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giovedì 1 maggio 2014

Chaos Inception - The Abrogation

#FOR FANS OF: Death Metal, Morbid Angel, Hate Eternal, Immolation
Alabama is usually not on the tops of too many lists when it comes to hotbeds for Death Metal, but if Chaos Inception is going to keep up with albums like this it won’t be long before the state starts moving up. Already two albums in, these scene vets, populated from acts Fleshtized, Blood Stained Dusk, Monstrosity and Quinta Essentia to name a few, offer forth one of the most relentless and harsh sonic attacks in the genre and create one of the more impressive efforts in an overcrowded yet prolific scene with their sound honed and refined much further than previous records showed. Rather than opting for that cavernous, sprawling landscape so often associated within the scene, this goes back to the start with a tight, ferocious sound that favors the guitars first and foremost with their unrelenting brutality that manages to make the songs far more ferocious due to the ravenous assaults in the riff-work as it adds a series of technical riff-work, sharp leads and a tight framework throughout that makes for a raging hellstorm that populates the landscape. Never a true brutal Death act nor a full-on technical one either, instead both form together with a traditional backbone created by the thunderous bass-lines, unrelenting and explosive drum-work to not only propel the songs forward at a devastating pace but also display a far greater sense of dynamics, mood variation and tempo changes than would normally be the case in either styles’ true by-products, leaving this to fall in as a traditionally-sounded death metal band with a brutal streak dominated by far more technicality than what is normally on hand, leaving this a solid, raging effort in the best tradition of the old-school giants. A rather notable but unnecessary highlight that this album is glossed in a crystal-perfect production that highlights every riff, every thunderous drum-blast and renders the vocals deep and growled to perfection is to be commended. If one is to find flaw in this one, which is nit-picking of the highest order, it’s that the band tends to employ the same rhythmic pattern throughout where the songs sound pretty close to one another throughout. The album-opening title track does strike a few nice chords with a bass-solo surprise, but the main rhythms and pace are copied throughout the majority of the tracks. "Phalanx (The Tip of the Spear)" includes some rather pleasing riff-work and a charging atmosphere, but the drum attack and solo section are repeated in here as well. The album’s best tracks, the threesome of "Lunatic Necromancy," "Pazuzu Eternal" and "Hammer of Infidel" do offer up minor chord differentials and pattern changes to distinguish them from the others, whether it be the unyielding guitar work of "Lunatic," a series of sharp bass-lines and frantic technicality through "Eternal" or the extreme brutality in "Infidel." Really, though, each of these songs does contain a number of repetitious patterns and riffs that doe make the whole effort sound remarkably similar to each other, but the sheer energy, aggression and unwavering technicality that moves through these brutally concise tracks makes them fun regardless of how similar they may be, and that alone is the bands’ best trick so far and really offers them great hope for the future. (Don Anelli)

