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sabato 26 ottobre 2019

Nazca Space Fox - Pi

#FOR FANS OF: Instrumental Post Rock/Psych
'Pi' is the 2019 release from three piece German instrumental post-rockers Nazca Space Fox. 'Pi' opens with "Windhund", initially sounding like a dystopian future, the guitar leads the way with its serious tone and hard-rock melody, eventually sounding like Incubus in the middle with its stop/start structure. "Space Drift" is the longest track on the album, at over ten minutes long with its short dirty riff that grunges along until the groovy base line completely changes the dynamic acting as a cushion to soften the second half of the song, excluding the screeching guitar that is. "Space Farm Blues" does exactly what it says on the tin, with a laid back blues riff that continues to grow. "Hummingbird" would fit right in on an Audioslave record letting the simple hard riff speak for itself. "Showdown" returns to the ambient side of the album, initially, but it is evident throughout that Nazca Space Fox can't help themselves and need the sound of each song to evolve into hard-rock despite the sound that comes before. The final track "Grinder" feels like it has more intent, however follows suit with the rest of the album with the riff growing bigger and noiser as the song progresses ending abruptly. 'Pi' by Nazca Space Fox is hard to pin down post-rock with some obscure moments, hence why they also identify as psychedelic rockers, presenting an eclectic take on a typical hard-rock record with its inclusion of blues, ambience and groovy base lines all lead by hard-rock riffs. (Stuart Barber)

(Tonzonen Records - 2019)
Score: 65

https://nazcaspacefox1.bandcamp.com/album/pi

Treehorn - Golden Lapse

#PER CHI AMA: Stoner/Noise Rock, Post-Hardcore, Melvins, Unsane, Big Black
Gli appassionati di storia come me (appassionato suona meglio di nerd) si saranno sicuramente imbattuti nel termine “epoca d’oro”, usato per identificare l’apice di una civiltà, di una nazione, di una corrente di pensiero o artistica. Si tratta di fasi determinate dal contemporaneo verificarsi di condizioni favorevoli e che possiamo ritrovare anche su scala più piccola, come ad esempio nelle nostre vite: a tutti è capitato di attraversare un periodo particolarmente propizio durante il quale si saranno presentate occasioni lavorative, realizzazioni personali e conquiste sentimentali. Certo, nulla dura in eterno, l’epoca d’oro è destinata ad esaurirsi e magari ci saremo poi ritrovati a raccoglierne le macerie: è una legge storica ed è probabilmente il motivo per cui dovremmo soffermarci a godere di quei brevi momenti in cui tutto fila liscio, momenti d’oro appunto. In 'Golden Lapse', i Treehorn non raccontano di epoche d’oro, anche perché basta dare un'occhiata alle notizie di cronaca o scorrerne i commenti sui social per capire che sarebbe fuori luogo: l’intervallo di tempo di cui parlano potrebbe essere quello trascorso tra il 2014 a oggi, passato lontano dai palchi e senza dare segni di vita. Cinque anni di assenza sono praticamente un eone e un gruppo viene considerato spacciato per molto meno, tuttavia questa pausa è servita a far germogliare le idee del trio di Cuneo (zona dove peraltro non sembra mancare il terreno fertile per del sano rock pesante, basti pensare a Ruggine, Cani Sciorrì e Dogs For Breakfast), portando lo stoner/grunge del precedente 'Hearth' ad un nuovo stadio di evoluzione, ossia questi dieci pezzi stortissimi e furibondi che non appartengono completamente né allo stoner, né al grunge, né al noise o all’hardcore: sono dei Treehorn e tanto basta, i quali hanno miscelato questo e quel genere secondo una personale ed esplosiva formula. La prima traccia “The Recall Drug” mette subito in chiaro le intenzioni della band: è un missile sparato a velocità ipersonica verso coordinate tutte sbagliate e di cui è impossibile determinare la rotta, ma che sicuramente si schianterà su ciò che incontra. Pezzi come “Virgo, Not Virgin” (un richiamo a “Taurus, not Bull” presente su 'Hearth'), “The Same Reverse” e “Damn Plan”, si sviluppano tra spericolate cavalcate del più classico stoner rock ed improvvise destrutturazioni noise, dove la chitarra si lancia in tormentosi riff sghembi, sorretta dalle percussioni massicce e da un basso cupo e fangoso; in 'Golden Lapse' però c’è anche spazio per composizioni meno intricate e non per questo scontate o meno adrenaliniche, come “Onlooker” and “Hell and His Brothers”. “A Shining Gift” sembra essere uscita dopo un tamponamento a catena tra Unsane, Melvins e Big Black, mentre "Modigliani", che si apre con un feroce giro di basso, si avvicina invece al più malato post-hardcore, manifestando punte di estrema sofferenza e anche malinconia. Dopo il breve intermezzo atmosferico di “Lapse”, scandito da rade note di chitarra, ecco la conclusiva e pachidermica “Coward Icons” che tira le somme di tutto il lavoro. Quale sia il motivo conduttore dell’album è difficile stabilirlo: un invito al “carpe diem” probabilmente, tuttavia “Lapse” si può tradurre anche con “sbandamento morale” e i titoli di molte canzoni, così come l’artwork luciferino, potrebbero giocare sull’ambiguità del termine. In questi cinque anni di “ghosting”, ai Treehorn è accaduto quello che molti avrebbero sperato succedesse ai Tool negli ultimi tredici: trovare i giusti stimoli, le giuste energie, la coesione di tutti gli elementi della band, l’ispirazione più pura e quel pizzico di “machissenefrega, noi suoniamo” che è terreno fecondo per l’opera di un musicista. 'Golden Lapse' è un lavoro spaccaossa che gode di freschezza, suoni potentissimi e un efficace songwriting, il tutto magistralmente enfatizzato da una produzione fantastica (registrazione a cura di Manuel Volpe e master di Enrico Baraldi, scusate se è poco): prendetevi un attimo di tempo per ascoltarlo e vi garantisco che sarà il vostro momento d’oro. (Shadowsofthesun)

