sabato 2 febbraio 2019

Rostres - Les Corps Flottants

#PER CHI AMA: Post Metal Strumentale, Pelican, Pg.lost
Dai Pirenei ecco scendere i Rostres, duo proveniente da un piccolo villaggio rurale al confine tra Francia e Spagna, per proporre il loro sound strumentale all'insegna di un post metal dalle fosche sfumature post rock. Si rivela rischioso proporre un disco senza il minimo accenno di vocals, però voglio immediatamente spoilerarvi il finale: i due ragazzi di Pau hanno superato la difficile prova. Non era facile, perchè conoscete la mia allergia a sonorità interamente strumentali, che mi porta ad annoiarmi ben presto per quella che trovo essere una privazione fisiologica di uno dei più importanti strumenti di una band, la voce appunto. Eppure il duo transalpino s'impegna con una certa efficacia a portare a casa un lavoro pulito e convincente già con l'iniziale title track e i suoi otto minuti di oscure sonorità post metal, che tra tonanti riff di chitarra e sospese melodie dal sapore etereo, mi conquista sin dai primi istanti. Credo tuttavia che sia la successiva "Exorde" a cogliere in pieno tutta la mia attenzione: inizio quasi ambient, guidato da tocchi di basso, pizzichi di chitarra e sfioramento di piatti, per quella che sarà una vera progressione musicale atta a condurci all'estasi. Non servono voci se sei in grado di riempire gli spazi con una musica adeguata, qui a tratti quasi dronica, pur vantando una ritmica che potrebbe stare su un lavoro qualsiasi dei Cult of Luna. Si prosegue con la malinconica delicatezza fluttuante di "Méandres", una song che dipinge freddi paesaggi in bianco e nero, come quelli esposti nell'artwork del disco. La traccia avanza un po' ipnotica e paranoica almeno fino a quando ad innescarsi è la ritmica possente del duo formato da Alain e Lionel. L'attacco tribale di "118" invece entra e s'insinua nella testa, e da li non accenna a muoversi in un mantra evocativo evocante anche i Pg.lost. Sublimi, non c'è che dire dal momento che ho amato alla follia anche l'ultima release della band svedese. Più hardcore oriented "Glaire", figlia di un retaggio ruvido e genuino che in passato ha fatto parte del bagaglio musicale dei Rostres. Non mancano tuttavia nemmeno qui quei momenti di quiete in grado di stemperare il lato più arcigno dei due musicisti, azzeccatissimi e curati senza ombra di dubbio. Una semplicissima chitarra acustica apre la più lunga delle canzoni, "Au Faîte des Honneurs", una song che si dilunga forse un po' troppo nell'apparato introduttivo (circa tre minuti) per poi dare libero sfogo alla sua dirompente furia elettrica, spezzata solo da altri intermezzi ambientali, in un esperimento interessante ma a tratti interlocutorio e poco incisivo. Ancora scosse di adrenalina nel finale affidato alla corrosiva matrice ritmica di "Déversoir", gli ultimi cinque schizofrenici minuti di questo consigliatissimo 'Les Corps Flottants'. (Francesco Scarci)