(Lavadome Productions - 2014)
Score: 85

https://www.facebook.com/ChaosInception

The Great Old Ones - Tekeli-li

#PER CHI AMA: Post Black, Altar of Plagues, Blut Aus Nord, Deafheaven
Ne avevo ricevuto un breve assaggio sul sito web della band e già stavo pregustando l'ascolto del full length. Finalmente ho fra le mani 'Tekeli-li', secondo atto dei francesi The Great Old Ones (TGOO) che tanto successo hanno riscosso, nei meandri dell'underground, col precedente 'Al Azif', tanto da creare una profonda attesa per il loro come back discografico. Non so se sia per il recente scioglimento degli Altar of Plagues o cos'altro, ma spasmodica è la ricerca di una band degna di questo nome che possa collocarsi nei cuori dei fan, per sostituire il mostruoso act irlandese, ormai andato. E questa volta la nostra ricerca pare essere andata a buon fine. I TGOO hanno colpito nel segno con uno splendido lavoro di sei pezzi, già di per sé magistralmente confezionato (bello il digipack, ancor di più il doppio Lp). Ma veniamo al roboante incedere dei brani che dopo la delicata intro, si materializzano in musica con "Antarctica", minacciosa song che delinea immediatamente il ruvido approccio post black del quintetto di Bordeaux, il cui concept si rifà ancora una volta al buon vecchio H.P. Lovecraft e al lamento, appunto il 'Tekeli-li', dei suoi mostri immaginari, gli Shoggoth (per ulteriori dettagli però, vi rimando alla lettura de 'Alle Montagne della Follia'). L'attacco è pesante e limaccioso, un effluvio di dolore perpetrato con lentezza disarmante, che ci prepara al fragoroso attacco che sarà inferto da li a poco, con le chitarre malate che sembrano fuoriuscire dalle viscere dell'inferno, confermando le già eccellenti (e malefiche) sensazioni che avevo avuto dall'ascolto del precedente album. Il vento soffia timido in "The Elder Things", song che mostra un lato più riflessivo dei TGOO, segnato da linee melodiche a cavallo tra il depressive e il black cascadiano, in un vortice sonoro che assume i connotati della doppia elica del DNA e cresce cresce, mutando in cancerogeniche cellule che conducono alla formazione di un mostruoso essere, lo Shoggoth, creatura amorfa dal catramoso aspetto esterno. Cosi come quel venefico ameba, la musica dei TGOO si plasma portando terrore e oppressione, complice anche le tenebrose ambientazioni e le orrorifiche vocals di Jeff Grimal, che nella successiva "Awakening" blatera qualcosa in francese, mentre la musica si propaga funerea come un blob assassino. Mancava una componente funeral nella matrice musicale del 5-piece dell'Aquitania e direi che qui calza a pennello, contribuendo ad alimentare quell'innato senso d'angoscia che l'ascolto di 'Tekeli-li' genera fin dalle sue note iniziali. Assai convincente però è l'evoluzione di questo brano che tra sfuriate black, rallentamenti parossistici, intermezzi psichedelici, harsh e clean vocals, forse si presenta come la traccia più varia della release, che sicuramente farà la gioia di chi ama Blut Aus Nord, Wolves in the Throne Room e Deathspell Omega, nomi di un certo spessore che decretano il raggiungimento di una invidiabile maturità artistica anche da parte dei TGOO, sebbene i soli 2 album all'attivo. Mentre sono qui a elaborare sensati pensieri, esplode la funambolica e strumentale "The Ascend", un aggressione sonora all'arma bianca, selvaggia e quanto mai avvincente, che dopo essersi scaricata, trova un po' di pace nei suoi 90 secondi finali. Pronti per la maratona conclusiva? Mancano infatti i quasi 18 minuti di "Behind The Mountains", ultimo monolitico atto che a fronte di un acustico prologo, trova ben presto modo di sfociare in violente scorribande black, in grado di alternarsi a squilibrati e schizoidi cambi ritmici, intimistici e malinconici break arpeggiati sorretti da urla ferali, dando dimostrazione di classe ed eleganza. Ebbene, non saprei che altro aggiungere se non che i The Great Old Ones possono essere dei predestinati. Mostruosi. (Francesco Scarci)

