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mercoledì 8 febbraio 2017

Demogorgon - Dilemma. Revenge. Snow.

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum, Enslaved
Il numero di band provenienti dalla Cina sta iniziando a crescere di giorno in giorno, merito anche della superpotenza dell'etichetta di Nanchang, la Pest Productions. Francamente, ritengo che questa ondata proveniente dall'estremo oriente sia cosa assai positiva, perché porta una ventata di freschezza ad una scena a tratti stagnante, grazie ai folklorici suoni della tradizione cinese. I Demogorgon sono una delle ultime realtà che compaiono sulle pagine del Pozzo, ma a dire il vero, alcuni suoi membri li abbiamo già incontrati in passato, in quanto l'ensemble include musicisti provenienti dai Zuriaake, Holyarrow e dai Destruction of Redemption. Ma entriamo più in profondità in quello che è il debut EP di questa band. Due le canzoni a disposizione, la lunghissima "Dilemma. Revenge. Snow." e la strumentale "Sadness Moon", per un totale di 25 minuti. Si inizia con le sonorità nordiche della title track, fatte di chitarre in tremolo picking, atmosfere fantasy, chorus epici, che potrebbero far pensare ad una qualche band scandinava dedita al viking metal, in stile Einherjer o Manegarm. I testi arrivano addirittura da una novella cinese sugli eroi marziali, "Fox Volant of the Snowy Mountain". Il risultato è ragguardevole, sebbene la produzione non sia proprio delle migliori. Quelle aspre cime innevate in copertina poi, la spada della back cover, i synth in stile Burzum con harsh vocals annesse, mi spingono a idealizzare la opening track come la melodia perfetta per le 'Cronache del Ghiaccio e del Fuoco', in un brano che tra passaggi ambient e stridori black, ha ancora modo di citare Enslaved e Windir. La seconda traccia si affida completamente al tepore dei synth, un po' come se il Burzum più minimalista, ipnotico e visionario, si mettesse a suonare una musica della tradizione cinese e con la melodia dell'ambient, riuscisse addirittura a dipingere le terre sconfinate di quella terra. Sicuramente l'esperimento riesce, grazie alla solennità dei suoi suoni e ad un incedere che va via via in crescendo, in un brano che altrimenti rischierebbe di suonare troppo ripetitivo. La colonna sonora per un qualche film epico in grado di ritrarre la Cina, la sua magia ed i suoi segreti. (Francesco Scarci)

martedì 7 febbraio 2017

Penfield - Parallaxi5

#PER CHI AMA: Electro/Prog Rock/Jazz
Al primo ascolto di questo secondo full length degli svizzeri Penfield, c’è da sentirsi disorientati. Dentro 'Parallaxi5' c’è un po’ di tutto: fusion, lounge, prog rock settantiano alla Pink Floyd, funky, dub, elettronica asciutta come nella moda contemporanea, post-rock nella gestione dei crescendo. Eppure – per strano che sembri – c’è una coerenza di fondo che è innegabile. I Penfield hanno le idee chiare, eccome, anche quando mescolano insieme generi solo apparentemente distanti tra loro. “Rosen” è l’apertura strumentale (in realtà, solo in tre degli otto pezzi appare la voce: il resto sono spoken words campionate) che muove le sue basi da una cassa reversed sulla quale si alternano soli di sax e chitarra che non possono non ricordare il David Gilmoure di 'Echoes'. C’è del funky nella seguente “La Physique Anarchique”, tinto di prog da un interessante partitura di moog, appena prima di approdare in territori più soft-jazz, dove resterà fino ai quasi 13 (lunghissimi) minuti di durata, lasciando peraltro il dovuto spazio all’improvvisazione degli strumentisti. La voce teatrale dell’ospite Walther Gallay guida “Apax 34 002”, che ha il sapore dei King Crimson di 'Islands' frullati da James Blake; ed è sempre Robert Fripp o persino Brian Eno a fare eco nella dilatatissima “Abyss”. MC Xela rappa su “Fashioned Wonderland” ed è subito r&b da club d’alta classe, in stile Fun Lovin Criminals (ma immaginateli mentre sorseggiano champagne, anziché tequila). C’è giusto il tempo per la veloce elettronica ballabile di “DNA”, ed ecco che anche Capitaine Etc. rappa su “L’Anonyme” – ma il brano è inquieto, più riff-based (ma è il moog a svolgere il grosso del lavoro), decisamente più rock prog dei precedenti. Chiude una stranissima “Les Sentiers Goudronnés”, col suo arpeggio quasi scolastico che apre a territori dub conditi da delay sul rullante, basso in sedicesimi e organo in levare. Difetti? Ce ne sono, beninteso. Troppi mid-tempo, forse. Alcuni brani troppo prolissi, ma senza manierismi fini a se stessi. Passaggi non indimenticabili (anche per l’assenza di vocals) e, in generale, un genere che non può essere ascoltato con leggerezza. Solo al secondo o terzo ascolto di 'Parallaxi5 'diventa più chiara la definizione che i Penfield danno del loro genere: cinematic prog o new prog. Una colonna sonora solida, colorata, organica, suonata e registrata impeccabilmente. Non un sottofondo da ascensore o supermercato, intendiamoci – una colonna sonora vera, parte integrante di ciò che vediamo. (Stefano Torregrossa)