Morso – Lo Zen e l'Arte del Rigetto

#PER CHI AMA: HC/Punk/Noise Rock
Il posto dell'hardcore nella penisola italiana è sempre stato di prima linea, un laboratorio underground di musiche estreme che spesso e volentieri fu poco considerato, vittima di esterofilia, bistrattato, dimenticato, ma a volte osannato, sicuramente dai fedelissimi tanto amato. I tempi cambiano e si va avanti, ci si evolve. Questo è il caso dei lombardi Morso, che rifacendosi in parte al titolo di un libro assai piacevole, hanno sfoderato un bel disco di musica tesa e moderna, cantato in lingua madre, veloce e convincente. Certo, le derivazioni ci sono ma non eccedono, quindi le mie lodi vanno ad un vocalist (Guido) di tutto rispetto, che si fa notare e che, a discapito di una lingua così difficile da accostare a questo tipo di sonorità, il tutto per farsi capire, adagia un canto così dinamico e potente che, canzone dopo canzone, si ha l'idea di essere davanti ad un disco ben studiato e soprattutto molto ispirato. La formula è un HC di nuova estrazione, con qualche spinta verso il metal, come fecero a loro modo i Negazione, combinata con l'isteria matematica dei The Dillinger Escape Plan sullo sfondo (anche se tecnica e cambi di tempo estremi non sono una priorità della band), il tono polemico tra urla e proclami alla Teatro degli Orrori (anche se qui manca quel lessico spinto, di ardore politicamente scorretto e i Morso inseguono tematiche decisamente più socio/esistenziali), e tutta una serie di richiami in ordine sparso a Marlene Kuntz, Afterhours, Contrasto, perfino i Subsonica, in piccole dosi nelle parti più melodiche (poche e mirate). Così, hardcore, noise e punk alternativo tirato e tosto vanno a braccetto (sarà la buona produzione suggerire un certo richiamo ai Jesus Lizard), suonati al fulmicotone, sparati in faccia all'ascoltatore per far male e toccarlo nelle ferite più vive, evocando un che degli RFT. Il disco vola e diverte, la sua carica esplosiva e il carattere oltraggioso e pessimista dei testi, che hanno la buona virtù di permettere a tutti di potersi rispecchiare (di questi tempi non è poco per la musica italiana in generale), fanno in modo che brani velocissimi come "Liberaci dal Male", "Glamour Suicide", "Il Fine Giustifica i Mezzi" e la favolosa "Ex" (con la sua E meneghina accentuatissima e splendidamente glam!), oppure la conclusiva "Sognavo di Essere Bukowski", diventino inni alla battaglia, inni alla resistenza per la sopravvivenza quotidiana. Alla fine questo album, licenziato via dischi Bervisti (piccola etichetta coraggiosa e piena di buon gusto musicale), è una gran bella sorpresa, un disco sanguigno e intellligente di musica estrema che potrebbe indicare una nuova via percorribile per il futuro della musica alternativa in Italia. (Bob Stoner)

(Dischi Bervisti/Cave Canem DIY - 2019)
Voto: 80

https://dischibervisti.bandcamp.com/album/lo-zen-e-larte-del-rigetto

Tarpit Orchestra - Songs About Dragons

#PER CHI AMA: Stoner/Hard Rock, Kyuss
Uno stoner alla Kyuss, primi Queens of the Stone Age, quello dei finlandesi Tarpit Orchestra: chitarre scure, riff pesanti, martellate su martellate. Gli arrangiamenti e le canzoni scorrono senza intoppi in questo 'Damn Dragon', anzi forse un po’ troppo senza intoppi. Mi spiego meglio. Senza dubbio, la band ha una tecnica e una capacità musicale superiori alla norma, tuttavia nel genere iper inflazionato dello stoner, è necessario essere più originali degli altri per spiccare fuori dalla bolgia di band ormai troppo similari tra loro. E in tutta onestà, i Tarpit Orchestra non sono riusciti in questo intento, almeno non completamente. Ora magari io sono abituato a suoni più estremi e a band più pazzoidi, tuttavia non voglio affossare un lavoro obiettivamente ben fatto, molto curato e tecnicamente non scontato. Un plauso va alla voce, sempre sporca al punto giusto e diretta nella sua semplicità, oltre che all’arrangiamento dei pezzi, molto ben architettati, e di cui segnalerei il trittico iniziale formato da "Dues", "Songs About Dragons" (con quel suo stile vocale vicino ai Baroness) e la fortemente grooveggiante "Engines", peraltro le uniche song ascoltabili sul sito bandcamp del quartetto di Oulu. Alla fine, 'Damn Dragon' rappresenta il disco giusto per chi ha voglia di sentire una band stoner cazzuta, qui non troverete sicuramente strane sorprese! (Matteo Baldi)

