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sabato 16 febbraio 2013

Pray for Sound - Stereophonic

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale, Mogway
Pray for Sound, un nome una garanzia: musica in preghiera che penetra nell'animo attraverso quell'orecchio, quel timpano che mi guarda sornione dalla copertina dell' EP, ricordandomi che la musica fatta di solo ascolto, quello vero e profondo che ti entra e ti pervade i sensi. Mi accorgo che da alcuni anni sento musica ma non ascolto ed allora chiudo gli occhi e mi concentro su "Stereophonic". La tastiera mi guida e mi trasporta lontano, in un oceano di sensazioni che mi agitano lentamente, sembra davvero di sentire in sottofondo il mare dietro una chitarra che impervia e mi risveglia da questo momento di magica preghiera. Inizia "Tympanoplasty" con la sua lentezza proverbiale, interiorizzo i suoni, ancora acqua che scorre lontana e che depura il mio animo contaminato da canzonette stile sanremese. Ecco la batteria che mi riporta alla realtà con dolcezza iniziale che poi si trasforma in agitazione interiore e mi trascina in modo sempre più vorticoso sino alla fine del pezzo. "Retrogression" mi accompagna in un'atmosfera ancora di preghiera, davvero mi culla e mi conduce in una sorta di limbo tra il sacro ed il profano anche se verso la fine diviene un pochino ripetitiva. Allora cerco di concentrarmi maggiormente, cerco di utilizzare al meglio quel senso che la copertina dell'EP mi sprona ad attivare e rientro quasi per magia nell'universo della musica, nella purezza del suono trascinato da un mix strumentale e al contempo melodico ed esplosivo. Insomma un disco da ascoltare con la mente, il cuore ma soprattutto l'anima, adatto anche a tutti coloro che come me non sono grandi intenditori ma apprezzano la buona musica quando permette di lasciarsi alle spalle una giornata faticosa e navigare senza mete precise. (Renata Palmieri)

martedì 12 febbraio 2013

Luna Ad Noctum - The Perfect Evil in Mortal

# PER CHI AMA: Black/Death, Limbonic Art, Morbid Angel, Emperor
Terzo album per i blacksters polacchi Luna Ad Noctum e un ghigno severo compare sul mio volto; eh sì, perchè quando lessi la proposta del quartetto mitteleuropeo, “lunar black metal”, ho subito pensato cosa diavolo significasse, inoltre il flyer informativo parlava di stile unico, destando subito in me parecchia curiosità. In realtà, la descrizione di questo nuovo lavoro, si può liquidare in pochissime righe: si tratta infatti di un black metal brutale, non inteso però come primordiale o grezzo, ma come una mescolanza di black e brutal death. Dal black, "The Perfect Evil in Mortal" ha preso sicuramente le diaboliche vocals, l’utilizzo di furiose taglienti chitarre e quell’aura malvagia alla Dimmu Borgir, che permea un po’ tutto il disco, creata abilmente dalle keyboards che allentano la tensione in alcuni brevi stacchi atmosferici; dal brutal death, questo lavoro ha carpito il mood, la feroce forza sprigionata dalle ritmiche devastanti dei quattro guerrieri polacchi; in parole povere, tutta l’aria pesante che si respira nel cd, trasuda di malsana brutalità. Inoltre, anche il modo di suonare, assai tecnico, paga un certo tributo al filone brutal death americano: per citare un paragone, mi viene in mente a “The Ultimate Death Worship” dei Limbonic Art, così violento ed oltranzista. La release del quartetto polacco non è dopo tutto da buttare; sicuramente risulta scontata in diversi punti e di certo non propone, come presentato dalla casa discografica, nulla di unico o stravagante, tanto meno blasfemo o senza compromessi. Il lavoro dei Luna Ad Noctum è un album onesto, che mostra una certa atipicità negli arrangiamenti, che potrà piacere sia ai fan più incalliti del death che del black, sia agli amanti di sonorità sinfoniche alla Dimmu Borgir o alla Cradle of Filth, sia agli amanti del black più intransigente ed estremista. Di black metal lunare alla fine, nemmeno l’ombra... (Francesco Scarci)

