Steven Wilson ma suonato come se i Voivod suonassero una cover della Disharmonic Orchestra pensando agli Iceburn. La bellissima artistica copertina è estasiante ed e profondamente in linea con la follia del disco creata ad arte da Lucie Třešňáková. Dire di più per spiegare questa raccolta di brani è impossibile, non resta altro che ascoltare per credere e aprire questa scatola delle meraviglie, schegge impazzite di progressive rock schizzoide e delirante. Grandiosi e geniali, un album da non perdere! (Bob Stoner)

Electric Taurus - Veneralia

#PER CHI AMA: Stoner Doom, Clutch, Led Zeppelin, Orange Goblin, Monster Magnet
C'è una sola cosa che rimpiango degli anni '70: che non avessero a disposizione le tecnologie moderne di registrazione e missaggio. Certo, il suono un po' distante e quasi per nulla on-your-face fa anche parte del fascino di quegli anni: ma è innegabile che per orecchie abituate alle produzioni e ai volumi di oggi, certi dischi di quarant'anni fa lascino l'amaro in bocca. Poi, per fortuna, arrivano gruppi come gli Electric Taurus, che ripescano a piene mani il meglio di Led Zeppelin, Grandfunk Railroad e Black Sabbath per miscelarli con un certo stoner doom di oggi (gli ultimi Clutch, ma anche Orange Goblin e Sleep): e il miracolo di ascoltare gli anni '70 con i suoni di oggi si avvera. C'è più heavy blues che doom, intendiamoci: la batteria è più spesso veloce che lenta, ma le chitarre sono violente al punto giusto e annegate nel fuzz, il basso (un po' troppo pulito, forse) fa il suo lavoro e la voce scivola ogni tanto nelle melodie hard-rock di vecchia scuola – ma in generale il mix che ne esce è di tutto rispetto. La componente settantiana emerge prepotente in certi brani ("New Moon", "Magic Eye", "Mountains"), ma c'è spazio anche per lo stoner di "Two Gods/Caput Algol" e per una lunga parentesi psichedelica (l'unica del brano) in "Mescalina/If/At The Edge of Earth". Stona invece "Prelude to the Madness", con parti doom uscite dall'inferno alternate un po' troppo forzatamente a schitarrate acustiche stile pezzi-peggiori-dei-Monster-Magnet. In definitiva un buon lavoro, quello degli Electric Taurus, peraltro confezionato in un packaging gradevolissimo con un'inquietante illustrazione di copertina. Se cercate l'originalità, qui non ce n'è molta. Ma se siete nostalgici dell'heavy blues dei tempi andati suonato con l'oscurità dello stoner doom di oggi, e se volete ascoltare un bel prodottino tutto italiano, questo disco fa per voi.(Stefano Torregrossa)

(Moonlight Records, 2012)
Voto: 65

http://electrictaurus.bandcamp.com/

Sixthminor - Wireframe

#PER CHI AMA: Industrial, Post-rock, Tortoise, OSI, 65DaysOfStatic
Diciamocela tutta: il post-rock sta cominciando a rompere i coglioni. C'è sempre la solita chitarrina col delay, le solite parti dilatate seguite da quelle più pesanti, al massimo qualcuno ci infila dentro una tastiera per fare ambient o un giro di basso appena più convincente. Poi esce roba come questo "Wireframe" dei Sixthminor (duo napoletano al debutto, ma ci sono voluti sei anni di lavoro) e, sorpresa sorpresa, riesco ancora a sorprendermi: e sorprendermi parecchio. C'è il post rock, certo, ma solo nella struttura dei brani e in generale nella costruzione dell'intero disco: tutto il resto è molto, molto di più di quello che siete abituati ad ascoltare. Nessun suono, anche se costruito con strumenti classici (chitarra, basso, batteria) resta tale: ogni nota, ogni suono, ogni battito e ogni arpeggio sono curati con perizia maniacale, filtrati attraverso strumenti digitali e miscelati con un'elettronica di rara intelligenza e pulizia. Le tracce ritmiche acustiche si fondono con le drum machine ("Blackwood"), le chitarre distorte emergono violente su labirinti di synth ("Etif"), il basso dubstep taglia tutte le frequenze prima di aprirsi su un segmento ambient di grande atmosfera. Ascoltate "Frozen", che salta da un estremo all'altro regalando melodia e spazialità anche quando viaggia su partiture ritmiche industrial. O "Hexagone", che sembra Skrillex che suona gli OSI che suonano i Ministry. L'impressione in effetti è che il disco si chiami "Wireframe" perché – proprio come i relativi modelli 3D permettono di guardare dentro e attraverso l'oggetto – i Sixthminor riescono, in qualche modo, a vedere dentro e soprattutto oltre un genere che sta per terminare le sue cartucce buone. Prendono il meglio del post-rock, lo frullano con l'elettronica del nuovo millennio e ne tirano fuori un lavoro originale e maturo. Consigliatissimo. (Stefano Torregrossa)