venerdì 1 febbraio 2019

Loneshore - From Presence To Silence

#PER CHI AMA: Prog Death Doom, Opeth
In Brasile, il Sole deve ormai aver ceduto il passo alle tenebre. Solo in questo modo si spiegherebbe la ragione dell'uscita funerea degli Helllight e ora di questi Loneshore, provenienti addirittura dalle spiagge assolate di Rio de Janeiro. Il quintetto di Rio però, a differenza dei più illustri colleghi dediti al funeral, offre un sound che, per quanto nelle propria struttura veda l'utilizzo di qualche partitura doom, ammicca principalmente agli Opeth di 'Blackwater Park', quale influenza primaria. La cosa è chiara fin dall'opener "The Quiet Visitor", undici minuti in cui i carioca giocano con fraseggi prettamente progressivi, pur mantenendo intatta una certa asprezza a livello ritmico e propinando un dualismo vocale tra growling e screaming vocals davvero intrigante. In tutto questo, non mancano alte dosi di melodia che si sprigionano attraverso le sei lunghe tracce contenute in 'From Presence To Silence'. Detto degli undici minuti iniziali dell'opening track, ne seguiranno altri dieci con l'oscura "Effigy", un pezzo che ben si muove tra riffoni tosti, strutture articolate, ma soprattutto dove il pezzo forte, oltre alle splendide melodie di chitarra, è rappresentato dalla comparsa di clean vocals che poggiano sui vari cambi di tempo che contraddistinguono il pezzo, un buon pezzo. L'arpeggio in apertura di "Winds Of Ill Omen" ricorda inequivocabilmente gli innumerevoli brani degli Opeth che furono, quelli che iniziavano brillantemente le loro canzoni in questo modo tra le melodie gentili di una chitarra acustica e le proseguivano anche meglio, in pezzi ben calibrati tra melodia e aggressività. E i Loneshore non sono tanto distanti dall'emulare le gesta del periodo di mezzo degli eroi svedesi capitanati dal buon Mikael Åkerfeldt, alla stregua di quanto fecero agli esordi gli statunitensi Daylight Dies. Questo per dire, che fondamentalmente la band brasiliana non inventa nulla di nuovo, ma quello che suona, non cosi facile da proporre, mostra comunque le qualità di una band già rodata e che vanta un buon gusto per le melodie, un'ottima preparazione tecnica e qualche idea non proprio da buttare. Se in tutto questo ci mettessero anche un pizzico di personalità, credo che mi ritroverei quei ad osannare 'From Presence to Silence' anzichè dire che di strada da fare per trovare un proprio stile personale ce n'è da fare ancora parecchia. Nel frattempo se siete dei nostalgici dei vecchi Opeth, e vi piacciono anche le accelerazioni post black (ascoltatevi la title track), beh credo che il lavoro dei Loneshore possa supplire egregiamente a questa vostra mancanza nell'attesa che prima o poi Mikael e compagni rinsaviscano. (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music - 2018)
Voto: 75

https://loneshore.bandcamp.com/releases

Rome In Monochrome - Away From Light

#PER CHI AMA: Gothic/Doom, Klimt 1918
A quasi un anno dalla sua uscita, ma per incolpevole ritardo, ecco giungerci fra le mani l'album di debutto dei nostrani Rome in Monochrome, 'Away From Light', rilasciato dalla potentissima label russa Solitude Productions nella sua sub-label BadMoonMan Music. La proposta del quartetto italico, ripercorrendo le orme di gente del calibro di Novembre e Klimt 1918, tanto per fare due nomi a caso, ma rifacendosi anche al loro stesso moniker, si muove nell'ambito di un doom malinconico in bianco e nero che chiama in causa anche un che dei Katatonia più alternativi. Certo, ho citato nomi importanti quindi le aspettative potrebbero essere elevate, vorrei però sottolineare che siamo ancora parecchio distanti dai maestri del genere, anche se i Rome in Monochrome potrebbero rappresentare una discreta alternativa agli originali. Otto le tracce a disposizione della compagine italiana per convincerci della bontà della loro proposta, che parte dalle soffuse atmosfere di "Ghosts Of Us", song dal flavour dark rock che solo nel finale rende più aspro il proprio sound per il solo fatto che un growl sostituisce un cantato pulito a dire il vero un po' titubante. "A Solitary King" ha un piglio più dinamico, sebbene le clean vocals del frontman non abbiano grossa presa sul sottoscritto, considerando poi una musicalità che si mantiene costante nel proprio lento fluire e che vede solo rare intemperanze alterare quell'incedere quasi etereo, che finalmente nella seconda parte del brano, ha modo di crescere ritmicamente e divenire più robusto e convincente. Convincente quanto "Paranoia Pitch Black", una song che poteva stare tranquillamente nell'esordio dei Klimt 1918, o in un disco come 'Arte Novecento' dei Novembre (ah peraltro in questa song, il cantato in scream è ad appannaggio del buon Carmelo Orlando, frontman dei Novembre stessi). La proposta della band laziale è interessante, ma c'è ancora qualcosa che non mi convince, sembra quasi che le manchi quel quid che le permetta di decollare. È il caso di "Uterus Atlantis", un brano semi-acustico, che potrebbe evocare un che degli Antimatter, però anche in questo caso, la band inglese la vedo ancora troppo superiore ai nostri. Il disco alla fine non ha troppi sussulti: forse la mia song favorita sarà "December Remembrances" che, se non è la traccia più aggressiva del lotto (e quell'aggressività la metterei fra virgolette), sicuramente risulterà tra le più lunghe, con i suoi abbondanti nove minuti di sonorità emotivamente rassegnate. Ancora qualche pezzo claudicante, per arrivare a concludere con "Only the Cold", dove il doom dell'act capitolino sprofonda nelle tenebre di una proposta che rivela una maturità artistica ancora non del tutto formata. Sicuramente ci sono buone idee, ma quello su cui lavorerei maggiormente io, è eliminare quella statiticità che permea ogni singolo brano, per questo poco caratterizzato ed elettrizzante. Per ora 'Away From Light' è solo un discreto esordio sulla lunga distanza, direi che c'è ancora da lavorare parecchio per ottenere ottimi risultati. (Francesco Scarci)