(Metal Mind Records)
Voto: 65

http://www.lunaadnoctum.com/

Blizzard at Sea - Individuation

#PER CHI AMA: Post Sludge?
Lo so, avrei dovuto recensire prima “Invariance”, EP del 2011, ma troppa era la voglia di ascoltare questo secondo lavoro degli statunitensi Blizzard at Sea, datato dicembre 2012. Per chi non li conoscesse (faccio tanto il figo io, ma li seguo giusto da un paio di mesi), la band è un trio di Iowa City, che se n’è uscito appunto con 2 EPs in digipack, a distanza di un anno l’uno dall’altro, davvero assai intriganti. Il genere? Apparentemente, si tratta di un melmoso sludge/post metal, segno del dilagante imperversare di questa tipologia di suoni. L’album apre con “Accelerating Returns”, song in cui accanto ai chitarrismi asfissianti tipici, vede affiancarsi anche tortuosi e tecnici giri di chitarra, che rendono il tutto molto particolare, in quanto si discosta non poco dai dettami classici di Neurosis e soci. La band macina pesanti riffoni, si lascia andare in pregevoli break atmosferici, graffia con incursioni stoner. Strane però poi alcune scelte armonico-melodiche, decisamente fuori dagli schemi, disarmanti addirittura nella schizofrenica “The Technological Singularity”, il che mi induce a non bollare immediatamente la band come mero clone di Isis, The Ocean o Cult of Luna. I Blizzard at Sea prendono le distanze da tutto e tutti, suonando quello che gli pare e piace, reinventando totalmente un genere, che se non mostrerà una qualche evoluzione nell’immediato, rischia seriamente di vedere un veloce declino. Fortunatamente però sono arrivati Jesse, Steven e Pat a dire la loro e nei 18 minuti della conclusiva “Longevity”, arrivano quasi ad abbracciare sonorità ambient/drone nella sua prima metà, introducendo un cantato pulito e litanico (abrogato quello caustico delle prime due tracce), per poi lasciarsi andare ad una seconda metà di brano dotata di suoni ipnotici e tribali, che mettono in mostra le doti notevoli, dietro alle pelli, del bravo drummer Pat Took ed in generale di una band, dotata di una inventiva davvero invidiabile, che arriva anche a strizzare l’occhiolino agli immensi Tool. Definiti da più parti come post sludge, io mi limito a dire che questi Blizzard at Sea sono una band davvero potente e sorprendente. Nuovo crack in ambito post? Voi che ne pensate? (Francesco Scarci)

lunedì 11 febbraio 2013

My Evil Me - Ep

#PER CHI AMA: Nu Metal, Korn
Questo EP mi è arrivato tra le mani solo qualche giorno fa anche se risale addirittura al 2008, ma andiamo comunque ad ascoltarlo. Il quartetto vicentino My Evil Me nasce circa cinque anni fa ed è uscito subito con questo lavoro di buona fattura a conferma che il feeling e gli obiettivi dei componenti sono stati chiari sin da subito, seppur provenienti da passati musicali diversi. Nu metal di qualità, tantissima influenza Korn in molti risvolti, ma interpretato con una buona tecnica e approccio personale. Cinque tracce sagomate e rifinite in ogni sfaccettatura e ognuno del quartetto fa il proprio dovere. Il vocalist riprende in parte lo stile di Jonathan Davis e lo adatta alle proprie corde, sia in modalità screamo che melodico con buoni risultati. L'importante è conoscere i propri limiti e aggirarli con piccole accortezze, poi il duro lavoro farà il resto. Belle le chitarre, personalmente avrei usato una distorsione più rotonda, ma qua ognuno potrebbe dire la sua, comunque bei riff. A volte il pezzo chiama l'assolo, ma perché tediare l'ascoltatore con i soliti pacconi ultra tecnici? Approvo la scelta, anche perché così resta spazio al basso che sa mostrare di che pasta è fatto e non scompare mai nei vari pezzi, anzi, spicca in più punti a conferma delle sue qualità. Idem per la sezione ritmica che macina a dovere e trascina il resto del gruppo con la propria energia battente. La qualità dei pezzi è costante, qualche picco lo si nota in "Sweet Doing Nothing" che parte introspettiva con uno scarno arpeggio di chitarra pulita che viene spazzato via velocemente dalle distorsioni. I cambi ritmici danno una discreta dinamicità alla traccia che in circa quattro minuti presenta i My Evil Me come in carosello per l'ascoltatore. La canzone è meno rabbiosa delle altre e lascia intuire anche l'aspetto riflessivo della band che non vuole solo urlare rabbia gratuita. "Regret" risente delle influenze nu metal più famose, unendole comunque ad un cantato che trasmette emotività, mentre la parte strumentale crea l'impatto sonoro necessario senza mai essere eccessivamente pesante. Chiudo con "The Sick", breve traccia che ho apprezzato per gli arrangiamenti e il cantato che simile ad un serpente nell'ombra crea un'atmosfera di sofferenza psicologica/fisica ad hoc. Non posso che dire bravi ai My Evil Me, fossi in loro mi concentrerei maggiormente sui suoni, soprattutto delle chitarre e cercherei di dare maggior risalto alle sfumature personali che riescono a dare in alcuni punti delle canzoni. Aspetto quindi un nuovo EP o meglio ancora un album per vedere cosa hanno combinato in questi quattro anni di pausa dalla registrazione, visto che la parte live mi sembra tutt'ora attiva. (Michele Montanari)