(Escape From Today/Brigante Produzioni/Vollmer Industries/Taxi Driver Records/Canalese*Noise/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 80

Sons of Alpha Centauri - Buried Memories

#FOR FANS OF: Instrumental Industrial/Post Rock
'Buried Memories' is the 2019 instrumental release from industrial post-rock band Sons of Alpha Centauri (SOAC). The album is immediately intriguing as the first three tracks are separate mixes and remixes of the same track "Hitmen" by Justin K. Broadrick. The first is a standardized mix with dark distortion, typical of its genre, lacking depth, until the final two minutes of the track, that resembles Pantera, however that maybe an overreaching comparison. The second remix feels more original with haunting sounds that accompany the distorted instrumentation and even though it continues the dark theme there are hints of ambience and lightness layering the mix creating more depth to the sound. The third remix follows nicely with a literal more industrial sound, with the rhythm section being replaced with what can only be described as a moving machine, with the song evolving into a haunting wobble. The second half of the album is mixed and remixed by James Plotkin who improves the sound massively with his creativity and originality. "Warhero" strips back the effects with cleaner sounds creating a mild uneasiness at first, until the marching band style drumming begins and the conventional repetitive heavy guitar riff takes over. "Remembrance" delivers the optimum industrial sound of the album with moments of almost silence at times that seemingly include the sound of rain drops echoing in a cave. SOAC saves the best for last with the final track "SS Montgomery" - the single taken from their debut album. Remixed again by James Plotkin it begins with a pleasant base line and a truly original and unique drum beat. The remix is reminiscent of "Wake Up" by Rage Against the Machine with an outro that leaves you wanting more. SOAC deliver an original idea with this record and the collaboration with James Plotkin elevates their sound to new heights. (Stuart Barber)