Decknamen - Obsidian Scriptures

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Formatisi solamente un anno fa, gli statunitensi Decknamen, dopo aver rilasciato un paio di demo nel 2016, escono con l'EP di debutto 'Obsidian Scriptures', in questo primo scorcio di 2017. Cinque tracce contenute in questo enigmatico lavoro all'insegna di sonorità post black strumentali. Lo si evince con l'introduttiva "Epos", poco più di due minuti di arrembanti sonorità estreme, in cui il trio a stelle e strisce, suona apparentemente distruttivo. A dissipare le nubi che nel frattempo si stanno già accumulando nella mia testa, ci pensa "Shrine of Amenti", un pezzo che mette in luce pregi e difetti della band. I punti di forza riguardano una certa freschezza a livello ritmico da parte del combo americano, con una certa predilezione poi nel mettere in primo piano il lavoro pulsante del basso. Tuttavia, c'è da sottolineare una certa carenza in fatto di precisione a livello strumentale, cosi come quella sensazione che la registrazione, non del tutto professionale, penalizzi il risultato conclusivo. L'apparato ritmico si conferma devastante e parecchio cupo all'inizio della successiva "Omniregency", song che trova modo di rallentare ed accelerare con una facilità disarmante. Quel che emerge però forte arrivati alla terza traccia, è la mancanza di un ultimo fondamentale strumento, la voce. Sebbene i tre musicisti siano bravi a celare la carenza di un vocalist, utilizzando in modo vivace synth e programming, e creando stridolii vari con le chitarre, la necessità di un urlatore, arriva a farsi quasi impellente verso la conclusione del disco. Sono apprezzabili le fughe post rock sul finire della terza traccia o nella prima metà di "The Black Land", segno di una certa apertura mentale e della voglia di sorprendere da parte del trio, però anche in questo caso poteva essere utile una voce, un lamento, un parlato in sottofondo che rendesse la proposta più completa. Ecco, sembra che la musica dei Decknamen sia monca, che il trio arrivi fino ad un punto ma non riesca ad andare oltre perché evidentemente c'è una lacuna profonda, un solco difficilmente superabile, a meno che non si trovino delle soluzioni alla falla. Di potenzialità ce ne sono anche parecchie, vista una rilettura abbastanza originale del genere post black, ma di strada da percorrere in futuro, ce n'è assai di più... (Francesco Scarci)