Cidodici - Freedom Rebellion

#PER CHI AMA: Thrash, Nu metal, Crossover, Korn
Il buon Franz mi fa arrivare sulla scrivania (ormai troppo caotica) questo “Freedom Rebellion” dei bergamaschi Cidodici. Prima mi cade l’occhio sulla cover, poi però è l’adesivo con lo strillo che annuncia la presenza di Manuel Merigo (sì, è quello degli In.Si.Dia., come non li conoscete?! Rimediate subito) a incuriosirmi. Pronti, via, il disco è già lì che mi gira sul lettore; io ricevo in cambio una bella botta nei miei timpani (e anche nelle palle). I nostri attingono a un giacimento di energia e la incanalano in un prodotto che corre fluido, in cui le tracce si susseguono coerenti per struttura e atmosfere. Un album che prende spunto dal thrash, a cui sono aggiunte buone dosi di sound nu metal (tipo Korn, Machine Head e, negli inserti elettronici, Fear Factory) e qualche inserzione melodica. Il tutto è amalgamato poi in maniera abbastanza originale. Le chitarre ben suonate e gli assoli sono le cose che più risaltano e mi piacciono. Bella la prova del cantante: non ha sbavature particolari e si adatta anche a registri diversi. Ho molto apprezzato il potente e continuo lavoro del batterista; defilata e nascosta la parte di basso. Una paio di pecche si possono trovare nell’eccessiva lunghezza dell’album e nel non aver osato maggiormente su un songwriting più diversificato. Molto azzeccata la presenza di artisti ospiti: arricchiscono e danno un bel tocco al piatto. Già nell’intro melodico suona il primo, Carmelo Pipitone, chitarrista dei Marta Sui Tubi. Quindi troviamo gli assoli di Aldo Lonobile (Death SS) e Dario Beretta (Drakkar) in “A Life To Learn”, un episodio tra i più riusciti del platter. Segnalo il brano cantato in italiano “Gli Occhi Degli Altri”; l’ho trovato apprezzabile, ma anche meno quadrato rispetto agli altri (come dite? Vi pare di sentire i Linea 77? Anche a me). La band si merita una stretta di mano vigorosa per aver fatto una cover metal di “Impressioni di Settembre” (quella della Premiata Forneria Marconi), anche se non mi ha convinto del tutto l’averla mescolata ad un vecchio pezzo degli In.Si.Dia.. Certo non era una cosa facile gestire una canzone di quel tipo, ma loro ci hanno provato. Bravi Cidodici, mi permetto di consigliargli di puntare di su un prodotto ancora più personale e magari dalla durata minore. (Alberto Merlotti)