mercoledì 23 ottobre 2019

Halma - The Ground

#PER CHI AMA: Post Rock strumentale
Se avete bisogno di rilassarvi e ricaricare le batterie, non c'è niente di meglio che affossarvi in una bella poltrona comoda, un po' di penombra ed un volume dello stereo non troppo elevato, lasciando fluire nel vostro corpo e mente, le note di questo nuovo capitolo dei teutonici Halma. 'The Ground' è il titolo del loro settimo album, se non vado errato, con il quartetto di Amburgo a prenderci per mano e farci fare un giro nel loro sottosuolo. Mentre me ne stavo spaparanzato ad ascoltare il cd però, le immagini che mi si compongono nella mente sono più quelle di un giro notturno per una luminosissima città sconosciuta; fuori dall'auto il caos, ma io dentro mi ritrovo ovattato in anomali suoni, costituiti da timidi bassi e flebili percussioni, come quelle che potete assaporare durante l'ascolto di "Advanced Construction" o "Peak Everything", le prime due song di 'The Ground'. Per quanto i quattro musicisti ci propongano una forma strumentale di post rock, sappiate che l'ascolto del cd non è propriamente dei più semplici. Potrete ritrovare infatti divagazioni noise, proprio come accade nella seconda parte di "Peak Everything", oppure lisergiche partiture psyck rock, perennemente guidate da quel basso che sembra essere lo strumento portante degli Halma, e che nel corso ritroveremo tonante a tratti, tipo quando sostiene la linea di chitarra di "CK and Why?", più sciamanico nel suo incedere nella seconda parte dello stesso brano, che per certi versi mi ha evocato un che dei The Doors. Il disco prosegue su queste coordinate anche con le successive "It Could All Be Different", song asfittica ed eccessivamente ridondante per i miei gusti, in quel suo nebuloso incedere. Troppo spazio infatti viene concesso al basso e dopo il un po' il rischio di annoiarsi è dietro l'angolo, invece quando è la chitarra a prendersi la scena, le cose si fanno più interessanti. Detto che in un simile contesto, una voce ci stava verosimilmente come il pane a destabilizzare un sound talvolta troppo monolitico, il cd prosegue con la malinconica e riverberata verve di "Keep it in the Ground", dove ancora l'abuso del basso finisce per abbassare il mio indice di gradimento verso la band. Ed è un peccato perchè i presupposti iniziali erano più che positivi, perchè va bene rilassarsi, ma qui il rischio è di piombare in un sonno pesante. (Francesco Scarci)

Magic Pie – Fragments of the 5th Element

#PER CHI AMA: Hard Rock/Prog Rock, Kansas
Ci sono voluti alcuni anni di attesa per gustare il ritorno in grande stile della navigata band norvegese dei Magic Pie, che al quinto album, uscito per la Karisma Records (prodotto ottimamente da Kim Stenberg e mixato in maniera esemplare da Rick Mouser), tocca una vetta artistica notevole, compiendo un ulteriore balzo in avanti nella qualità musicale proposta, offrendo un disco variegato e ricercato da veri esperti, sapienti e conoscitori del genere prog/retro rock, ovviamente rivisitato e adattato in chiave moderna, da sempre manifesto intento della band. Le indiscutibili doti compositive ed esecutive si esprimono al meglio sin dal primo dirompente singolo di questo 'Fragments of the 5th Element', intitolato "The Man Who Had It All". La song incanta con i suoi virtuosismi sopraffini ed una spettacolare composizione degna di nota, spostandosi tra il Gabriel e i suoi Genesis storici, aperture beatlesiane e fraseggi alla Dream Theater/Marillion, ed uno scambio di voci e cori curatissimo che proseguirà per tutto il disco, canzone dopo canzone, caratterizzandolo fortemente. Tracce di hard rock in stile Kansas e pefino dei vecchi Judas Priest, scorrono nelle vene di "P&C (Pleasure & Consequences)" con un corridoio free jazz rock inaspettato e una coda di chitarra e tastiere per un finale melodico che mostra una band perfettamente in grado di giocarsela anche con le ultime uscite dei Deep Purple. Da notare la splendida voce di Eirikur Hauksson che riporta in auge il tono rauco appena accennato, da sempre di casa anche nei fantastici Jethro Tull d'annata. "Table for Two" è un pezzo impressionante, che riesce a fondere l'elaborata leggerezza rocciosa dei Kansas con il suono cosmico di "Alladin Sane" del duca bianco, e lo spettro sofisticato del più recente Bowie si aggira anche in "Touch by an Angel", una ballata virtuosa che rimanda al romanticismo futurista di Nad Sylvan. Ci si abbandona al puro piacere nella lunga "The Edonist", brano conclusivo, complicato e multicolore (come la splendida copertina del cd, cosi raffinata ed intrigante) di circa 23 minuti, carico di ricercati snodi stilistici alla Yes, o alla maniera di Neal Morse con tanto di aperture nel segno di Gillan e compagni, a cui aggiungerei anche, in alcuni tratti, una certa colta aggressività alla ELP, un piccolo gigante sonoro che non deluderà gli amanti del progressive rock, volto a rinvigorire i fasti del passato, una musica progressiva capace, intelligente ma soprattutto esageratamente piena di vita. Lunga vita al Prog Rock! (Bob Stoner)