domenica 5 febbraio 2017

Wolf Counsel - Ironclad

#PER CHI AMA: Doom/Sludge, Saint Vitus, Cathedral, Candlemass, Black Sabbath
Alla prova del secondo album, gli svizzeri Wolf Counsel confezionano un piccolo gioiellino che si muove nei territori del doom e dello sludge vecchia scuola, supportati in particolare dall’ipnotica voce di Ralf W. Garcia – chiaramente ispirata ai grandi del genere come Wino e Lee Dorrian – e da una capacità di songwriting veramente eccellente. Con brani mai sotto i 5 minuti e più facilmente sopra i 6, non è facile non annoiare: ma, nonostante una scrittura nemmeno troppo riff-oriented (siamo da tutt’altra parte rispetto, ad esempio, al riffing di Mastodon o The Melvins!), gli Wolf Counsel riescono a tenere altissima la tensione dal primo all’ultimo minuto di 'Ironclad'. Apre le danze la splendida “Pure As The Driven Snow”, un canto di battaglia ipnotico e ripetitivo, persino epico negli assoli, guidato da una melodia che non dimenticherete facilmente. La successiva “Ironclad” mi ha ricordato i molto più metallari Grand Magus, che tuttavia con i Wolf Counsel, sembrano condividere la stessa passione per le corna alzate e per i potenziali cori di risposta dal pubblico nei live. L’oscurità arriva con le successive “Shield Wall” e “The Everlasting Ride”, pesanti come un macigno e, stavolta, più concentrate nel riffing e nella batteria marziale. L’acida “Days Like Lost Dogs” e la nerissima “When Steel Rains” (il punto più doom del disco) sembrano uscite dritte dritte da uno split tra Saint Vitus e primi Black Sabbath (di nuovo, la voce di Garcia qui è da pelle d’oca, specie quando arricchita dal delay). Chiudono l'opera i 7 minuti abbondanti di “Wolf Mountain”, che di nuovo tributano Cathedral e Candlemass nell’uso dei cori, nei fill di batteria e nell’ossessività delle melodie. Se vi piace lento, cantabile e un bel po’ vecchia scuola – ma amate le produzioni cristalline e i suoni potenti, contemporanei – 'Ironclad' sarà il vostro disco dell’anno. Da ascoltare. (Stefano Torregrossa)

(Czar Of Bullets - 2016)
Voto: 75

https://wolfcounsel.bandcamp.com/album/ironclad

Vilemass - Drilled by Bullet

#PER CHI AMA: Death Old School, Cannibal Corpse
"...Nuntio vobis gaudium magnum", ovvero "vi annuncio una grande gioia". Da qui parte "Vulgar Religion", prima traccia del primo demo 'Drilled by Bullet' dei pugliesi Vilemass. Tanto death old school per il combo di Bisceglie, che in 25 minuti fa capire che non ha tanto tempo da perdere in fronzoli e ciliegine. Il sound è corposo come si addice alle migliori produzioni death americane, con riff non ricercatissimi ma che fanno della semplicità la loro arma vincente, e con l'ascoltatore che non deve crucciarsi per capire cosa i nostri stiano combinando. La batteria copre ogni angolo nascosto in modo esemplare, e una voce diretta, "sputa" una monotonalità growl con grande professionalità, quindi, vene sul collo grandi come vasetti di sottaceti e la classica vena sulla fronte pronta ad inondarci di sangue bollente una volta esplosa. Partendo dalla opening track, che parte con varie ispirazioni ad altrettante religioni e si dispiega con riffs e crismi alla Cannibal Corpse, si passa alla title track che si snoda con ottimi cambi tematici. Tuttavia la migliore per il sottoscritto è "Illuminati", che parte velocissima e non dà tregua fino a metà, dove lo stop pennato è da SERIE A ed è li che si supera il fossato che distingue i Vilemass dagli altri gruppi nel mazzo. La sirena ci fa passare da "War Machine", rabbiosa e più ignorante, mentre un riff granitico ci introduce a "Trapped" song con tapping incorporato e rallentamenti alla Morbid Angel. "Lizard Law" è traccia assai martellante, che chiude in bellezza con un delay questo demo. Respiro. Un ottimo debutto, anche se questi ragazzi non sembrano essere alla prima esperienza; ho visto che stanno anche per realizzare un videoclip, che sicuramente suggellerà e farà avanzare il gruppo ad un livello superiore. E sopra le scale, ci sarò io ad aspettare il loro prossimo lavoro. (Zekimmortal)