(Buil2kill Records)
Voto: 70

http://www.cidodici.net/

Drom - Hectop

#PER CHI AMA: Post Metal, Amenra, Cult of Luna, Neurosis
Tornano gli amici Drom, band originaria di Liberec (Rep. Ceca), con un album nuovo di zecca, che narra le gesta di Nestor Ivanovič Machno, anarchico e rivoluzionario ucraino che si unì alle lotte operaie, organizzando scioperi e iniziative di vario tipo dopo la Rivoluzione di Febbraio del 1917. Quattro lunghi pezzi, che si aprono con l’impronunciabile “Kruh Z Ohné a Oceli”, song che mette in chiaro subito la linea compositiva dei nostri: l’immancabile post metal che ormai da un bel po’ popola il mio lettore stereo. Ma d’altro canto, lo sapevo già, dato che li avevo apprezzati non poco con il precedente “I”. E il sound di “Hectop” non si discosta poi cosi tanto dal passato, se non per avere ingentilito la propria irruenza e aumentato le parti atmosferiche, mantenendo comunque come costante, la voce acida del frontman Charlie (in stile Amenra). Le oscure melodie continuano a costituire la matrice di fondo dei Drom, che a livello di vivacità dei suoni, mantengono sempre velocità controllate e assai cadenzate (scuola Cult of Luna), non sfociando mai in nevrotiche scariche adrenaliniche. Ascoltando “Hectop”, potrete poi cogliere le altre influenze dei nostri che a livello di suoni chiamano in causa anche i Neurosis, e questo non può che essere un punto a favore per il five pieces ceco. I pezzi, che per comodità eviterò di scrivere, data la difficoltà per la scrittura ceca (per non parlare poi della pronuncia in sede radiofonica), scivolano via ben più piacevoli che in passato, segno di un consolidato songwriting e di una maturità, che ha ormai ben poco da invidiare ai grandi act statunitensi, e che vede tra l’altro nei 13 minuti abbondanti della conclusiva “Hrob Z Ledu a Kameni”, il punto massimo di questo secondo lavoro, con un incipit affidato ad una raffinata e assai poco scontata parte acustica che si muove in territori post rock. Forse il sound del combo ceco, pecca ancora di una certa ripetitività di fondo, quando si perde negli stessi ipnotici giri di chitarra, ma il risultato conclusivo ha a dir poco del miracoloso. Che dire ancora, se non andare a visitare il loro sito bandcamp e fare vostro questo lavoro che tra l’altro esiste in sole 150 copie in 3 differenti design; e meno male che io ho già la mia… (Francesco Scarci)

Three Steps to the Ocean - Scents

PER CHI AMA: Post-Metal, Karma To Burn, Loose, Pelican
Sfornare un disco strumentale credibile non è facile: ci vuole poco a scadere nella noia, e ancor meno a ripetere gli stessi passi dei più illustri colleghi, che del post-metal senza voce, hanno fatto il loro marchio di fabbrica. Il quartetto milanese dei Three Steps to the Ocean ci prova con questo "Scents", terzo lavoro in studio dopo un EP del 2007 e un full-lenght accolto con discreto successo due anni dopo. Gli ingredienti sono quelli che già conosciamo bene, niente di nuovo: l'alternanza di rabbia e malinconia, le chitarre stratificate, le tastiere oniriche, il pathos e l'atmosfera liquida, qualche crescendo ben orchestrato e una spolverata di elettronica qua e là. Il tutto è suonato con perizia, senza inutili virtuosismi e senza un’apparente soluzione di continuità tra i brani, che scorrono uniformi e compatti come un unico viaggio di poco più di mezz'ora (scelta intelligente, la sintesi, per un genere difficile come quello strumentale). Il disco si apre con "Hyenas", tanto furiosa nell'iniziale riff di basso distorto – unico momento davvero memorabile del disco – quanto epica ed eterea nel finale. "Zilco" procede in punta di piedi per i primi due minuti e mezzo, per poi esplodere di disperazione urlata dall'unica voce del disco (è Federico Pagani dei Diskynesia). I primi dubbi arrivano con "Cobram", che dopo sei minuti un po' confusi, mi lascia con l'amara sensazione di canzone-riempitivo senza grossa personalità. "Rodleen" viene salvata da un intelligente inserto di batteria elettronica, ma il disco torna a deludere con l'ossessiva "Collider", che chiude il disco: oltre otto minuti dove i Three Steps ripetono forse una volta di troppo la ricetta "malinconia-rabbia-malinconia" già ascoltata nei venti minuti precedenti. Stimo chi affronta con coraggio e ostinazione una strada complicata come quella del post-metal strumentale. I Three Steps to the Ocean suonano bene e compongono benino, sono una realtà nostrana decisamente atipica e vanno supportati anche per la scelta di pubblicare un album col sistema del name-your-price ("Scents" si scarica dal loro sito, il prezzo lo stabilisce l'ascoltatore). Non me la sento di dire che sono noiosi, intendiamoci: il punto è che l'ascolto di "Scent" richiede davvero molta concentrazione per essere apprezzato: l'eccessiva omogeneità tra i brani rischia di trasformarlo in semplice colonna sonora di sottofondo, che dimenticherete dopo pochi minuti. (Stefano Torregrossa)