domenica 13 ottobre 2019

Vixa - Tutto a Posto

#PER CHI AMA: Crossover/Rapcore
Scrivo Vixa ma va letto vipera, sarà fatto e mi adeguo. 'Tutto a Posto' è l'album d'esordio di questo quartetto ferrarese che ammetto non incontrare proprio i miei gusti musicali, ma cercherò di essere quanto mai oggettivo nell'analisi del presente lavoro. Si parte col noise rock introduttivo di "Sbaglio da Me", una song che per almeno il primo minuto mi lascia ben sperare tra ritmiche cibernetiche ed un riffing compatto; quello che temevo era il cantato in italiano e le mie paure si tramutano in dura realtà, difficile da digerire perchè è il classico modo di fare degli artisti italiani che affidano interamente la scena al vocalist (non proprio un maestro nel canto), relegando in secondo piano gli altri strumenti, ma perchè? Molto meglio infatti la seconda parte del brano, quando voce e ritmica vanno a braccetto, anche se la performance vocale di Alen Accorsi lascia un pochino a desiderare. Ancora un buon inizio con "Borderline", tra l'altro il singolo apripista del quartetto, che si qui lancia in una commistione sonora tra crossover, rapcore e un roccioso rock, quasi un mix tra Rage Against the Machine, Faith No More ed IN.SI.DIA, il tutto condito da un colorito utilizzo delle liriche a base di "vaffanculo vari". Decisamente un passo in avanti rispetto all'opener. Con "Immobile", la sensazione, per lo meno iniziale, è di apprestarsi all'ascolto di un brano grunge, in realtà poi è un'alternanza ritmica adombrata a tratti, ancora dalla voce del frontman. E dire che la song si muove piacevolmente su coordinate stilistiche che evocano un che dei Deftones, ma ci sono ancora un po' di cosine da aggiustare, perchè la strada sembrerebbe quella giusta, soprattutto quando la performance vocale si amalgama in modo ottimale con gli altri strumenti. "Veleno (parte 1)" è un massiccio pezzo strumentale che si chiude con una sorta di parodia rap. "Riserva di Calma" è un altro brano che combina rap e rock, che forse poteva anche andare alle selezioni di X-Factor, pur di evitare di cadere tra le mie grinfie e dire che comunque a livello di testi, i Vixa sono anche interessanti (e socialmente attivi). "Veleno (parte 2)" è un brevissimo intermezzo che ci porta a "Illuso", il pezzo più oscuro del lotto soprattutto a metà brano dove c'è un bel rallentamento atmosferico e degli ottimi suoni, tra stoner e space rock, decisamente il mio pezzo preferito e anche quello più convincente, soprattutto per l'uso di voce e keys. "Lavoro di Stomaco" sembra aprire sulle note di uno dei primi pezzi dei Metallica per placarsi immediatamente e affidare lo stage ad Alen in un'evoluzione litfibiana del brano di cui sottolinerei il chorus, graffiante e accattivante quanto basta. A chiudere il disco ecco la nevrotica title track, schizoide nella sua natura ritmica e rapper nel cantato, infine detonante nella sua magnetica conclusione. Un lavoro per quanto mi riguarda interessante, che con qualche aggiustamento in più, potrebbe conquistare anche la fiducia di chi come me, non ama queste sonorità. (Francesco Scarci)

