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lunedì 28 aprile 2014

Taranis - Kingdom

#PER CHI AMA: Black Symph/Avantgarde/Progressive, Arcturus, Dan Swano
Ora io mi domando come sia possibile che una simile release passi inosservata alla maggior parte delle webzine italiane? Questo è un enorme delitto, se si pensa poi che le stesse 'zine vadano a recensire, il più delle volte, immondizia. Fortunatamente, il web mi consente di arrivare a musica per i più sconosciuta, quella che sinceramente a me regala maggiori emozioni. Veniamo ai Taranis, che tanto hanno suscitato rabbia nel sottoscritto per la diffidenza con cui è stata presa la loro release, ma grandi emozioni al suo ascolto. Si tratta di una one man band ungherese, guidata da Attila Bakos addirittura dal 2000 e 'Kingdom' ne segna il debutto ma ahimè anche il canto del cigno. Auspico che il talentuoso musicista magiaro (che ha prestato peraltro le vocals come guest negli ultimi lavori dei conterranei Thy Catafalque) ci ripensi e rilasci un'altra manciata di album che vantino la stessa qualità di questo, che parte con "Storm", song lunghissima che sembra ispirarsi, almeno nei primi minuti, a uno dei tanti progetti paralleli e progressivi dell'altrettanto fenomenale Dan Swano. Parlavo di progressive appunto, ma questo cederà il passo ad una forma illuminata di black sinfonico, per nulla scontato o derivativo, in cui le vocals del bravo Attila, assumono connotati grangruignoleschi, con un finale corale da brividi che ha evocato nella mia memoria 'Hammerheart' dei Bathory. Non privo di splendide orchestrazioni e sapienti arrangiamenti, giungo al secondo brano, "Dominion", che sciorina un bel riffing possente sorretto da eleganti melodie tastieristiche, intrise da una forte vena malinconia, che spezza l'incedere in un mistico break centrale, da cui il mastermind riparte con un'andatura più rallentata, ma decisamente pregna di una certa teatralità. E ancora nel finale sono le magnifiche cleaning vocals ad innalzare il livello qualitativo di una release già di per sé notevolissima. Con "Glory" si ritorna alle epiche cavalcate della opening track e a un cantato che si trova esattamente a cavallo tra il growl e lo scream; peccato solo per la mancanza di un vero batterista in quanto, come spesso capita, il suono sintetico della drum-machine non regala al sound la stessa naturalezza delle vere pelli. Ma si può anche sorvolare a questa mancanza perché la seconda parte del brano offre sprazzi di suoni che spaziano tra il progressivo e l'avantgarde in modo spettacolare, con lo spettro di Dan Swano (ma anche di ICS Vortex) ad aleggiare, almeno a livello vocale. La chiusura di 'Kingdom' (si tratta di 4 pezzi per 40 minuti di musica di classe) viene affidata ad "Origin", song magica e delicata, in cui sono le voci pulite di Attila a dominare (notevole sulle tonalità alte), affiancato da chitarre acustiche e strumentazioni folkloristiche, in grado di regalarci un finale dal mood triste, quasi straziante, ma sicuramente dal forte impatto emozionale. Che altro dire, se non obbligarvi a fare vostro questo cd, per supportare realmente la musica che vale. E Attila con il suo progetto Taranis, merita tutta la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2012)
Voto: 85

