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venerdì 16 ottobre 2015

Tuomas Holopainen - The Life and Times of Scrooge

#PER CHI AMA: Soundtrack strumentali
'The Life And Times Of Scrooge' è la prima release da solista in casa Holopainen, ispirata dalla saga a fumetti che narra le avventure di Scrooge Mc Duck (scritta ed illustrata da Don Rosa), a cui si propone di fare da colonna sonora. Proposito pienamente realizzato, grazie alle apparentemente illimitate idee del mastermind/leader dei Nightwish, che con la collaborazione del maestro Pip Williams, danno vita ad una soundtrack che riesce a trasportare l'ascoltatore sulle fredde rive del Klondike, in cerca della tanto agognata fortuna. Orchestrazioni e cori impeccabili mettono in luce tutto il talento compositivo del musicista finlandese, che coinvolge anche un vocalist d'eccezione come Toni Kakko (Sonata Artica), il quale apporta il proprio tocco di classe alle lyrics, nonostante si tratti di un disco per lo più strumentale. Ricco di idee, ispirato ed espressivo in ogni suo pezzo, quest'album rappresenta l'ennesima conferma delle capacità di Tuomas e del suo buon momento di forma, che dopo i recenti successi con la band madre, i Nightwish, si ripresenta al pubblico con un altro pezzo da novanta. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Nuclear Blast - 2014)
Voto: 80

Sorrowful - In the Rainfall

#FOR FANS OF: Doom/Death Metal, Vastum, Apocryphal, early Anathema
Managing to employ an old-school sound in today’s metal scene isn’t exactly a rare feat, what with the retro-Death and Thrash acts sprouting up seemingly by the minute, yet doing that and emerging as a competent force in your chosen genre is a fine feat indeed, and this Mexican-by-way-of-Sweden twosome is a stellar and oftentimes accomplished mixture of early Death Metal and old-school Doom. While the pace throughout is decidedly Doom, full of heavy, churning, agonizingly slow riffs sprawling from the darkness, the fact that they’re full of chugging grooves, tightly-wounded twisting rhythms and come packed with growling vocals gives this a truer Death Metal attitude which is remarkably addictive throughout here with this one really generating quite a vast amount of good will here in these rhythms. They manage to keep this one with a firm balance between the slow, plodding paces and a generally faster, more up-tempo drive here that still manages to come off coherently and flows logically together, but the greatest strength here is undoubtedly the type of cavernous, monolith production that makes this sound so much heavier and more dynamic. Though there’s some hit-or-miss tempos and riffing on display here, for a debut that’s a little more forgivable and is certainly drowned out by the more impressive elements featured here otherwise. Intro ‘The Last Journey’ gets this going with some nice swirling riff-work and plodding tempos that make for quite a stellar atmosphere here that takes a really dark, brooding ambience to the proceedings with the more Death Metal riffing spread throughout the final half for a solid start here. ‘Nothingness’ offers up more churning Death Metal riffs than the preceding track, but the crushing pace and heavy, thumping back-end here keeps this blistering pace in check before exploding into a frenzied up-tempo assault that makes this a fine highlight offering. Likewise, ‘Gray People’ follows up nicely with a strong opening riff and some solid drum-work that drops off the pace quite nicely here with the deep churning riffing offering up some solid heaviness though they drag this out somewhat with some dragging tempos in the later half that keeps this from being as fun as the earlier tracks. ‘Oceans of Darkness’ certainly does the slow, churning pace much better with a striking series of melodic leads, finely-tuned rhythms and much more enjoyable mid-tempo crunch that keeps this one rolling along nicely for another strong highlight offering. It’s back-to-back highlights as ‘Utopian Existence’ offers the most explosive straight-forward Death Metal styled opening as the charging tempos and pounding drumming throughout the second half offer forth the least Doom influence on the whole album as the stylistically darker rhythms here appeal greatly in another strong effort. ‘Frozen Sun’ comes lurching back into the Doom mold with a series of churning rhythms and plodding tempos while still offering the occasional blast of mid-tempo charging yet remains more rooted in those sprawling, heavy riffs which make this one of the better straight-forward Doom tracks. Both ‘The Machine of Desolation’ and ‘The Flight of Mind’ keep those churning rhythms in fine form as the blasting drumming and heavy-handed riffing make for strong impressions here with the melodic leads counter the up-tempo grooves quite nicely and making for overall enjoyable offerings. Finale ‘Eager of Death’ brings back the soaring, melodic tempos here with some rather fine churning riffs and droning rhythms that are played off quite nicely here in bringing a melancholy vibe that wasn’t really present before-hand and causes that to stick out here while still offering a fine ending note. Overall there’s some good points here that should help them out as they continue along. (Don Anelli)