((R)esisto - 2019)
Voto: 67

sabato 12 ottobre 2019

Acid Brains - As Soon as Possible

#PER CHI AMA: Grunge/Punk Rock
Gli Acid Brains sono una storica band toscana, formatasi addirittura nel 1997 e dedita ad un alternative-punk rock, che torna a farsi largo sulla scena con questo nuovo sesto album dal titolo ben chiaro, 'As Soon as Possible'. Appena possibile quindi date un ascolto a questo lavoro che si muove dall'ipnotica opening track, "Our Future", giocata su profonde partiture di basso e voce, a cui segue una bella e potente linea di chitarra. Con "Go Back to Sleep", le carte sul tavolo si sparigliano e si torna a parlare di un classico punk rock, orecchiabile e canticchiabile quanto basta per farci venire voglia di saltare e urlare come pazzi, proprio come lo sguaiato urlo che il frontman riversa verso la fine del pezzo, mentre le ritmiche corrono arrembanti e ci conducono con furia a "Sinners". Il motivetto di chitarra e voce iniziali entrano nella testa e da li non se ne escono grazie a quella graziata ritmica che contraddistingue la song. Suoni leggeri che sfiorano addirittura la psichedelia in "Really Scared", un pezzo che mostra un'apertura quasi di scuola floydiana, prima che la song s'incanali in una linea melodica più lineare rispetto alle precedenti, sicuramente più seriosa e meno scanzonata, quasi a dire che gli Acid Brains vanno presi sul serio. Ma l'eterogeneità è parte del DNA dei nostri e allora in "Not Anymore", eccoli proporre un sound decisamente più roccioso e grunge oriented (penso ai Nirvana più rozzi e cattivi), e non a caso questa sarà anche la mia song preferita del lotto. C'è tempo ancora per un paio di canzoni cantate questa volta in italiano, "Capirai" e "Canzone di Settembre": la prima, nonostante il riffing bello compatto che chiama in causa i System of a Down, perde potenza quando si palesa il cantato in italiano. La seconda, è un esempio di pop rock che ho fatto più fatica a digerire, cosi lontana dai miei canoni sonori, ma ci sta considerata appunto l'ecletticità degli Acid Brains. Discreto ritorno, peccato solo che la durata del cd sia piuttosto risicata, avrei optato almeno per un paio di pezzi in più. (Francesco Scarci)