mercoledì 6 febbraio 2013

Stagnant Waters - Stagnant Waters

#PER CHI AMA: Avantgarde, Black, Industrial, Free Jazz, Shining, Abruptum, DHG
La prima cosa che colpisce – e colpisce duro, in piena faccia – al primo ascolto di questo duo franco-norvegese, è il contrasto con il nome della band: nella loro musica non c'è proprio nulla di stagnante. Tutt'altro: ascoltare gli Stagnant Waters è come essere travolti da una spirale di caos distorto che non lascia respiro, che continua a mutare forma e velocità trascinando l'ascoltatore di volta in volta in territori black metal, grind, elettronici, industrial, noise, free-jazz, progressive. Aymeric Thomas (clarinetto, batteria, elettronica) e Camille Giraudeau (chitarra, basso) tessono labirinti sonori con precisione chirurgica, sui quali l'ospite Svein Egil Hatlevik (già nei DHG di "666 International") costruisce vocals multicolore. A differenza di alcuni illustri precedenti (penso proprio ai DHG ma anche a Shining e Abruptum), gli Stagnant Waters osano di più: alla meccanica del beat digitale che scandisce una certa costruzione del brano, preferiscono il song-writing folle e centrifugo di certi lavori avant-garde di John Zorn. Il risultato è uno zapping fluidissimo di violenza distorta che assale l'ascoltatore, privandolo quasi del tutto di riferimenti stabili di tempo, genere, struttura, forma-canzone o melodia. La traccia "ССАЕР ЦНАП" (dopo l'opening "Algae", che gioca sulla tensione continua tra ruvidi segmenti death e inquietanti soundscapes) racchiude in sé il paradigma degli Stagnant Waters: 30 secondi di acidissimo riff sfociano all'improvviso in un delirio electro-death solo apparentemente senza capo né coda, dove la voce di Svein si distingue per la sua brutalità. Giusto il tempo di abituarsi al fraseggio, e ci si trova immersi in una palude jungle-jazz tra percussioni, vocalizzi di synth, clarinetti e sussurri vari. Dopo un beat di cassa techno, è l'anima post-black del trio a dominare: un lentissimo e oscuro riff cadenzato da un drumming elettronico asciuttissimo ci accompagna al termine del brano – non prima di un solo di sax che sembra uscito da "Discovolante" dei Mr. Bungle. Ancora, "Castles": un'intro orchestrale e una chiusura dissonante di piano elettrico fanno da contenitore a sfuriate di doppia cassa e cantato growl. O la lunghissima "Axolotl" (oltre i 10 minuti), in continuo equilibrio tra free-jazz e industrial, che mette alla prova l'ascoltatore con quasi due minuti finali di disturbi elettronici, arpeggiator e lamenti vocali. Intendiamoci: “Stagnant Waters” è un disco per pochi, pochissimi – un disco che molti accuseranno di essere gelidamente (de)costruito a computer, in un esercizio di follia fine a se stesso. Ma se avete orecchie e cervello sufficientemente allenati da reggere l'intero album dall'inizio alla fine, vi accorgerete che è così denso di incubi sonori da non lasciare spazio alla noia. E che, soprattutto, la visione d'insieme degli Stagnant Waters è forte e chiara: alla fine del disco, la sensazione è quella di aver percorso un labirinto delirante e malato – del quale ricorderete ben poco – ma di essere stati accompagnati per mano da qualcuno che conosceva perfettamente la strada. (Stefano Torregrossa)