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giovedì 21 luglio 2016

Celestial Grave - Burial Ground Trance

#PER CHI AMA: Black Sperimentale, Oranssi Pazuzu, Horna
Con i Celestial Grave ci trasferiamo in Finlandia per un po' di insano e oscuro black metal, con questo sconosciuto duo, che arriva all'esordio in digitale e in cassetta, grazie alla teutonica Iron Bonehead Productions. Tre le tracce contenute in 'Burial Ground Trance', per un totale di poco meno di un quarto d'ora di musica da godere tutto di un fiato. Se l'apertura "The Heartbeats Drum" sembra di primo acchito consegnarci uno scontato black old school, col passare dei secondi si percepisce, nel ritmo infernale imposto dai due musicisti, una forte vena epico malinconica che esalta la seppur primitiva e semplicista proposta del combo. Melodie lineari, un po' ridondanti, un largo uso di blast beat e di chitarre ronzanti potrebbero ingannare chiunque, ma quando poi uno splendido assolo elettrizza l'atmosfera contenuta nella opening track, un sussulto mi scuote dalla sedia. L'originalità della scuola finlandese si ritrova alla fine anche nel demo più underground che mi sia passato tra le mani nell'ultimo periodo e si conferma con la ritualistica e occulta seconda traccia, "The Bearer Of Death", pregna di melodie glaciali ma anche di tetre atmosfere, contrappuntate dallo screaming malvagio del vocalist. Sinistri e stravaganti seppur propongano black metal, ma si sa che quando si parla di band finlandesi c'è da aspettarsi di tutto, quindi nell'ultima title track non stupitevi di incontrare una ritmica punk (di reminiscenza Impaled Nazarene), stoppata da un break doom e un incandescente finale post black in una malatissima proposta che miscela straordinariamente il sound di Horna, Oranssi Pazuzu e Wolves in the Throne Room. Da seguirne attentamente l'evoluzione. (Francesco Scarci)

Faith & Spirit - Glorious Days

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues, Led Zeppelin
I "giorni gloriosi" per la band francese dei Faith & Spirit sono quelli che hanno visto l’egemonia del rock blues sulla scena musicale internazionale. Che siano quelli lontani dei Led Zeppelin e degli Stones o quelli più recenti e di tendenza di gruppi come Black Keys e White Stripes poco importa. 'Glorious Days', il loro nuovo secondo EP, si muove appunto sulla scia dei citati illustri colleghi. Cinque brani originali sono un assaggio ben calibrato delle potenzialità della band capitanata da Vivien Thielen, voce e chitarra ritmica nonché autore di tutte le canzoni. Il disco si apre con “I’ll Be Your Man”, una cavalcata ritmica dove tastiere e chitarra dialogano in perfetta sintonia, scaldando l’ambiente per il secondo brano, stesso titolo dell’album, in cui i toni partono ruvidi e si fanno via via più dolci, grazie al sapiente intreccio di tastiere, chitarra e voci femminili. Un buon inizio, non c’è che dire, ma la sorpresa arriva dritta alla terza canzone: “Everybody Gets It Wrong” è una ballata acustica che ha tutte le caratteristiche del classico, secondo le coordinate espresse all’inizio di questa recensione. In sintesi, questo è il loro piccolo capolavoro. L’EP prosegue rialzando il tono del groove con “Black Moon”, pezzo potente e quadrato e si chiude con “Down the Road”, dove organo hammond e armonica fanno vibrare le casse in un crescendo che culmina con un solo di chitarra suonato con il più classico dei wah wah. La produzione del disco è solida e ben bilanciata, sicuramente frutto di una conoscenza e di una forte passione per la scena rock blues sia vintage che moderna. Nessun imbarazzo nella voce del leader, che risulta calda e sicura nella pronuncia. La musica dei parigini Faith & Spirit può tranquillamente varcare i confini francesi. Il mio consiglio è uno solo: cercateli in rete e aprite le vostre orecchie per un ascolto accurato. (Massimiliano Paganini)