Solitude in Apathy - S/t

#PER CHI AMA: Dark/New Wave/Gothic
I Solitude in Apathy sono un trio campano formatosi nel 2016 e guidato dalla calda voce di Santina Vasaturo, la cui avvenenza vocale funge da vero driver di questo lavoro omonimo. Si tratta di un EP di quattro pezzi aperti da "Dreaming in Silence", ove a mettersi in mostra, oltre ai tratti vocali della front woman, ci sono pure le partiture post punk/new wave del combo napoletano. Il sound è fumoso e ci porta indietro nel tempo di quasi trent'anni, con quegli ammiccamenti alla scena dark di fine anni '80, affidati al basso tortuoso della stessa Santina ed in generale ad un suono che proprio limpidissimo non è. Ma dopo tutto, sembra non essere nemmeno un difetto nell'economia generale di questi 22 minuti di musica targata Solitude in Apathy. Soprattutto perchè, con la seconda "Nothing Lasts Forever", i nostri virano verso uno shoegaze più meditativo e fortemente malinconico, la classica song atta ad aprire la stagione autunnale, con l'appassire delle foglie, le umide giornate novembrine, i vetri delle finestre bagnati dalla condensa e quei cieli dipinti di un grigio privo di sfumature. È un sound delicato, non certo ricercato, ma che gode di influenze che ci portano anche della sfera del gothic e dell'alternative. "The Other" è la terza traccia, peraltro anche singolo apripista dei nostri: la voce eterea della vocalist poggia suadente in apertura sul suo basso, ricordando le cose più solenni e tranquille di Myrkur (in formato new wave), cosi come un che dei primi vagiti di Kari Rueslåtten, alla guida dei primi The 3rd and the Mortal. Niente di originale sia chiaro, tuttavia non posso negare il fatto che il brano sia comunque piacevole da ascoltare, anche se francamente avrei osato qualcosina in più. L'ultima song è "Ocean", l'ultimo onirico canto della sirena Santina, in una sorta di ninna nanna che avrei utilizzato come chiusura di un full length piuttosto che di un EP. Avrei gradito infatti più ciccia ecco, i due minuti di flebile chitarra sul finale sono un po' pochini per farmi gridare al miracolo. Pertanto, sappiate che attenderò il trio italico al varco di un album più lungo e strutturato prima di dare giudizi conclusivi. Per ora benino, ma si sa, io pretendo il molto bene. (Francesco Scarci)

(Vipchoyo Sound Factory - 2019)
Voto: 66

https://solitudeinapathy.bandcamp.com/releases

Lucy Kruger and the Lost Boys - Sleeping Tapes for Some Girls

#PER CHI AMA: Psych Folk
Il paesaggio rimane immobile, tutto rimane immobile, luminoso, splendente e riflessivo, dopo l'ascolto di questo album edito dalla Unique Records. Tocchi leggeri di chitarra a scandire melodie astrali di una voce incantevole, ritmi leggeri, eterei, appena accennati per introdurre arie di magica seduzione e ipnotica malinconia. Solo così si può spiegare la seconda uscita, 'Sleeping Tapes For Some Girls', di questo splendido progetto della songwriter Lucy Kruger (già voce degli ottimi Medicine Boy) proveniente da Cape Town ma berlinese per la gestazione della sue opere sonore, che suona come Hugo Race & The True Spirit a rallentatore, rievocando la candida psichedelia folk e blues degli Opal, dei primi Low e le atmosfere evanescenti di certi Slowdive (epoca 'Souvlaki') virati al folk con la struggente malinconia acustica dei Cranes più delicati e se non possiamo premiarli col voto massimo all'originalità, poiché il genere intrapreso è ferreo nelle sue caratteristiche estetiche, li premieremo per l'implacabile bellezza di cristallo della Kruger, che in "Digging a Hole" stringe alleanze niente meno che con l'inarrivabile voce della mitica Nico. Brano dopo brano ci si addentra in un universo intimo ed introspettivo, la splendida "Half of a Woman" potrebbe far impallidire o svanire i brani dell'ultimo album di Florence and the Machine, per intensità e profondità espressiva. Il freddo del nord s'impossessa della chiave più intima del caldo verbo folk e sfodera gioielli di raffinata e rara bellezza, come "Cotton Clouds", una canzone così immobile, glaciale e sospesa in aria tanto irreale quanto magnifica. Ecco, da qui in poi il disco, che gode di una sonorità encomiabile, snocciola un gioiello dopo l'altro, accompagnando l'ascoltatore verso la conclusione, con una mistica sensualità destabilizzante, tra rituali e canti dal sapore antico e sciamanico, visioni di paesaggi sconfinati e irraggiungibili, tra Sharron Kraus e gli Hagalaz Runedance in salsa "All Tomorrow's Party (The color of Dirt)", un viaggio incredibile verso il mondo interiore, ove aprire il proprio cuore per aprire la mente attraverso le cerebrali composizioni di questa fantastica cantautrice, dalla spettacolare voce magnetica e seduttiva. (Bob Stoner)