(Ladlo Productions - 2014)
Voto: 85

http://www.thegreatoldonesband.com/

lunedì 28 aprile 2014

Furia - W Melancholii

#PER CHI AMA: Post Rock/Doom, Mono, Slint, Tim Hecker, Skepticism
Due soli brani dalla durata piuttosto lunga e contorta contraddistinguono questo lavoro della oscura band polacca uscita nel 2013 per la Pagan Records. Nel totale di circa diciotto minuti i Furia cercano di creare un ibrido tra musica d'atmosfera minimalistica e rock, o meglio post rock con sonorità che affondano radici nel pagan metal più misantropo. Ci sono delle buone idee che elaborano morbide melodie malinconiche e una buona propensione alla cadenza doom, ma il matrimonio tra le correnti ispiratrici non va mai in porto e raramente ci si sente coinvolti a dovere durante l'ascolto dei due brani. La causa principale è una registrazione sommaria che toglie a batteria, chitarra e alla musica in genere, la sua stessa vitalità. Acerbi suoni, tipici di un primo demo, senza carisma e poco ricercati. La cosa che non si capisce di queste composizioni e che ci lascia con l'amaro in bocca, è proprio la scarsa resa dei brani. Oltremodo rammaricati, dopo aver constatato che la band ha fatto un ottimo lavoro in fase di mixaggio curando dettagli inaspettati. Comunque l'assenza di una voce si fa notare e un taglio dal tipico accenno elettronico in un contesto così tanto post rock e dalle cadenze molto rallentate, risuona scontato e poco incisivo soprattutto se non si calca la mano sulle tecnologie hi-fi o sulla vena doom. Rivedendo molti dettagli, potrebbe anche essere l'inizio per una giusta strada, ma ci vuole un po' più di lucidità nello scegliere da che parte stare; per puntare al potere di Tim Hecker, Goodspeed You! Black Emperor, Slint, Mono o Skepticism bisogna aprire la porta dell'anima e lavorare sodo. (Bob Stoner)

(Pagan Records - 2013)
Voto: 55

Glorior Belli - Gators Rumble, Chaos Unfurls

#PER CHI AMA: Black/Southern Rock/Stoner, Down, Sixty Watt Shaman, Gorgoroth 
La band transalpina al traguardo del quinto album, rimarca e forgia a fuoco il nuovo corso intrapreso già con il precedente 'The Great Southern Darkness', mostrando al mondo quest'ultimo lavoro uscito per la Agonia Records dal titolo 'Gators Rumble, Chaos Unfurls'. Il nuovo corso è fatto di sonorità black metal, già parte della natura stessa e del passato della band ed eccitanti rasoiate southern rock come quelle che si trovano nella musica dei Down di Phil Anselmo o ancor più, nei grandi Alabama Thunder Pussy, passando solo di striscio dal black' n roll. Tra queste tracce troviamo la stessa polvere, il catrame, la nicotina che calcifica la voce del vocalist Billy Bayou che sembra l'ombra nera di Anselmo o di Dan Kerzwick in 'Seed of Decades' degli Sixty Watt Shaman. La sua chitarra strabiliante e carica di sabbia desertica, malata di '70s rock e stoner è quanto serve per portar scompenso nell'ascoltatore che non riesce mai a rinchiudere i Glorior Belli versione 2013 in uno dei generi prima citati. Considerata la presenza massiccia di southern rock e polvere, non rimane che chiederci a questo punto, quanto spazio resta per l'anima black metal della band?Esattamente l'altra metà è la risposta! Infatti la mustang di Billy viaggia sull'autostrada dell'inferno, nero come la pece e pieno di dolore e rabbia, dove la polvere è fredda e non risplende il sole. Quindi provate ad immaginare questo accostamento allucinante: la musica degli Tsjuder o dei Gorgoroth attorcigliata a quella degli Alabama Thunder Pussy e non tiratene una conclusione affrettata perché potrete rivedervi fin dal secondo ascolto. Questo lavoro è più blues del suo predecessore, ugualmente maligno ma più caldo e affascinante. Leggermente penalizzato da una registrazione a tratti sottotono e incurante dei bassi ma rude al punto giusto. Sempre più convinti che a qualcuno potrà dar fastidio questo connubio di generi, vogliamo orgogliosamente rimarcare, che questo album nasconde spunti interessantissimi e coraggiosi che ampliano in maniera vintage ed estremamente rock il modo di vedere il metal estremo. Dunque, compratevi una mustang, spegnete la luce del giorno e sfrecciate verso i cactus impolverati della vostra anima nera, ascoltando 'Gators Rumble, Chaos Unfurls' a tutto volume! (Bob Stoner)