(Solitude Productions - 2015)
Score: 85

giovedì 15 ottobre 2015

Every Hour Kills - S/t

#PER CHI AMA: Modern Metal, In Flames, Scar Symmetry, Soilwork
Sentivo un po' la mancanza di suoni carichi di groove e ammiccanti al massimo. Sono stato presto accontentato dai canadesi Every Hour Kills e il loro EP omonimo nuovo di zecca. Cinque le tracce, le stesse riproposte in chiave strumentale e una versione demo sempre strumentale di "Cloudlifter", un pezzo che a dire il vero non ho ben capito dove stia nella discografia della band di Calgary. I nostri attaccano con l'elettronica massiva di "Chosen", che accompagna una ritmica imponente a cui si aggiungerà presto anche la voce di Jerrod Maxwell Lyster, in un mix tra Tesseract e Soilwork. La musica? Beh riflette fondamentalmente la proposta di queste due band (con una certa predilezione per la seconda), il classico modern metal che sembra andar tanto di moda nell'ultimo periodo, a cui aggiungerei anche un tocco di Scar Symmetry e In Flames, senza trascurare una lieve spruzzata di metalcore. Vi ritroverete pertanto allietati da un riffing sincopato, gioviali chorus, stop'n go e tastiere super melodiche. Il dado è tratto. "Deliver Us" riparte dal programming irrefrenabile di Sacha Laskow e da una linea melodica piuttosto malinconica che si riflette anche nel modo di cantare di Jerrod che nel breve break centrale, trova modo di scatenarsi anche in una versione più urlata. L'eccesso di elettronica però rischia un po' di offuscare la performance solistica, in quanto Sacha sembra davvero saperci fare con la sua sei corde. Il limite in effetti di questo EP sembra essere racchiuso proprio dall'esasperante utilizzo delle keys che andrebbero ridotte per dar modo anche a Brent Stutsky di palesare il suo valido apporto al basso, mentre non si può non notare la fantasiosa tecnica di Robert Shawcross dietro le pelli, anche se talvolta risulta celata dagli ubriacanti sfarfallii elettronici. "Saviours" è una traccia più delicata, almeno all'inizio, anche se poi il tiro aumenta e la song diviene più convincente anche per la sua continua altalenanza ritmica. Niente male. Il sound ruffiano di "One Reason" e il suo coro quasi pop rock le valgono la palma di song più moscia delle cinque. Fortunatamente irrompe la dinamica "Almost Human", che nel suo riffing portante sembra un pezzo di una decina di anni fa dei nostrani Edenshade, estratto dal bellissimo 'Ceramic Placebo for a Faint Heart'. Pezzo assai convincente e anche il mio preferito che di certo bilancia la performance meno brillante della quarta traccia. Seguono i cinque brani riproposti in chiave strumentale e quello che posso affermare è che, in assenza di una voce che ammorbidisca a più riprese il sound degli Every Hour Kills, musicalmente il quartetto canadese è davvero notevole, spaccando non poco e la vicinanza con Soilwork e anche Fear Factory, perché no, si fa davvero sentire. Bravi, preparati e non da sottovalutare. Dimenticavo l'ultima traccia, la più djent oriented: trattasi ancora di una demo senza cantato, quindi meglio soprassedere. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 70

mercoledì 14 ottobre 2015

Interview with Hercyn

Follow me for a long chat with the prog blacksters coming from New Jersey: 