mercoledì 20 luglio 2016

Blood Red Throne - Union of Flesh and Machine

#PER CHI AMA: Death Metal, Cannibal Corpse
I Blood Red Throne da sempre rappresentano sinonimo di qualità tecnica messa a servizio della brutalità. Il nuovo 'Union of Flesh and Machine', ormai ottavo album per i veterani della scena death norvegese, non si discosta più di tanto dai precedenti capitoli e prosegue imperterrito nella propria mission di proporre atterrente death/thrash metal. Undici brani trita budella che non rinunceranno però a conquistarvi con un bella dose di groove che affiorerà già dalle note di "Revocation of Humankind", song bella dritta, con riffoni ultra distorti, i consueti cambi di tempo, ma che nel suo finale, ha anche modo di partorire (udite udite) delle parti melodiche. Melodia che viene subito spazzata via dalla tempesta sonica di “Proselyte Virus”, traccia in cui a mettersi in mostra, accanto ai biechi latrati di Bolt (efficace sia in fase growl che nei più rari urletti scream), c'è soprattutto la prova imperiosa del batterista Freddy. "Patriotic Hatred", la song che ha fatto da apripista all'album è famosa, oltre che per il suo incipit in parlato, anche per il lyric video che compare su youtube (dategli un occhio), ove la traccia è stata utilizzata come soundtrack per il videogame 'Hatred'. La song poi, come d'altro canto le successive (di cui vorrei citarvi la killer "Martyrized", la mia preferita), si muovono su di un rifferama che non viaggia quasi mai ad altissime velocità (fatto salvo per le crivellate del drummer in alcuni episodi sporadici), con il quintetto di Kristiansand che continua ad offrire asfissiante death metal fatto di articolati cambi tempo, ferali vocals, acuminati e granitici riff di chitarra, qualche spruzzata di groove (nella title track ad esempio), qualche isterica galoppata ("Legacy of Greed"), qualche assolo qua e là (nella già citata "Martyrized" e in "Exposed Mutation") fino a proporre la cover dei Judas Priest, "Leather Rebel", riletta ovviamente in chiave estrema, ma che comunque lascia trasparire quelle che erano le caratteristiche originali del brano contenuto in 'Painkiller'. 'Union of Flesh and Machine' alla fine è l'ennesimo album che non deluderà di certo i fan del combo norvegese, ma che sicuramente non aprirà a nuovi iniziati, se la band non farà leva su una proposta più fresca e meno ripetitiva. (Francesco Scarci)

(Spinefarm/Candlelight - 2016)
Voto: 70

https://www.facebook.com/pages/Blood-Red-Throne-Official

lunedì 18 luglio 2016

Elio Rigonat - EgregoЯ I

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Carcass, Arch Enemy
I confini del Pozzo dei Dannati si allargano sempre più: oggi ci conducono alla scoperta della one man band serba capitanata dal polistrumentista Elio Rigonat, che propone un roboante death melodico. 'EgregoЯ I' rappresenta l'album di debutto per l'artista di Belgrado, il cui risultato non è affatto male. Dieci i pezzi a disposizione (in realtà "Alpha" e "Omega" rappresentano intro e outro del cd) per poter catturare la vostra attenzione, convincervi della bontà della proposta, e poi abbattervi come alberi nella Foresta Amazzonica o se preferite, più ecologicamente, come birilli in una pista da bowling, grazie ad un sound potente che mostra i propri muscoli nell'onda d'urto prodotta dalle sue chitarre thrash (eloquente a tal proposito "Chaos Factory"), con vocals che si assestano tra il growl e lo scream, ma soprattutto una componente solistica davvero invidiabile, che forse ne fanno il punto di forza del musicista serbo. "I Am the Reason" ha uno sviluppo molto classico del brano con le componenti strofa-ritornello-strofa messe nel punto giusto che si riflettono in un riffing sincopato di scuola "carcassiana" ma che ancora una volta sorprendono per l'esito esaltante a livello di assoli, che esaltano le capacità tecnico-compositive del bravo Elio. Se l'album scorre via in modo molto lineare (senza particolari sussulti) nella sezione ritmica, richiamando alternativamente Carcass e Arch Enemy (indovinate qual è il punto di contatto tra le due band), sarà poi avvincente godere delle affilate stoccate di Elio in chiave solistica. Da brividi le evoluzioni sonore dell'axeman in "Rise", song che poggia su un tappeto chitarristico ribassato, ove il folletto serbo ci delizia con primizie appena colte. "Stitching My Soul" è palesemente debitrice ai gods sopraccitati, talvolta si sfiora il plagio e questo mi innervosisce non poco, ma quando è la chitarra indemoniata di Mr. Rigonat a prendersi la scena, la mia rabbia scema e mi lascio andare alle estasianti melodie heavy rock della otto corde di Elio. "Death Incarnates" parte piano, per poi lanciarsi in un'altra cavalcata di death melodico, dove il groove colante dai suoi arrangiamenti, preparano il terreno a quello che arriverà da li a breve: un bell'assolo rock. Erano anni che non sentivo ululare le chitarre in quel modo e il bravo Elio mi ha ricondotto indietro nel tempo di una ventina di anni (escludendo l'ultimo capitolo della saga Carcass). Nella cupezza sonora di "4th Dimension" sembra esserci spazio per una forma personale di metal anche a livello ritmico, in una song al limite del black, contraddistinta da tratti schizofrenici e altri al limite dell'ambient, con un finale affidato a sferzate di scuola Children of Bodom. Con "Remodeled" e "Norther", i Carcass tornano ad essere il punto di riferimento primario per il mio nuovo guitar hero, che si nasconde con le sue lame affilate, dietro al robusto riffing di accompagnamento. Insomma, direi che 'EgregoЯ I' è un bel biglietto da visita per Elio Rigonat, autentica sorpresa di questo luglio, non troppo infuocato, del 2016. (Francesco Scarci)

domenica 17 luglio 2016

Interview with Process of Guilt

Follow this link to know much more about Process of Guilt, the Portugese death doom band: 