(Agonia Records - 2013)
Voto: 70

Taranis - Kingdom

#PER CHI AMA: Black Symph/Avantgarde/Progressive, Arcturus, Dan Swano
Ora io mi domando come sia possibile che una simile release passi inosservata alla maggior parte delle webzine italiane? Questo è un enorme delitto, se si pensa poi che le stesse 'zine vadano a recensire, il più delle volte, immondizia. Fortunatamente, il web mi consente di arrivare a musica per i più sconosciuta, quella che sinceramente a me regala maggiori emozioni. Veniamo ai Taranis, che tanto hanno suscitato rabbia nel sottoscritto per la diffidenza con cui è stata presa la loro release, ma grandi emozioni al suo ascolto. Si tratta di una one man band ungherese, guidata da Attila Bakos addirittura dal 2000 e 'Kingdom' ne segna il debutto ma ahimè anche il canto del cigno. Auspico che il talentuoso musicista magiaro (che ha prestato peraltro le vocals come guest negli ultimi lavori dei conterranei Thy Catafalque) ci ripensi e rilasci un'altra manciata di album che vantino la stessa qualità di questo, che parte con "Storm", song lunghissima che sembra ispirarsi, almeno nei primi minuti, a uno dei tanti progetti paralleli e progressivi dell'altrettanto fenomenale Dan Swano. Parlavo di progressive appunto, ma questo cederà il passo ad una forma illuminata di black sinfonico, per nulla scontato o derivativo, in cui le vocals del bravo Attila, assumono connotati grangruignoleschi, con un finale corale da brividi che ha evocato nella mia memoria 'Hammerheart' dei Bathory. Non privo di splendide orchestrazioni e sapienti arrangiamenti, giungo al secondo brano, "Dominion", che sciorina un bel riffing possente sorretto da eleganti melodie tastieristiche, intrise da una forte vena malinconia, che spezza l'incedere in un mistico break centrale, da cui il mastermind riparte con un'andatura più rallentata, ma decisamente pregna di una certa teatralità. E ancora nel finale sono le magnifiche cleaning vocals ad innalzare il livello qualitativo di una release già di per sé notevolissima. Con "Glory" si ritorna alle epiche cavalcate della opening track e a un cantato che si trova esattamente a cavallo tra il growl e lo scream; peccato solo per la mancanza di un vero batterista in quanto, come spesso capita, il suono sintetico della drum-machine non regala al sound la stessa naturalezza delle vere pelli. Ma si può anche sorvolare a questa mancanza perché la seconda parte del brano offre sprazzi di suoni che spaziano tra il progressivo e l'avantgarde in modo spettacolare, con lo spettro di Dan Swano (ma anche di ICS Vortex) ad aleggiare, almeno a livello vocale. La chiusura di 'Kingdom' (si tratta di 4 pezzi per 40 minuti di musica di classe) viene affidata ad "Origin", song magica e delicata, in cui sono le voci pulite di Attila a dominare (notevole sulle tonalità alte), affiancato da chitarre acustiche e strumentazioni folkloristiche, in grado di regalarci un finale dal mood triste, quasi straziante, ma sicuramente dal forte impatto emozionale. Che altro dire, se non obbligarvi a fare vostro questo cd, per supportare realmente la musica che vale. E Attila con il suo progetto Taranis, merita tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2012)
Voto: 85