Brave the Waters - Chapter 1 - Dawn of Days

#PER CHI AMA: Ambient
Cestinate i vostri impegni stanotte. Non date forma alle vostre illusioni stanotte. Prendete spazio e tempo per il vostro udito stanotte. Vi porto sulla vetta d’un monte scosceso, illuminato da una falce di luna stanotte. Vi conduco nel mondo dei Brave the Waters in questa mia, vostra notte. 'Chapter 1 – Dawn of Days' parte in sordina con “The New King”. Sorde e mielose sono le sonorità che troverete in questo esordio d’album. Aspettatevi un reiterare di suoni mescolati sino al ricordare quel ripetersi rugginoso di ingranaggi che fanno funzionare un orologio ottocentesco. Sino a qui lo stile ambient fa da padrone. La sorte. La morte. La vita. Il folclore. L’immaginazione. Senza continuare vi presento “Interesting Times”. Un pezzo metallico privo di virtuosismi strumentali, ma degno d’un inneggiare ai Metallica così remoti e sempre attuali. Pretenzioso e subliminale. Il vento sposta foglie dimenticate negli angoli in cui l’autunno le ha relegate, così i suoni che dipanano da “Voice of The Ancient Oak”. È circospetta e flessibile questa grata da cui posso ascoltare i graffiati fatti da chitarre e rabbia. Mi allontano dal sottosuolo visto in ombra e cammino nell’attesa d’una luna che spezzi questo languore, ma con “Journey Through Highwood Forest”, il cielo è buio come asfalto. I suoni di questi urlati in musica ricordano pezzi di vetro spezzati ad arte. È dolore che vive dimenticato in un pezzo di mondo che si guarda senza essere visto. Soffonde dalle mie casse “Setting Up Camp” ed è balsamo per le animosità trapassate attraverso suoni ed acqua ed occhi bagnati di mare e lacrime. Chiude “At The Old Stone Bridge” ed è come stare davvero sotto un vecchio ponte di pietra. L’acqua scorre vicino ai piedi, alle mani, ai sensi che ne sentono il frangersi su pietra ed anima. I Brave the Waters, ci lasciano il loro pezzo da novanta alla fine. Io rimango sulle sponde del fiume in questo silenzio rotto dalla musica e spezzato dal suono della realtà. (Silvia Comencini)

(Self - 2015)
Voto: 75

Archaea - Catalyst

#PER CHI AMA: Swedish Death/Thrash
Sia benedetto l'underground, senza di esso infatti mi sarei annoiato da tempo delle solite proposte convenzionali di metal che popolano il music business. Invece, grazie anche ai sempre più potenti mezzi di internet, giorno dopo giorno mi ritrovo a scovare nuove leve che auspico possano presto soppiantare i vecchi dinosauri. Oggi la mia ricerca fa tappa nella rinomata Gothenburg, che in passato ha visto nascere migliaia di band e che oggi dopo 8 anni, dà modo agli Archaea di debuttare con il loro primo album. Formatisi infatti nel 2007, il sestetto scandinavo ha all'attivo un demo cd dello stesso anno, un EP nel 2009 e poi un silenzio assordante durato fino allo scorso agosto quando è uscito appunto 'Catalyst'. Un disco di 10 tracce che vede gli Archaea spararci in faccia una bella dose di death metal melodico, grondante groove da ogni suo poro. La tecnica, come nel 99% dei casi da parte di band nordiche, è sempre ad altissimi livelli e in questo caso, dati i continui cambi di tempo, gli stop'n go, e i brucianti assoli, è a dir poco sopraffina sin dall'opener "Omnicide", che mette subito in risalto la pasta di cui sono fatti questi sei baldi giovani. Direi però che il disco lo si inizia ad apprezzare maggiormente con la seconda "Silhouette", che denota una certa dose in originalità fatta di ritmiche sghembe, ottime partiture tastieristiche che ne combinano davvero di tutti i colori e che forse vanno a rappresentare l'elemento caratterizzante dell'Archaea sound, provare per credere. Gli altri musicisti fanno il loro lavoro, con l'onesto growling di Nils a collocarsi sopra le dirompenti keys di Hannes. Hannes che ci delizia nell'apertura di "Vacuum" con numeri da circo, prima che le due asce, guidate da Magnus e Markus, gli diano manforte con ritmiche spezzate che conferiscono al brano un andamento assai dinamico, anche se minacciosi rallentamenti rischiano di minare la nostra sanità mentale. Difficile trovare un facile termine di paragone per l'act svedese, e decisamente meglio cosi, soprattutto nella quarta "Cryosphere" in cui i nostri si dimenticano di essere una band death metal e si abbandonano ad alcune divagazioni rock progressive, contrappuntate da qualche aggressiva accelerata in un rifferama mai scontato e che anzi cerca continue variazioni a un tema già di per sé mai stabile. Anche con la breve cavalcata di "Pyrochrysalis" i nostri si confermano di non essere certo degli sprovveduti, con il sound che talvolta sembra inseguire l'humppa finlandese (che ritornerà ancora più forte nella successiva "Salt"), strizzando l'occhiolino a Finntroll e Children of Bodom, non dimenticando i dettami del thrash metal "made in U.S." e alla fine suonando comunque tremendamente "Swedish". Se mi avessero chiesto da quale nazione provenissero gli Archaea, probabilmente avrei trovato qualche imbarazzo, proprio per la commistione di stili che confluiscono nel loro caleidoscopico sound. Ma alla fine quel che ho capito è che questi sei svedesi siano dei mattacchioni a cui piace fondamentalmente infarcire i loro brani di tutto quello che è il loro background musicale. E allora non stupitevi se "Quad Damage" è un bel pezzo thrash metal in cui trova spazio una tastiera assai ispirata. Mentre "His Wanted Position" inizia come se si trattasse di una song black sinfonica con un riffing tagliente e il martellamento al basso di Richard e quello alla batteria di Alexander, che confermano quanto detto in precedenza sullo spessore tecnico della band. Comunque alla fine questa traccia sarà quella che più si avvicina al black (anche per lo screaming efferato), ma i nostri si confermeranno cosi bravi a cambiare le carte in tavolo che la traccia racconterà di altri sconfinamenti in territori non autorizzati. Ancora è l'orchestrazione delle keys a tener botta anche in "Helios Ascend" che, come tutti i brani contenuti nel disco, mostra durate inferiori ai 4 minuti, ottimi refrain, qualche buon chorus e altre trovate mirate a rendere più orecchiabile un disco che di per sé non sarebbe cosi facile da essere digerito. A chiudere 'Catalyst' ci pensa l'epico coro di "Sol" che mostra nuovamente l'eclettismo sonoro dei sei vichinghi. Impavidi. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 75