domenica 27 aprile 2014

Khladnovzor - White Labirint

#PER CHI AMA: Depressive Black
Eccomi qui a recensire questi Khladnovzor, depressive black metal band dalla russia, la cui line-up è composta da Morokh che stando alle poche informazioni trovate in rete sembrerebbe essere la mente di tutto, Abgott alla voce e Sfavor bassista e programmatore della batteria, questi ultimi suonano entrambi in un progetto nsbm di cui non farò menzione per evitare inutili propagande nei confronti di una scena musicale altrettanto inutile. Mi ha immediatamente colpito l’artwork di 'White Labirint', davvero caotico, in una parola “brutto”: logo della band incomprensibile e disarmonico, e purtroppo ogni cosa scritta sul cd, titolo dell’album e testi sono in cirillico pertanto difficile, per non dire impossibile, capirci qualcosa. Dicevo che la musica contenuta in questo primo full-lenght è un depressive black metal che a tratti va ad assomigliare al Cascadian Black Metal. Di idee ce ne sono diverse, c’è una buona inventiva da parte del chitarrista che tesse la trama di riff molto malinconici e soffusi e questo è il punto di forza della release, anche se ahimè i punti a sfavore sono troppi per poter dichiarare questo album “buono”. La prima e più grande pecca sta nella registrazione che risulta estremamente piatta e con troppi medi; anche tentando di equalizzare al meglio attraverso lo stereo non si riesce ad ottenere un suono soddisfacente, rimangono registrazioni troppo finte, digitali, senza corpo e tridimensionalità. Superando questo cavillo, troviamo una voce poco decisa, poco energica ed impersonale, che non fa altro che peggiorare le cose; la drum-machine, seppur ben programmata è un ulteriore tasto dolente. Le tracce poi, sono troppo lunghe e monotone e finiscono con l’annoiare, inoltre sarebbe il caso di essere meno conservatori e magari offrire una traduzione dei testi dal russo all’inglese. Capisco la voglia e la passione per il nazionalismo, ma il nazionalismo non è chiusura mentale. Se si desidera farsi conoscere, se si vuol portare un messaggio al di fuori della Russia, sarebbe il caso di cominciare a pensare di scendere al livello dei comuni mortali e scrivere in una lingua che sia minimamente comprensibile, dunque, aggiungendo che non capisco assolutamente le tematiche dei testi e non mi è possibile determinare di cosa parlano, posso dire di essere rimasto deluso da questo album, non lo ritengo un ascolto interessante, credo che si possa usare meglio il proprio tempo ed ascoltarsi qualcos’altro. (Alessio Skogen Algiz)

(Nihil Art Records - 2014)
Voto: 55

The Wisdoom – Hypothalamus

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, Ufomammut
Recentemente ho letto una recensione di questo primo full lenght dei romani The Wisdoom, pubblicata su una delle più importanti e gloriose riviste musicali italiane, nella quale si impiegava circa metà del (poco) spazio concesso ad incensarne la copertina, liquidando il suo contenuto con poche frettolose parole, che si limitavano a sottolineare la mancanza di coraggio dei quattro, che secondo l’autore avrebbero deciso di seguire strade già battute con successo da altri senza proporre nulla di nuovo. Beh, io dico che forse può essere vero che 'Hypothalamus' non contiene sconvolgenti novità o rivoluzioni ma dico anche che – primo – vorrei sapere quali lavori usciti negli ultimi anni in ambito sludge-doom hanno apportato sostanziali novità tanto da non essere in qualche maniera considerati derivativi (e non mi limito a parlare dell’Italia) e che – secondo – io di dischi “derivativi” come questo, con questa qualità, classe, potenza, ne vorrei a pacchi. Dopo il successo del loro EP omonimo, che aveva spinto i Manetti Bros. a scegliere un loro brano per la colonna sonora di 'Paura', i The Wisdoom sfornano questo loro primo album (quattro pezzi per 45 minuti) con la firma di Lorenzo Stecconi al mastering e missaggio, assoluta garanzia di qualità per colui che è il “responsabile” del suono di Ufomammut e The Secret. E proprio a questi nomi, tra gli altri, è inevitabile che ci si rivolga per identificare la musica dei The Wisdoom, che loro stessi definiscono come un concentrato di “violenza estatica, un viaggio disperato e lisergico attraverso le fasi del sonno”. “Disperazione" e “violenza” sono parole che descrivono bene la lunga “Alpha” che apre il lavoro con un assalto che toglie il respiro e precipita l’ascoltatore in uno stato di angoscia. Dopo la strumentale e interlocutoria “Thema”, si arriva a quello che personalmente considero il vertice del disco, “Delta”: 15 minuti ossessivi e potentissimi, sottolineati da chitarre torturate e sofferenti che si alternano a gorghi nei quali estasi e tormento sono separati da un confine sottilissimo, ai quali è impossibile sottrarsi. A chiudere 'Hypothalamus' ci pensa “Oneiron”, che si stacca nettamente dal clima plumbeo dell’album, con il suo sinuoso movimento post-rock, se non uno squarcio di sole, almeno un inizio di rasserenamento, a suggerire l’avvicinarsi dell’alba. Lavoro imponente e importante, che potrebbe permettere in breve ai The Wisdoom di scrivere il proprio nome accanto a quello di altre band come Lento, Ufomammut e The Secret, in grado di partire dalla penisola per conquistare il mondo. Ah, per la cronaca, anche la copertina (opera di Rise Above) è molto bella… (Mauro Catena)