mercoledì 30 gennaio 2019

Saint Sadrill - Pierrefilant

#PER CHI AMA: Neo Prog/Avantgarde/Indie/Psichedelia
Al primo ascolto sono rimasto folgorato da questo nuovo album dei transalpini Saint Sadrill, un ensable di musicisti atipici e geniali, in grado di generare un'infinità di emozioni, trasportandomi in un viaggio dai mille colori ed emozioni multiformi, attraverso i molteplici generi musicali rivisti in modo originalissimo e personale dalla band di Lione in questo 'Pierrefilant'. Mi sono perso nel guardare il loro splendido ed intimo "Live at Studio Rouge in Rivolet" del febbraio scorso, presente su youtube, dove il sestetto conferma la mia impressione di trovarci di fronte ad un super gruppo, con grandi capacità compositive, tecniche, canore ed espressive. L'album è uno spasso, per veri intenditori. Ci si sposta musicalmente con cotanta velocità e dimestichezza che mi risulta impossibile decifrarlo o definirlo a modo in poche righe. Potreste accostare un'attitudine elettro-minimalista con un appeal da composizioni cameristiche, una sensibilità soul grazie ad un canto in stile Antony and the Johnsons con la follia di un giovane Arthur Brown nel pieno di un sogno psichedelico; il post rock sofisticato e suadente proveniente dalla cristallina Islanda con la musica indipendente fatta di chiaroscuri emotivi degli Ulan Bator e ancora, la visione astratta e mistica del più fantasioso Terry Riley con il krautrock più ipnotico e meno convenzionale, i suoni space di Suzanne Ciani, con le vellutate sperimentazioni progressive di Steven Wilson, il tutto capitanato da un vocalist dall'estensione decisamente fenomenale. Sarebbe stupido descrivere ogni singolo brano come pure prenderne uno per dire che è il migliore, le canzoni sono cosi piene di vita, dai risvolti inaspettati, che partendo da un lato introspettivo, ci si può trovare a confrontarci con un coretto cantato alla maniera burlona del mitico Zappa o dal tono ecclesiastico del miglior alternative country, per continuare in un chitarrismo che ricorda le atmosfere dei Madrugada in 'Industrial Silence', o l'incedere moderno, intellettuale e neo prog dei The Pinneaple Thief, per finire nel jazz rumorista dei mai dimenticati meravigliosi Shub Niggurath, sempre in agguato ma nascosto tra le righe, di questi dieci brani dalla delicatezza infinita. Una rabbia dolce, sofisticata, sovversiva, fuori dal coro, capace di graffiare con il suo ammaliante potere di essere pop d'autore e avanguardia al tempo stesso, in un capolavoro fatto uscire dallo stravagante collettivo Dur & Doux, un disco che non merita di passare inosservato, un gioiellino da mettere sotto il cuscino e tenerlo stretto come un tesoro. Album geniale e ispirato. (Bob Stoner)