(Megaphone Records, 2013)
Voto: 75

http://www.sixthminor.com/

sabato 22 giugno 2013

Dumbsaint - Something That You Feel Will Find Its Own Form

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Pelican, Tool
Uscita interessantissima per l’australiana Bird’s Records, ormai una certezza in ambito post, quest’esordio su cd del trio (oggi quartetto, infatti sul finire dello scorso anno si è aggiunto un secondo chitarrista) di Sydney, dedito ad un post metal (strumentale) cinematico ed estremamente affascinante. I Dumbsaint nascono nel 2009, e la loro peculiarità sta nel fatto che le loro esibizioni live sono caratterizzate dalla proiezione di filmati appositamente realizzati per fondersi al meglio con la propria musica, quasi come in un’installazione artistica multisensoriale. La paura che le note, qui deprivate del loro naturale elemento completante, non siano in grado di reggersi in piedi da sole, viene presto spazzata via dall’ascolto di questo solidissimo lavoro, uno dei migliori che mi sia capitato di sentire in quest’ambito negli ultimi tempi. Vale comunque la pena di dare un’occhiata al “pacchetto completo” sul canale youtube della band (per esempio il folgorante singolo “Inwaking”), per godere appieno dell’esperienza così come era stata pensata all’origine dai propri autori. La prima volta che ho ascoltato questo disco l’ho fatto in maniera piuttosto distratta, mettendolo nel lettore mentre sbrigavo altre faccende, e mi sono sorpreso a mollare quello che stavo facendo per seguire con attenzione quello che usciva dalle casse dello stereo, completamente rapito dalla complessità, la stratificazione, la potenza degli intrecci ritmici e armonici dei tre australiani. Una musica di questo tipo richiede assoluta perizia strumentale, e sotto questo profilo i Dumbsaint sono davvero bravi, in particolare mi preme sottolineare la prestazione “monstre” del batterista Nick Andrews, responsabile della varietà di ritmi e strutture che si susseguono senza sosta lungo tutto l’arco del disco. Stratificazione, si diceva: il post metal dei Dumbsaint sembra funzionare a più livelli di coscienza, e riuscire sempre a trovare la strada per scardinare le nostre gabbie e i nostri scudi, e farsi strada prepotentemente con i suoi crescendo, le sue strutture irregolari ma sempre perfettamente - quasi matematicamente – compiute, la sua potenza, non viscerale ma controllata senza che questo suoni come un difetto, tenuta a bada e poi liberata improvvisamente. I rimandi a band più blasonate quali Isis e Pelican non mancano, ma quello che fanno i Dumbsaint è qualcosa di ancora diverso e persino più ardito. In più di un passaggio sembra di ascoltare i Tool di Lateralus orfani dei magnetici vocalizzi di Maynard James Keenan, senza tuttavia che la sua assenza si faccia sentire più di tanto. Non so per voi, ma per me questo è un grosso complimento. (Mauro Catena)