(Heavy Psych Sounds - 2014)
Voto: 80

Desolace - Hopebringer

#PER CHI AMA: Deathcore/Djent/Techno Death
Fin dalle prime note di questo 'Hopebringer', vengo scombussolato da una vastità non indifferente di suoni: è "Fear Me" a convogliarmi splendide orchestrazioni (sembrano addirittura i Dimmu Borgir) che si intrecciano con riffs di matrice deathcore intrisi di tecnicismi techno death, un cantato metalcore, break ambient e arrangiamenti da favola, il tutto poi avvolto da quel mood tipico del djent. "Cloudhunter", la seconda traccia, oltra ad offrire un sound pieno, pesante e cristallino, invoglia ad alzare notevolmente il volume, facendo scorrere quei riff ipnotici, elucubranti e deliranti tra i solchi del nostro cervello, mandandoci in crash neuronale. Se ascoltate la musica dei Desolace con le cuffie poi, preparatevi ad andare in grossa confusione (una sorta di hangover), in quanto la moltitudine di suoni arriverà un po' da tutte le parti, riempiendo quasi immediatamente la capacità di apprendimento della vostra mente. Splendido l'attacco di "Inner Circle", fatto di pazzeschi giri di roboanti chitarra, eccellenti arrangiamenti, sovrapposizioni vocali e godibili melodie. Un rabbioso grido apre "Chances", tipica song deathcore, che vanta delle linee di chitarra minacciose su cui ben presto si staglierà una componente solistica tagliente; un brevissimo break e poi un riffing poliritmico dall'effetto ubriacante satureranno le vostre orecchie. Ottime le growling vocals di Kriss Jacobs, mostruosa la performance alla batteria di Danny Joe P. Hofmann, da applausi la triade formata da Marco Bayati, Michel Krause e Maurice Lucas, rispettivamente i due chitarristi e il bassista del combo germanico, che con il loro modo di suonare, rendono ancor più piacevole il mio ascolto. La title track irrompe nel mio impianto hi-fi con il granitico drumming di Danny, sorretto egregiamente dal duo di asce (che quasi impercettibilmente, sembrano rifarsi anche ad uno swedish death) e dalle vocals al vetriolo di Kriss, che ogni tanto si concede anche la possibilità di un cantato pulito, simil disperato. La seconda metà dell'EP ripropone le 5 song in versione completamente strumentale: esperimento interessante in quanto consente di apprezzare ulteriormente il lavoro di questi abili musicisti di Karlsruhe, godendo di suoni, di per sé assai articolati, in modo pulito. Vorrei sottolineare poi un'ultima importantissima cosa per questa entusiasmante band germanica che vorrei proporre un po' a chiunque, anche solo per la loro nobile iniziativa di devolvere parte dell'incasso dell'EP al centro tumori pediatrico della loro città, Karlsruhe appunto. Stimolanti, creativi e molto intelligenti! (Francesco Scarci)