(Dur & Doux - 2018)
Voto: 90

https://saintsadrill.bandcamp.com/

martedì 29 gennaio 2019

Monolithes - Limites

#PER CHI AMA: Experimental/Jazz/Fusion
Francia, Francia, nient'altro che Francia. Sembra ormai che il panorama mondiale musicale sia dominato in lungo e in largo da band provenienti dal paese dei nostri cugini, e non sto parlando solo in ambito estremo. Quest'oggi infatti, abbiamo a che fare con quest'astrusa realtà prog jazz metal, i Monolithes, ensemble che ha peraltro vinto il concorso “Jazz de la Défense” nel 2017, e che in formazione non vede solo la classica batteria e chitarra ma addirittura vibrafono e contrabbasso, a segnare l'estrosa identità del quartetto di Nantes. Basta poco per accorgersi della complessità della proposta di questi quattro pazzoidi, che lungo i 72 minuti a loro disposizione (in sole sei tracce!) esplorano e spaziano orizzonti musicali alquanto indefiniti. Se l'opener "Ploton le Furieu" funge più da intro, nei suoi quasi cinque minuti ci dà un'idea della intenzioni musicali jazz/post rock che dovremo attenderci, facendoci però capire quanto sarà davvero ostico affrontare l'ascolto di 'Limites'. Questo lo si evince già con gli schizofrenici dodici minuti di "Limite les Rêves Au-delà", dove sarà chiaro quanto al quartetto francese piaccia muoversi nella più totale improvvisazione musicale tra ritmi etnici, noise e jazzcore, in uno dei brani più complicati ascoltati - sin qui - nella mia lunga militanza estrema (e sto parlando di oltre 30 anni!). La song è un susseguirsi di umori, suoni, note messe caoticamente in ordine dall'entropia musicale in costante aumento sprigionata dalla band. Letteralmente sfiancato da questa mini maratona, mi appresto ad una ancor più ampia fatica, con i sedici interminabili minuti di “Tears Point”, in cui sembra regnare, almeno inizialmente, il silenzio del vuoto cosmico, poi rumori alieni, spezzoni disarmonici di musica indecifrabile, scale ritmiche buttate giù casualmente in una caldera di stili musicali deprivati della classica forma canzone. È sperimentazione avanguardistica, fatta dalla fusione di molteplici stili provenienti da questo mondo e da uno dei milioni di miliardi di mondi extraterrestri. Al peggio non vi è mai fine se parliamo di durate, perchè c'è ancora da affrontare la psicotica "Panglüt" e i suoi infiniti 20 minuti, ove spiegarvi cosa si va a coniugare nelle sue note, diventa impresa assai ardua. Vi basti pensare alle classiche trame jazzistiche, aggiungeteci un pizzico di metal, prog, suoni etnici, drone, silent noise (quasi 10 minuti), ambient e qualsiasi altra cosa che abbia poteri destabilizzanti per la psiche umana, e il gioco è fatto. A completamento di quest'opera magna, ecco arrivare "Chasuble", una bonus track, neanche ce ne fosse il bisogno, stralunato come mi ritrovo ora, dopo aver prestato il fianco a quasi un'ora di musiche e pronto ad affrontare altri sedici minuti, in grado di sovvertire completamente ogni mio concepimento sonoro. Ma l'ascolto di quest'ultima traccia è cosa assai semplice, è meditazione buddista, rilassamento per la psiche, melodie cosmiche, pronte a condurci alla pura essenza del nirvana. Improbabili. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 75

https://monolithes.bandcamp.com/album/limites

domenica 27 gennaio 2019

The Pit Tips - Best of 2018

Francesco Scarci

Avast - Mother Culture
Entropia - Vacuum
Between the Buried and Me - Automata I-II

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Dominik
 

Funeral Mist - Hekatomb
Sargeist - Unbound
Eïs - Stillstand und Heimkehr

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Five_Nails

Birnam Wood - Wicked Worlds
Horn - Retrograd
Atlas - The Destroyer of Worlds

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Pietro Cavalcaselle
 

A Perfect Circle - Eat the Elephant
Denzel Curry - TA13OO
Kid See Ghosts - Kid See Ghosts

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Shadowsofthesun

Daughters - You Won't Get What You Want
YOB - Our Raw Heart
Manes - Slow Motion Death Sequence

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Alain González Artola
 

Bloodbark - Bonebranches
Mørke - Death Embraces You All
Antigone´s Fate - Insomnia

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Michele Montanari

The Ocean - Phanerozoic I: Palaeozoic
Spaceslug - Eye the Tide
Night Verses - From the Gallery of Sleep

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Bob Stoner

Pardans - Spit and Image
Voivod - The Wake
Sinistro - Sangue Cassia


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Stefano Torregrossa 

Sumac - Love in Shadow
Sleep - The Sciences
YOB - Our Raw Heart 

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Alejandro Morgoth Valenzuela 

Voices - Frightened
The Antichrist Imperium - Volume II Every Tongue Shall Praise Satan
Acathexis - Acathexis