The Charles Ingalls - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Ecco ciò che questo quartetto francese originario di Chamesol, riporta per descrivere se stesso e la propria musica: "I The Charles Ingalls (chissà se il moniker fa riferimento ad uno dei protagonisti de "La Casa nella Prateria" ndr) sono una band proveniente dalla Francia orientale, ai confine con la Svizzera, persa tra i boschi e i monti nebbiosi, una terra di boscaioli coraggiosi. Il nostro "woodrock" è influenzato da Black Sabbath e dall’heavy metal di fine anni 70”. Mi verrebbe di chiudere qui la recensione, perché c’è davvero ben poco altro da dire su un EP di quattro brani e 17 minuti di durata in cui i transalpini fanno la loro cosa esattamente come te la aspetteresti avendo letto la definizione qui sopra. Tanto cuore, tanta passione, come traspare anche dall’artwork curato e da un aspetto da cui cui si intuisce che non siano esattamente di primo pelo, e una devozione sincera per i modelli di riferimento, ma non molto di più. Il loro è uno stoner saturo e pestone di grana piuttosto grosso che nulla aggiunge al genere e a quanto detto mille altre volte e mille volte meglio da tante altre band in giro per il mondo. Detto questo, è innegabile che i brani siano in fondo piacevoli coacervi di stereotipi rock'n'roll (di Sabbath ce ne sono pochini, giusto nello pseudo doom di, appunto, "Thulsa Doom") che possono divertire e intrattenere senza offendere le orecchie, e che probabilmente la dimensione migliore per apprezzarli è quella live. Troppo poco per ora per dare un giudizio che non sia per forza di cose parziale, la sufficienza se la sono comunque guadagnata e pure un qualcosa di più, di incoraggiamento, per la simpatia e la passione. (Mauro Catena)

At the Graves - Cold and True

#PER CHI AMA: Post Rock/Metal, Solstafir, The Black Heart Rebellion, Neurosis
Inizierei col chiarire che la band del Maryland di oggi non va confusa con l'omonimo ensemble dedito ad un melo death ma proveniente dalla Pennsylvania. Ben Price, la mente, il factotum che si cela dietro agli At the Graves, suona infatti uno sludge/post rock contaminato assai accattivante, ricco in termini di groove e carico di una forte componente emotiva. 'Cold and True' è il secondo album (il primo in cui Ben si cimenta completamente da solo in tutti gli strumenti) dopo 'Solar' datato 2012; in mezzo e prima, una sfilza di ben cinque EP. Veniamo comunque a questo nuovo capitolo della discografia della one man band di Arnold, che ci viene introdotto dalla delicata vena melodica di "Viscous State" che sottolinea quelli che sono i capisaldi dell'At the Graves sound: sognanti atmosfere post rock che poggiano su di una ritmica post metal di scuola Cult of Luna in una versione più meditabonda, per un risultato in grado di stamparsi nella mia testa con una certa facilità, grazie a delle soffuse linee di chitarra che facilitano non poco l'approccio alla musica dell'artista statunitense. Con "Fulgor" le cose non cambiano e lo stile, ricercato, colpisce sicuramente per l'immediatezza della proposta, qui resa ancor più onirica e protesa a dare ampio respiro alla componente strumentale, con un'eleganza di fondo impostata dai delicati tocchi alla sei corde di Ben (peraltro vocalist caleidoscopico ed assai originale) e da un drumming fantasioso costantemente in primo piano. Il disco (o se preferite la cassetta, fate pure la vostra scelta) prosegue dilettandosi tra le lugubri, distorte e tribali melodie di "Between Two Thirds", che potreste immaginare come una danza sciamanicadi una tribù indiana attorno al fuoco, con i sensi che lentamente abbandonano la realtà. Il colpo di grazia viene inferto però dalla successiva "Repress I", che contribuisce, nonostante la sua brevità, a palesare le visioni lisergiche del bravo Ben. "Shimmer" continua nella sua opera di destrutturazione del sound degli At the Graves, con alcuni frangenti che strizzano l'occhiolino addirittura al grunge rock, pur mantenendo un'atmosfera decisamente noir che comunque, attraverso la mutevole voce di Ben, ha modo di spaziare all'interno di più generi, tutti caratterizzati da una profonda dose di emotività. La title track potrebbe essere assimilabile ad una versione più nera dei Neurosis, seppur mantenga i contorni delicati del post rock e incanti per la distorsione delle sue linee di basso, il suo essere ridondante e per le corde vocali di Ben, qui bagnate di whisky, che chiamano in causa gli islandesi Solstafir. Lentamente arriviamo alla conclusione di questo spettrale lavoro: "As a Dirt" ha il compito di trasmettere le ultime malinconiche note di dolore di 'Cold and True' e direi che assolve pienamente al suo compito. Un'altra band nel frattempo mi è venuta in mente mentre ascoltavo e riascoltavo questo disco: i belgi The Black Heart Rebellion nel loro capolavoro 'Har Nevo' e la definizione che inquadrava quell'album, blues apocalittico, che ben calzerebbe anche per gli At the Graves. Insomma, 'Cold and True' è un riuscitissimo lavoro di sperimentazione sonora in cui convogliano un sacco di influenze e idee stravaganti, per cui sarebbe davvero un peccato negare la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