sabato 26 aprile 2014

Hoth - Oathbreaker

#PER CHI AMA: Post Black/Death, Deafheaven, Celtic Frost
Per una volta sono riuscito a bruciare tutti i miei colleghi sul tempo e accaparrarmi questo cd. La cosa che mi fa più sorridere è che fino ad un paio d'anni fa, se mi avessero proposto una band americana da recensire, avrei certamente declinato e passato; ora il mio sguardo volge quasi esclusivamente oltreoceano, in quanto il livello compositivo nel black metal, si è notevolmente alzato, soprattutto con l'esplosione del cascadian black e grazie a band quali Agalloch e Deafheaven. E oggi mi ritrovo di nuovo su quella costa degli Stati Uniti che si affaccia sull'Oceano Pacifico, stato di Washington, Seattle per la precisione. No, non sto per affrontare nessun album grunge o post-grunge. Oggi affronto gli Hoth (oscuro duo formato da Eric e David), che trae ispirazione per il loro moniker dal pianeta ghiacciato citato in 'Guerre Stellari: l'Impero colpisce ancora'. L'album è costituito da otto pezzi, il cui inizio, "The Unholy Conception", ci annichilisce con un feroce black death, apparentemente d'ordinaria amministrazione, che vive la sua punta di eccellenza nel fantastico break acustico (ispirato ai primi folklorici In Flames o agli Opeth più ispirati) che ci accompagnerà quasi fino al suo graffiante epilogo. Torno a respirare l'aria fredda del nord, ma questa volta non mi trovo in Scandinavia, bensì negli States. Pungente l'aria, ma anche il sound dei due musicisti americani. "A Blighted Hope" ci delizia con quasi tre minuti di arpeggi bucolici per poi massacrarci con chitarre velenose e acuminate come il pungiglione di uno scorpione. Un po' cascadiani, un po' influenzati dalla scena nordica di Gotheborg, il sound degli Hoth potrà soddisfare un po' tutti i palati, dai blacksters più incalliti, ai deathsters melodici e perché no, anche per coloro che ricercano sonorità old school, come testimoniato dalla verve di Celtic Frost memoria di "Cryptic Nightmares". 'Oathbreaker' è un concept album realizzato con intelligenza e perizia tecnica, che non tarderà ad incontrare anche il vostro consenso. Un concept dicevo: i nostri ci tengono a farci sapere che il lavoro narra la storia di un individuo dalla sua nascita seguendolo in un percorso sempre più oscuro, all'insegna della malvagità. Continuo con l'ascolto e arriva il turno di "Serpentine Whispers", una traccia per molti versi avvicinabile agli svedesi Dispatched: song veloce segnata da ritmiche serrate ma anche da linee di chitarra che richiamano la maestosità della musica classica. Musica classica che emerge forte anche nell'intro di "Acolyte of the Tenebrous Night", dove mi sembra addirittura di trovarmi di fronte un'orchestra al completo che suona black metal. Sublimi. Come non citare infine "Oblivion", song che vive di sussulti in un mood musicale fatto di luci e ombre, roboanti ritmiche e splendide fughe solistiche, vocals arcigne e melodie folkloristiche. A chiudere ci pensa "Despair" che sfodera un ottimo e profondo growling in un pezzo molto meno tirato rispetto ai precedenti, ma più velatamente intriso di malinconiche sonorità post black e cinematiche orchestrazioni che decretano la validità di questo prodotto, consigliato a tutti coloro che bazzicano dinamiche sonorità estreme. Buon ascolto! (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto. 75 