domenica 27 aprile 2014

Khladnovzor - White Labirint

#PER CHI AMA: Depressive Black
Eccomi qui a recensire questi Khladnovzor, depressive black metal band dalla russia, la cui line-up è composta da Morokh che stando alle poche informazioni trovate in rete sembrerebbe essere la mente di tutto, Abgott alla voce e Sfavor bassista e programmatore della batteria, questi ultimi suonano entrambi in un progetto nsbm di cui non farò menzione per evitare inutili propagande nei confronti di una scena musicale altrettanto inutile. Mi ha immediatamente colpito l’artwork di 'White Labirint', davvero caotico, in una parola “brutto”: logo della band incomprensibile e disarmonico, e purtroppo ogni cosa scritta sul cd, titolo dell’album e testi sono in cirillico pertanto difficile, per non dire impossibile, capirci qualcosa. Dicevo che la musica contenuta in questo primo full-lenght è un depressive black metal che a tratti va ad assomigliare al Cascadian Black Metal. Di idee ce ne sono diverse, c’è una buona inventiva da parte del chitarrista che tesse la trama di riff molto malinconici e soffusi e questo è il punto di forza della release, anche se ahimè i punti a sfavore sono troppi per poter dichiarare questo album “buono”. La prima e più grande pecca sta nella registrazione che risulta estremamente piatta e con troppi medi; anche tentando di equalizzare al meglio attraverso lo stereo non si riesce ad ottenere un suono soddisfacente, rimangono registrazioni troppo finte, digitali, senza corpo e tridimensionalità. Superando questo cavillo, troviamo una voce poco decisa, poco energica ed impersonale, che non fa altro che peggiorare le cose; la drum-machine, seppur ben programmata è un ulteriore tasto dolente. Le tracce poi, sono troppo lunghe e monotone e finiscono con l’annoiare, inoltre sarebbe il caso di essere meno conservatori e magari offrire una traduzione dei testi dal russo all’inglese. Capisco la voglia e la passione per il nazionalismo, ma il nazionalismo non è chiusura mentale. Se si desidera farsi conoscere, se si vuol portare un messaggio al di fuori della Russia, sarebbe il caso di cominciare a pensare di scendere al livello dei comuni mortali e scrivere in una lingua che sia minimamente comprensibile, dunque, aggiungendo che non capisco assolutamente le tematiche dei testi e non mi è possibile determinare di cosa parlano, posso dire di essere rimasto deluso da questo album, non lo ritengo un ascolto interessante, credo che si possa usare meglio il proprio tempo ed ascoltarsi qualcos’altro. (Alessio Skogen Algiz)

(Nihil Art Records - 2014)
Voto: 55

The Wisdoom – Hypothalamus

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Ufomammut
Recentemente ho letto una recensione di questo primo full lenght dei romani The Wisdoom, pubblicata su una delle più importanti e gloriose riviste musicali italiane, nella quale si impiegava circa metà del (poco) spazio concesso ad incensarne la copertina, liquidando il suo contenuto con poche frettolose parole, che si limitavano a sottolineare la mancanza di coraggio dei quattro, che secondo l’autore avrebbero deciso di seguire strade già battute con successo da altri senza proporre nulla di nuovo. Beh, io dico che forse può essere vero che 'Hypothalamus' non contiene sconvolgenti novità o rivoluzioni ma dico anche che – primo – vorrei sapere quali lavori usciti negli ultimi anni in ambito sludge-doom hanno apportato sostanziali novità tanto da non essere in qualche maniera considerati derivativi (e non mi limito a parlare dell’Italia) e che – secondo – io di dischi “derivativi” come questo, con questa qualità, classe, potenza, ne vorrei a pacchi. Dopo il successo del loro EP omonimo, che aveva spinto i Manetti Bros. a scegliere un loro brano per la colonna sonora di 'Paura', i The Wisdoom sfornano questo loro primo album (quattro pezzi per 45 minuti) con la firma di Lorenzo Stecconi al mastering e missaggio, assoluta garanzia di qualità per colui che è il “responsabile” del suono di Ufomammut e The Secret. E proprio a questi nomi, tra gli altri, è inevitabile che ci si rivolga per identificare la musica dei The Wisdoom, che loro stessi definiscono come un concentrato di “violenza estatica, un viaggio disperato e lisergico attraverso le fasi del sonno”. “Disperazione" e “violenza” sono parole che descrivono bene la lunga “Alpha” che apre il lavoro con un assalto che toglie il respiro e precipita l’ascoltatore in uno stato di angoscia. Dopo la strumentale e interlocutoria “Thema”, si arriva a quello che personalmente considero il vertice del disco, “Delta”: 15 minuti ossessivi e potentissimi, sottolineati da chitarre torturate e sofferenti che si alternano a gorghi nei quali estasi e tormento sono separati da un confine sottilissimo, ai quali è impossibile sottrarsi. A chiudere 'Hypothalamus' ci pensa “Oneiron”, che si stacca nettamente dal clima plumbeo dell’album, con il suo sinuoso movimento post-rock, se non uno squarcio di sole, almeno un inizio di rasserenamento, a suggerire l’avvicinarsi dell’alba. Lavoro imponente e importante, che potrebbe permettere in breve ai The Wisdoom di scrivere il proprio nome accanto a quello di altre band come Lento, Ufomammut e The Secret, in grado di partire dalla penisola per conquistare il mondo. Ah, per la cronaca, anche la copertina (opera di Rise Above) è molto bella… (Mauro Catena)