Ulver - Shadows of the Sun

#PER CHI AMA: Ambient
Ombre, ombre che esistono solo perché esiste il sole. Preparatevi a questo album come ci si prepara al sentore di più dimensioni spazio temporali, che fanno convergere e spaccare il senso dell’esistere. Gli Ulver non ci lasciano a digiuno del loro essere musica e del loro essere anima, ma non pensate a questo album come ad un sottofondo che vi asseconda nelle vostre riflessioni più recondite, piuttosto fate rimboccare le maniche alla vostra coscienza e corazzate la vostra anima perché questo viaggio vi porterà allo stremo delle sensazioni. Partiamo con lo stesso random in cui l’ascolto trova il suo turbine vivo di arterie pulsanti e timpani tesi. "Let the Children Go" è un soffio tra le foglie d’autunno nostalgico e ripetuto. Voci dal coro che soggiacciono alle ritmiche imperanti. Convergono voci e suoni. Caos calmo. La voce in un acuto richiama senza indurre. Tinnuoli che si trasformano in effetti ritmici. La voce tace. Il brano chiude, ma non termina ancora. La vocalità si fa cavernosa e gli Ulver, con il loro magnetismo vi rapiscono per farvi ritrovare nel loro universo dualistico di luce e di buio sino al tocco finale di questo brano, che stride con il prologo delicato. "Solitude". Si. Solitudine. Si. Sangue e respiri lenti. Si. Perdere e trovare. Trovare empatie ataviche. Perdere il senno. Si lasciarsi condurre sino alle soglie della follia. Se vi sentite malinconici, ascoltate, ma a vostro rischio. Consolazione è l’empatia lenta come una tortuta che cammina tra le pendici scoscese delle vostre paure. "Funebrae" ossia scosse torbide sferzano le pareti del ghiaccio che imprigiona i pensieri. Lenta la musica. Più lenta della musica la voce, eppure il cantato incide scritte indelebili nelle note strumentali. Abbiate coraggio. "Funebrae" vi iptonizzerà. In "What happened?" non fermatevi all’intro che vi spiazzerà. Le distorsioni strumentali si confondono con la voce cavernosa e volutamente inquitante. Forse infernale. Passate oltre. Vi aspetta il purgatorio. Per un attimo "Eos", vi fa tornare il sereno. Ecco il vostro purgatorio. Non mi chiedete il paradiso. Gli Ulver non si muovono mai con tratti angelici. Mentre ascoltate abbassate le palpebre. Godetevi questo brano nelle sue sfumature che odorano di nebbia notturna, d’asfalto bagnato, di pensieri dimenticati, di vento. "All the Love": avvicinatevi. Ci faremo guidare dallo scampanellio che distingue il tempo del brano. La ritmica ci porta al di fuori delle tracce precedenti. Eppure anche questo brano è figlio di padre certo poiché scandisce il tempo con cui il cuore batte e rammenta al sangue la sua appartenenza. "Like Music" celebra il pianoforte, come a sottrarsi dalle precedenti ritmiche strumentali. La voce invece non si sottrae e richiama a gran voce sussurrata volontà e bisogni sino a sfumare sino a cambiare registro sino a chiedersi essa stessa “perché strido perché non mi ascolti perché non ti perdi tra i miei inganni sonori?” "Vigil". Polvere di ferro. Mettevi occhiali protettivi e già che ci siete copritevi bene la pelle perché questo brano è glaciale. I sussurri della voce si confondono con le onde sonore. Poco importano gli strumenti che suonano. L’effetto è acuto e distorto. L’impatto è vertiginoso e stridente. Chiudiamo con il brano che da il nome all’album. E chi se lo aspettava? Nemmeno io che gli Ulver li ascolto come si ascolta un suono che parla più delle parole. Questo brano si discosta e riassume lo stile Ulver. Eppure fa pensare al mare al tramonto. A pareti bianche ribattute dal sole all’alba. A sensazioni che dentro una caverna buia non possono esistere. Ecco come si chiude il cerchio del dualismo di cui vi ho anticipato. Un percorso. Un epilogo. (Silvia Comencini)

(Jester Records)
Voto: 80

http://ulver.bandcamp.com/