venerdì 25 aprile 2014

Prostitute Disfigurement - From Crotch to Crown

#FOR FANS OF: Brutal/Techno Death, Cannibal Corpse, Severe Torture, Suffocation 
Honing in on album number five after a lengthy absence, these maniacal Dutchmen offer forth one of their most impressive and imposing albums yet. Having since injected a rather rousing technicality into their old-school formula of utterly brutal and horrifying riffs, together these two elements are like magic in creating one of the most imposing and listenable albums in the genre that really serves as a welcoming template for the carnage to unfold throughout here. The riffs are the old-school Cannibal Corpse style of thrashing, high-speed and intense notes delivered with precision at those high-speeds with jagged leads, crushing rhythms and a dash of unrelenting brutality, moreso than the Floridians ever displayed which speaks to their own past when they were one of the most brutal Death Metal outfits on the scene for that very reason. Like modern Cannibal Corpse, they employ a searing series of riff dynamics which incorporate varied tempos, outstanding soloing and a jaw-dropping amount of energy in keeping this material flying throughout the varying moods and feels throughout. As well, with a more pronounced series of technically-proficient riffs being introduced last time around, there’s a jagged ambience to their attack that serves the brutality as well which makes those stick out far more than their past series of albums ever could when it just focused on the brutality straightforwardly, and when all this accomplished riff-work is melded together with battering-ram style drumming displaying a pronounced knack for brutal rhythms, scorching patterns and unrelenting speed doling out sick fills and rolling double-bass lines along with thick, blood-drenched bass-lines and furious, deep vocals together, the result is a marvelous masterpiece of perversity that incorporates their penchant for dark auras and blinding technicality within their speed-drenched and technical tracks. Tracks like intro "Only Taste for Decay," "Battered to the Grave," "Crowned in Entrails," "Under the Patio" and the title track offer up a strong set of brutally-proficient and technically-complex riffs in raging tempos with non-stop energy throughout, offering rather strong tracks that all serve as the album’s highlights, "Patio" in particular for its dazzling use of traditionally-minded soloing that comes off far more dynamic and expressive than the other, denser tracks. Even stuff like "Set Forth to Annihilate" and "Reduced to Stumps" provide some rather frenetic moments as they set forth raging through their paces. For some diversity, "Dismember the Transgender" offers a more mid-paced selection that plods along nicely with a nice progression of solos that build in intensity and brutality from its more modest beginnings, while "Glorify Through Cyanide" drops the raging tempo for a destructive mid-tempo blast littered with non-stop explosive blastbeats against more of that traditionally-minded soloing. Overall, it’s not concerned with diversity, only in unleashing major amounts of physical trauma and bludgeoning atmospheres, and right now very few have done that better than this offering. (Don Anelli)

(Willowtip - 2014) 
Score: 85 

mercoledì 23 aprile 2014

Restless Oblivion - Sands of Time

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema, My Dying Bride 
Non potevo farmi scappare la possibilità di recensire una band chiamata Restless Oblivion, nome che evoca nel sottoscritto (e in chissà in quanti altri di voi) ancestrali memorie che riportano ad una delle più famose canzoni degli Anathema, contenuto nel mitico 'The Silent Enigma' del 1995, ultima grande perla death doom della band inglese. Cosi, con un mix tra interesse e curiosità, mi sono avvicinato al debut album del combo russo. Ovviamente a tutti risulterà scontato cosa ci sia da aspettarsi da 'Sands of Time', soprattutto quando dietro c'è anche lo zampino della Solitude Productions. Ora, la grande domanda è piuttosto che tipo di release death doom i nostri hanno da offrirci, e a quale livello qualitativo si pone nella miriade di uscite in quest'ambito. Ebbene, presto detto: dopo un'inusuale intro, "Edge of Existence" parte con i consueti ritmi a rallentatore e le profonde growling vocals di Elf. Fin qui tutto nella norma in effetti, il solito album dell'ormai arcinota etichetta russa. Tuttavia, qualcosa di atavico e anomalo (nel senso positivo del termine, sia chiaro) va maturando nel sound dei nostri, anche se è ancora in forma embrionale. Difficile da spiegare peraltro, ma intanto qualche linea di chitarra mi sembra possa richiamare il capolavoro succitato dei fratelli Cavanagh; da sottolineare poi l'eccellente lavoro in chiave solistica del duo di asce formato da Asmodian e Evgen e infine l'intrigante lavoro di atmosfere eretto, che rimanda invece agli esordi dei Phlebotomized. Insomma, un pezzo che per quanto segua le orme del classico death doom albionico, nasconde comunque qualcosa di intrigante e suggestivo nelle sue note. "Resolution of Slavish Pain" ha in sé qualche richiamo al suono più oscuro e morboso dei primi My Dying Bride, quello più funereo e depressivo, anche se i giochi espressivi dei due axemen, favoriscono una maggiore dinamicità della proposta dell'act di Voronezh. Pur offrendo una musica che tende spesso a virare verso lidi funeral doom, il punto di forza del quintetto rimane quello delle su parti atmosferiche che donano grazia, melodia e pertanto una maggiore accessibilità al nuovo prodotto targato Solitude. "Like the Hope of Escape" continua nel macinare riff massicci, ritmi slow, vocioni da orco, malinconiche tastiere e ottimi solos. Insomma fin qui tutto bene, il classico e onesto lavoro apocalittico che farà la gioia degli amanti del genere. Ma la domanda che nasce spontanea è un'altra: non ci si può discostare dagli stilemi di un genere che sta andando via via impantanandosi nella noia? Una voce diversa a parte quella terribile e profonda, un riffing un po' più stralunato? I Restless Oblivion ci provano qua e là, ripescando qualche soluzione acustica proprio dal mai dimenticato 'The Silent Enigma', il cui eco appare e scompare più volte nel corso del disco. C'è ancora da lavorare e sodo, tuttavia come detto inizialmente, c'è qualcosa di leggermente diverso nel sound di questi ragazzi che mi tiene ancora incollato all'ascolto di 'Sands of Time'. Devo capire cos'è. Lasciatemelo ascoltare ancora una volta... (Francesco Scarci)