domenica 11 ottobre 2015

Evoke Thy Lords – Boys! Raise Giant Mushrooms in Your Cellar!

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Doom/Psych
Terzo lavoro per il quintetto siberiano, e successore di quel 'Drunken Tales' che nel 2013 ne aveva sancito la svolta stilistica da un death piuttosto convenzionale a uno stoner-doom dalle forti componenti psichedeliche, accentuate dalla presenza in formazione di un flauto traverso. Come si può facilmente evincere dal titolo dell’abum e dall’artwork, in questo nuovo album gli Evoke Thy Lords hanno intenzione di proseguire su quella strada, accentuando le componenti lisergiche del loro suono. Nel 2013 concludevo la mia recensione di 'Drunken Tales' mettendo in guardia su un possibile appiattimento del suono una volta esauritosi l’effetto sorpresa dovuto allo straniamento dato dall’accostamento di mondi musicali apparentemente distanti, ma il pericolo è, per il momento, scongiurato. Questo 'Boys!' (non vi dispiacerà se abbrevio il titolo chilometrico) rappresenta anzi un’ulteriore evoluzione della formula, in cui la compenetrazione tra la componente doom e quella psichedelica si fa piú profonda e meno naif. Il disco mette in fila sette lunghe tracce in cui l’equilibrio tra gli elementi è sapientemente dosato. I riffoni ultra-ribassati e rallentati, accompagnati da growl vocals gutturali, ben si incastrano con le dilatazioni space rock in cui fa capolino, qua e là, una voce femminile a fare da contraltare melodico. Secondo me, un deciso passo avanti rispetto al predecessore, che oggi appare acerbo in confronto. Qui c’è una visione piú chiara ed è aumentata anche la consapevolezza nei propri mezzi e della direzione da seguire. Brani migliori? Difficile scegliere. Direi però che “I Want to Sleep” e “Human Thoughts as a Weapon” riescono a sintetizzare alla perfezione la proposta dei russi, tra desert rock e doom metal. Ottimo lavoro, in grado di piacere tanto ai doomster piú cruenti quanto agli amanti dello space rock di matrice stoner. (Mauro Catena)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 75