venerdì 15 luglio 2016

Mallory - Sonora R.F. Part 1

#PER CHI AMA: Rock/Grunge/Blues
Avevamo lasciato i Mallory a marzo dello scorso anno, quando il quartetto parigino ci aveva fatto pervenire il precedente lavoro '2'. Oggi abbiamo tra le mani il nuovo 'Sonora R.F. Part 1' e devo dire che è già qualche settimana che gira in loop nella mia auto, il posto migliore per godere appieno dei Mallory e della loro musica on the road. La band era matura allora e un altro passo in avanti è stato fatto con quest'album, mantenendo quel loro mix personale di rock, grunge e blues. Ad un primo ascolto, le atmosfere sembrano essersi incupite ulteriormente, in realtà molte tracce hanno un'alta capacità introspettiva, unita ad una malinconica dose di rabbia, come in "On The Shelf". Dopo un'intro parlata in castigliano, le chitarre si sporcano di polvere, la ritmica lenta tiene le redini, ma non cela perfettamente quella collera mascherata da tristezza ed accidia. Una ballata grunge come non si sentiva da anni, interpretata perfettamente dal vocalist, a cui dobbiamo riconoscere una timbrica pressoché perfetta. In "Zero" scatta qualcosa nei Mallory che ora cantano in francese, mentre le melodie di basso e chitarra si fanno nervose grazie alla batteria che scandisce accenti come un profeta inascoltato. Il crescendo non si fa attendere, ottima l'esplosione che non necessita di distorsioni estreme e si affida ad un unisono di suoni ed esecuzione. La scelta della lingua francese potrebbe rivelarsi rischiosa, tuttavia è stato fatto un ottimo studio delle metriche che qui calzano a pennello. Rimane solo il dubbio che il testo non sia uscito così spontaneamente, comunque onore ai Mallory. In "Shu", l'influenza dei vecchi Pearl Jam si fa sentire, ma la band riesce a tirar fuori qualcosa di buono da un semplice classico giro armonico. Consapevoli di ciò, il quartetto ha finito egregiamente i compiti per casa in termini di suoni (difficile non riconoscere la timbrica del single-coil della Fender) accostata ad un'interpretazione che esprime al meglio lo struggimento di una generazione che va per i quaranta ma si sente ancora tradita da una società in cui non si rispecchia. Anche "Silex" segue il medesimo filone e si incastra perfettamente nelle note di questo 'Sonora R.F. Part 1' che probabilmente è stato pensato e suonato nell'ottica di un concept album. I suoni ruvidi ma curati di chitarra si abbinano perfettamente alla timbrica vellutata del basso, a creare un ipotetico amplesso sessuale coronato dalla voce sempre graffiante del frontman con le ritmiche che si rivelano semplici e variopinte. Il gran equilibrio dei Mallory sta nel regalare un'accelerazione nel momento giusto in cui la si desidera, lo stesso vale quando i nostri decidono di abbassare i toni per dare maggior risalto al cantato o alle melodie intimistiche, che svolgono un ruolo importante nel tessuto sonoro dell'act transalpino. Un gran bell'album, forse non una vera evoluzione verso un obiettivo ben definito, ma un'altra tappa sulla loro personale mappa che ha bordi sfuocati come quelli di una vecchia foto. A dimostrazione che abbia più importanza il viaggio che la meta, siamo felici di seguire i Mallory e portare la loro bella colonna sonora nella nostra vita di tutti i giorni. Che tu abbia venti, quaranta o sessant'anni... (Michele Montanari)