(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

Throne of Katarsis - The Three Transcendental Keys

#FOR FANS OF: Norwegian Black Metal, Immortal, early Mayhem
The fourth full-length effort from Norwegian Black Metal purists Throne of Katarsis is a dense, meaty effort of old-school Black Metal that might be one of the most epic pieces of music ever created out of the scene, not for the lasting impact it’ll have on the genre as a whole but the general weight of the record itself. Boasting only three epic, monumental tracks for just under fifty minutes combined, there’s a lot to take in on this record and it certainly evokes such warranted replays for this is a record based more on the writing of the three pieces than the actual music itself. Naturally, of a record like this the first question asked is about the writing: how does this stay interesting for the duration on an average of fifteen minutes a song? The answer is pretty good, as the evocative, dreary music does manage to make a series of occult passages seem like natural causes for the band, opting to place this as a really atmospheric record that conjures the might and cold of a snowbound forest quite effectively, with raw, blaring guitars and low-fi recording styles producing the eerie feel required to effectively capture the early '90s scene throughout, and with it comes the requisite growling and howls that have long been associated with the genre. The fact is, though, what really keeps this from moving from ‘pretty good’ to ‘amazingly’ is the fact that the songs are so simplistic in their approach it really stretches the brain as for why they’re this long. Rather than weaving through intricate layers of riffing, obscure instrumentation or other facets that would justify why you would produce such an epic-length track, the band instead sticks to reproducing the same droning patterns and tremolo-picked melodies against the same drum-patterns throughout this one’s duration, effectively making it seem like you could be anywhere within the track as it’s playing and you wouldn’t know. "The Second Transcendental Key" is really the only one of the group that sticks out for it’s more of a melodic, plodding pace at first then weaves in more atmospheric sections before settling on honing it’s mid-tempo pace throughout the remaining minutes. It’s the same basic, blaring guitar riffs over low-fi production, thumping drums and screams just in extended, epic movements which really doesn’t make for a coherent experience if attempted in one sitting. This is clearly meant for one continuous listen based on the rather profound and noteworthy methods of employing the primal atmosphere and bestial aggression that made the early Norwegian bands so fun to begin with, but when it’s the same droning patterns going on and on after fifteen minutes a pop throughout these tracks, the decision to do a record of this length does become an issue. It’s certainly good at aping the source material and the arrangements do have a frostbitten vibe that makes them stand-out from the pack nicely, but the songwriting might need a little tightening up next time around. (Don Anelli)

(Candlelight - 2013)
Score: 70