Coma Cluster Void – Mind Cemeteries

#PER CHI AMA: Techno Death/Mathcore, Ion Dissonance, Gorguts
Non si può certo negare a questo album la meritata conquista del titolo di essere stato considerato da più fonti, una delle migliori uscite del 2016 in ambito death metal tecnico, super tecnico oserei dire. La band comprende musicisti di più nazionalità (USA, Canada, Germania) con esperienze importanti (Cryptopsy, Dimensionless, Thoren, Xelmya), senza dimenticare la presenza del compositore a tutto campo (vedi le sue ottime composizioni per viola, violoncello e oltre...) John Strieder (già collaboratore con i mitici War From a Harlots Mouth) alla chitarra e Sylvia Hinz, al basso, altro eclettico artista animato da spirito di ricerca in tutte le direzioni. Il punto fermo per affrontare al meglio questo album è capire che il death metal visto da questa angolatura è da considerare soprattutto una condizione cerebrale e tutto il processo che avviene nella creazione dei brani nasconde un'infinità di strutture sonore che s'incontrano e scontrano, processi mentali contorti elaborati e rielaborati sotto forma sonica stratificata e dissonante, violenta e astratta, come se venisse da un abisso creatosi all'interno dei nostri più profondi sentimenti. Stilisticamente parlando potremmo mettere 'Mind Cemeteries' in un limbo sospeso tra l'attraente brutalità d'avanguardia degli ultimi Napalm Death, il super tecnicismo dei Beyond Creation, il death metal artistico dei Gorguts e l'immaginario oscuro e futurista degli Ion Dissonance, anche se rimane sempre difficile rinchiudere i Coma Cluster Void in una singola cerchia di derivazione musicale, visto l'alto potenziale di originalità che questo primo full length esprime. Oscurità, oppressione, schizofrenia e nevrosi sono di casa nel visionario mondo di questa band assai speciale, che non vive assolutamente di banale e devastante velocità ma trasforma in musica reali sentimenti ed emozioni umane esplorando, come racconta il titolo dell'album, storie ed incubi di un cimitero mentale diffuso e radicato. Produzione egregia, ottima esecuzione con tutto collocato al posto giusto e con le dissonanze della chitarra che spiccano per splendore e perversa fantasia in undici brani caotici e catartici, avvolgenti come un nero mantello. In ogni traccia si apprezza tutto e c'è da sbizzarrirsi nell'inseguire i vari strumenti attraverso le variazioni e le acrobazie sdoganate e senza limiti. La traccia che riflette l'umore dell'intero disco è da identificarsi in "Iron Empress", una vera e propria delizia metallica, stralunata ed imprevedibile, seguita dalla pirotecnica "Drowning Into Sorrow" e dalla sinistra "The Hollow Haze". Belli, atipici e anche particolari, considerati l'intermezzo "Interlude: I See Through Your Pain" e la chiusura di "Epilogue: As I Walk Amongst the Sick" con una voce femminile di sicuro effetto destabilizzante. Debutto notevole e immancabile album nelle librerie degli amanti del genere. Da avere ed amare a tutti i costi, un lavoro superlativo. (Bob Stoner)

giovedì 2 febbraio 2017

Infecting the Swarm - Abyss

#FOR FANS OF: Brutal Death metal, Dawn of Demise, Cannibal Corpse
Personality, atmosphere, passion, these three traits make albums stand out among the pack and Infecting the Swarm doesn't display much of any of these traits throughout this second full-length album, 'Abyss'. A one-man band from Bavaria, Infecting the Swarm shows the way that the cohesion in a single mind can easily render talent barren when faced with going it alone. In brutal death metal you'd expect to hear something larger than life. Instead this band plods along with little passion, content to reciprocate like a saw carving just for the sake of doing it rather than because there was a hidden meaning to unleash within the wood. From a constant flow of the same quaking guitar rhythms varied only slightly in whether the drums go cymbal or snare first, this bland display of the banality of evil pathetically puts the listener to sleep. Listening to Infecting the Swarm's 'Abyss' in one sitting is a dense and lonely circle of Hell. This torturous tumult of decibels rapes this milquetoast metal outfit's barely existent audience of what little passion would show from someone so blind as to be a fan of such an uncreative band. In only half and hour this band manages to implement a scarcely worthwhile swarm of riffs that rack at the eardrums without making any hint of a positive impression, locking Hannes' zeal for music into a prison of mediocre and inane sound that indemnifies the existence of this purposeless album. While this band gets compared to brutal and technical giants like Wormed and Defeated Sanity, the quality of 'Abyss' is more along the lines of Colombia's Carnal and their utterly unnecessary 'True Blasphemy'.