(Heavy Psych Sounds - 2014)
Voto: 80

Desolace - Hopebringer

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent/Techno Death
Fin dalle prime note di questo 'Hopebringer', vengo scombussolato da una vastità non indifferente di suoni: è "Fear Me" a convogliarmi splendide orchestrazioni (sembrano addirittura i Dimmu Borgir) che si intrecciano con riffs di matrice deathcore intrisi di tecnicismi techno death, un cantato metalcore, break ambient e arrangiamenti da favola, il tutto poi avvolto da quel mood tipico del djent. "Cloudhunter", la seconda traccia, oltra ad offrire un sound pieno, pesante e cristallino, invoglia ad alzare notevolmente il volume, facendo scorrere quei riff ipnotici, elucubranti e deliranti tra i solchi del nostro cervello, mandandoci in crash neuronale. Se ascoltate la musica dei Desolace con le cuffie poi, preparatevi ad andare in grossa confusione (una sorta di hangover), in quanto la moltitudine di suoni arriverà un po' da tutte le parti, riempiendo quasi immediatamente la capacità di apprendimento della vostra mente. Splendido l'attacco di "Inner Circle", fatto di pazzeschi giri di roboanti chitarra, eccellenti arrangiamenti, sovrapposizioni vocali e godibili melodie. Un rabbioso grido apre "Chances", tipica song deathcore, che vanta delle linee di chitarra minacciose su cui ben presto si staglierà una componente solistica tagliente; un brevissimo break e poi un riffing poliritmico dall'effetto ubriacante satureranno le vostre orecchie. Ottime le growling vocals di Kriss Jacobs, mostruosa la performance alla batteria di Danny Joe P. Hofmann, da applausi la triade formata da Marco Bayati, Michel Krause e Maurice Lucas, rispettivamente i due chitarristi e il bassista del combo germanico, che con il loro modo di suonare, rendono ancor più piacevole il mio ascolto. La title track irrompe nel mio impianto hi-fi con il granitico drumming di Danny, sorretto egregiamente dal duo di asce (che quasi impercettibilmente, sembrano rifarsi anche ad uno swedish death) e dalle vocals al vetriolo di Kriss, che ogni tanto si concede anche la possibilità di un cantato pulito, simil disperato. La seconda metà dell'EP ripropone le 5 song in versione completamente strumentale: esperimento interessante in quanto consente di apprezzare ulteriormente il lavoro di questi abili musicisti di Karlsruhe, godendo di suoni, di per sé assai articolati, in modo pulito. Vorrei sottolineare poi un'ultima importantissima cosa per questa entusiasmante band germanica che vorrei proporre un po' a chiunque, anche solo per la loro nobile iniziativa di devolvere parte dell'incasso dell'EP al centro tumori pediatrico della loro città, Karlsruhe appunto. Stimolanti, creativi e molto intelligenti! (Francesco Scarci)