sabato 10 ottobre 2015

Chiral - Night Sky

#PER CHI AMA: Post Black, Agalloch, Wolves in the Throne Room
Che sorpresa, anche in Italia esistono le one man band, e soprattutto sembra abbiano più classe di quelle nordiche o di quelle a stelle e strisce, fatte di chitarre ronzanti e screaming disperati. Signori, vi presento i Chiral, ove dietro in realtà si cela Teo Chiral, che dal 2013 porta avanti questo progetto ambizioso di black metal dalle forti tinte folk. Lo si evince dalla opening track di 'Night Sky', "My Temple of Isolation", in cui la comparsa di un certo armamentario strumentistico tipicamente folklorico, incrementa il mio interesse nei confronti della band emiliana di quest'oggi. E se la matrice sonora su cui poi poggiano questi strumenti è un qualcosa che si avvicina a quella proposta dagli Agalloch, potete ben capire il mio entusiasmo nei confronti di questa neo realtà italiana. Certo, come sempre non è tutto oro quel che luccica, ma qui stiamo parlando di un bell'argento placato d'oro. Interessanti infatti i cambi di tempo, l'alternanza tra atmosfere bucoliche e sfuriate black, o la voce stessa di Teo, mai esasperata nel suo palesarsi. Ciò che non sono riuscito proprio a farmi piacere invece il suono troppo plasticoso della batteria, che forse costituisce il vero limite strumentale dei Chiral. Poi devo ammettere che ascoltare la prima traccia è un po' come immergersi nella magia sonica di 'The Mantle', dando quell'impressione di respirare a pieni polmoni l'aria della campagna, stando tranquillamente adagiati sull'erba e scrutando con il naso all'insù il cielo stellato. Dieci minuti di melodie sognanti spezzate dalla furia sovversiva di "Nightside I: Everblack Fields", brano della durata di oltre diciotto minuti, in cui comunque sapranno tornare quegli aromi e quelle essenze nell'aria che hanno reso speciale la prima traccia. Dopo pochi minuti infatti, il riffing selvaggio si tramuta in suoni ambient, in cui il retaggio black dei Chiral rimane solo in sottofondo con delle inquietanti vocals lontane. Per il resto, c'è solo la possibilità di rilassarsi, godendo delle melodie che fuoriescono dagli strumenti del mastermind piacentino. Ovviamente, tutto ha una fine e ben presto l'incantesimo verrà interrotto da nuove sferzate post black e da un nuovo ciclo che ricomincia con frammenti acustici ed intermezzi onirici fino alla terza "Nightside II: Sky Wonder". Qui le armoniose melodie dei Chiral proseguono indisturbate con arpeggi di chitarra avvolti in un'aura sognante, quasi eterea, con addirittura il suono di campane in lontananza a rendere più evocativa la proposta del factotum di Piacenza. Sullo sfondo si stagliano però nubi minacciose che irrompono con brevi sfuriate black, come se si trattasse di un temporale estivo che per una manciata di minuti interrompe la tranquillità di una bella giornata, ma che in realtà ha il merito di amplificare i profumi stagionali. Allo stesso modo fa Chiral con l'inserto di quelle rare galoppate di matrice estrema che rendono il successivo pigolare degli uccellini ancor più magico. Una pausa interamente acustica ci accompagna a "Beneath the Snow and the Fallen Leaves", l'ultima song (dei Chiral) di questo interessante 'Night Sky' che vede la band continuare tra atmosfere soffuse e lunghe ed evocative fughe strumentali dal forte sapore cascadiano. Da rivedere magari l'utilizzo un po' troppo elementare delle keys, ma questa è ovviamente la mia personale opinione. Scrivevo ultima song ma non difatto tale, perchè altre due cover rimangono in attesa di giudizio: "Vestige", della one man band olandese Algos, pezzo non proprio memorabile, non fosse altro per la sua squisita parte acustica. A chiudere il disco ci pensa la cover interamente acustica di "Night Spirit" dei Lustre, forse l'influenza più marcata nel sound dei Chiral. In definitiva, 'Night Sky' è un bel viatico per vedere la band piacentina crescere nel panorama del post black cascadiano, alla luce di un netto miglioramento a livello di songwriting, dopo le escursioni meno raffinate dei precedenti lavori. Applicando ulteriori migliorie, mi aspetto grandissime cose dai Chiral già a partire dal prossimo lavoro, che a questo punto attendo con grande ansia. (Francesco Scarci)