Infecting the Swarm is your average brutal death metal fare of disgusting gutturals, frenetic riffing, relentless blast beats, and dull, tedious atonality. From a band that doesn't break down at all, it's a wonder just how Hannes can think he will get away with obnoxiously overusing the same sounds and passing them off as different songs. After the album opens with dreary languishing guitar notes of “Entropy”, “Abyss” drops into this constant descending riff and blast call and response that starts at square one, rattles against its interminable cage for a while, and then ends just where it began punctuated only in fleeting moments in “Hypogean Awakening” before drowning itself in more of the same. “Innate Divinity” is a long inane delivery of Cannibal Corpse riffs while the only thing making “The Bleak Abyss” differ from it is some sludgy elongated guitar notes denoting the ends of riffs flowing from this wall of hollow sound. There is so little variation in this very long half hour that it's easier to zone out and let your ears relegate the relentless wall of sound to the background of your mind than beleaguer it with the practice of listening to the barest minimum of variations on the same structure ad nauseum. Granted, there are two songs on this album that actually make this band worth your time. After a twenty-eight minute series of unadventurous riffs slogging around a relentless onslaught of percussive blasts, the listener is given a seven minute experimentation in slamming together some competent brutal death metal as what seems to be an apology for the appallingly inane waste of time that this musician has put his audience through. With the guitars doing exactly what the title denotes in “Spiral Fragmentation”, this song stands far ahead of the others and finally for once gives enough balance between the low end intensity and a high end rise to demonstrate the conflict and juxtaposition of brutal death metal from other contending styles. “Decension” also gives you an imposing atmosphere and a listenable rhythm, finally creating reason for a song to exist on this album rather than throwing the listener into another impassible river of carbon copy riffs drowned in pointless percussion. These two songs show some talent from Infecting the Swarm's creator but they don't excuse the repulsive amount of waste poured into the cookie cutter mold of the previous seven tracks. There is no growth, nowhere to be explored, and this desolate and bleak structure makes this flaccid album a contrived long-winded cry into the isolating void of niche obscurity.

Sadly, 'Abyss' is a terrible display of what living in the echo chamber of your own mind will give you and an awful example of what bedroom metal has to offer. It's even sadder when hearing an album this bad makes something as mediocre as Dawn of Demise's 'The Suffering' sound fresh and full of motion. If you want to get into Infecting the Swarm, check out the first full-length, “Pathogenesis”. 'Abyss' was just not meant to be. Where bands like Brodequin and Wormed have taken the ultra-brutal template and made it a fun, challenging, and fresh experience, Infecting the Swarm fits the stereotype of the atonal death metal hammer mindlessly dropping with little more reason for its noise than to shoe a one-trick pony. (Five_Nails)

 
(Lacerated Enemy Records - 2016)
Score: 30

https://infectingtheswarm.bandcamp.com/

Love Forsaken - Sex, War & Prayers

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, primi Sadist
Ecco un’altra band che ho seguito fin dagli esordi, possedendo i loro primi due demo cd e che vi propongo nello spazio 'Back in Time': i Love Forsaken arrivano da Belluno e 'Sex, War & Prayers' (album del 2004, ma ristampato e accompagnato da una veste grafica rinnovata) rappresenta il debutto ufficiale sulla lunga distanza. Se nei primi demo i ragazzi erano palesemente influenzati da un techno death sulla scia di Pestilence e Death, in questo lavoro, si ravvisa una maturazione da parte del combo veneto e una sterzata nel sound, verso lidi più progressivi e atmosferici. L’album non è per niente male anche se la non ancora completa maturazione del quintetto, paga dazio, in alcuni frangenti, con momenti non del tutto brillanti. Comunque sia, il sound di 'Sex, War & Prayers' parte da una base thrash/death sulla quale si inseriscono ispirate e ariose tastiere tese a conferire un’atmosfera al limite dell’apocalittico. Richiami evidenti ad altre band non sono così lampanti; si possono udire echi goticheggianti in alcuni passaggi atmosferici, qualche assolo omaggia pur sempre il death “made in USA“ ma tributa anche 'Above the Light', dei Sadist, monumento italiano del death progressivo. Spiazzanti e talvolta fin troppo imprevedibili in alcune scelte musicali (ma questa è la loro forza), la band offre una buona sezione ritmica, con le tastiere sempre ad avere il ruolo predominante nell’economia dei brani; ottima infine la prova alla voce di Danny, bravo nel passare da vocalizzi growl a voci effettate. Con un pizzico di personalità in più, i Love Forsaken avrebbero potuto diventare una new sensation italiana. E invece, un altro album nel 2008 e lo split definitivo nel 2010, peccato... (Francesco Scarci)

(Self - 2004)
Voto: 65

https://myspace.com/loveforsaken