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domenica 7 febbraio 2016

Raventale - Dark Substance Of Dharma

#PER CHI AMA: Black Doom Esoterico
La Solitude Productions compie 10 anni e dagli esordi accompagna la mia maturazione musicale in ambito black/death/doom. Sono centinaia i dischi che abbiamo recensito qui nel Pozzo dei Dannati provenienti dalla label russa, band che ho visto passare e sbocciare, altre che dopo un solo disco si sono perse. Una band però mi è rimasta particolarmente nel cuore, forse perchè l'ho vista nascere e crescere lavoro dopo lavoro, sto parlando dei Raventale, da sempre guidati dal solo Astaroth Merc, che con questo 'Dark Substance Of Dharma', giunge al traguardo del settimo cd. Da parte mia nel corso di questi anni, ho cercato di fare la cronaca più o meno puntuale dei suoi lavori ufficiali o dei suoi side project. Eccomi quindi al cospetto del nuovo disco, che include sette nuovi brani e che vedono il mastermind di Kiev abbracciare forse una nuova religione (credo sia la dea Calì quella nella cover cd), incorniciata questa volta dal colore arancione. Faccio questa constatazione anche sulla base di quanto riportato nel titolo del lp, "Dharma", un termine sanscrito che presso le religioni dell'Asia meridionale riveste numerosi significati ("dovere", "legge", "ordine cosmico" oppure più semplicemente "religione"). Questa nuova direzione si riflette anche nei contenuti del disco che, muovendosi sempre nei territori del black doom, concede più spazio alla componente atmosferica, come certificato da "Destroying The Seeds Of Karma", che segue la classica intro. Il pezzo è un ottimo mid-tempo dove trovano collocazione evocative derive etniche e chorus che sembrano arrivare direttamente da qualche tempio tibetano. Suggestivi non c'è che dire, anche quando il ritmo si fionda su velocità più sostenute come nella title track, ma sono solo brevi attimi perchè poi l'intensità dei bpm rallenta per far posto a sognanti ambientazioni, ove sarà la vostra fantasia a guidarvi, se sugli impervi pendii dell'Himalaya, lungo le rive del Gange o semplicemente sotto un albero a meditare. Io ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato condurre dalle tastiere ispirate di Astaroth, mentre la sua voce abrasiva come sempre, narra appunto delle religioni orientali. Non fatevi però ingannare dalle mie parole, non siamo al cospetto di un lavoro di musica spirituale, stile Buddha Bar o quelle nenie che accompagnano l'arte dello yoga, qui avrete a che fare con black metal, però intriso di melodia, parti solenni e sognanti, ma anche di brevi ed epiche cavalcate ("Kali's Hunger" e "I Am the Black Tara"), fino a giungere alla perla finale di “Last Moon Fermata”, un pezzo aperto da un suadente pianoforte che vi permetterà di raggiungere il vostro karma, una song dotata di un refrain che guarda a sonorità gotiche. 'Dark Substance Of Dharma' è il nuovo passo di Astaroth Merc verso la rinascita della sua anima e l'espiazione delle colpe. Io, un ascolto attento lo darei. (Francesco Scarci)

Abaton - We are Certainly not Made of Flesh

#PER CHI AMA: Sludge/Postcore, Fyrnask, Neurosis, Altar of Plagues
Sono certamente toni tetri e minacciosi quelli che si celano nel secondo capitolo della discografia dei forlivesi Abaton, 'We are Certainly not Made of Flesh'. Dopo quattro anni (fatto salvo uno split con i Viscera///), il quintetto romagnolo rompe il silenzio con un lavoro sporco, intriso di rabbia e avvolto da una coltre di caligine che induce il soffocamento. Il nuovo album è una brutta bestia d'affrontare, uno di quei serpenti costrittori che ti avvolge tra le sue spire, stringe e stringe fino a che non sopraggiunge la morte per asfissia. Il suono dei nostri fa altrettando con una rarefazione a livello sonoro che non lascia scampo. Nove pezzi, anche piuttosto brevi visto il genere, devoto al doom sludge più cupo, ma in cui ovviamente non si disdegnano fughe in territori più estremi. "[I]" apre le danze con il suo fangoso mood, fatto di una sezione ritmica in cui si riconoscono chiaramente le sue chitarre morbose e un basso ipnotico che guidano la proposta dei nostri in una direzione che richiama, in certe disarmoniche linee di chitarra, anche Deathspell Omega. Sebbene la traccia duri poco meno di quattro minuti, la sensazione è quella di essere sprofondati per una eternità negli abissi desolanti dell'inferno. "Ananta" è miele per le mie orecchie, per cui quella sensazione di annaspare nell'acqua svanisce quasi del tutto: la song ha un cupissimo flavour sinistro che mette i brividi, è lenta, atmosferica, delicata, ma si capisce che presto accadrà qualcosa, deve, per forza. La voce di Silvio viene fuori, graffiante come sempre, vetriolo urticante che si amalgama alla perfezione con il sostrato musicale che soggiace nelle tenebre. Malsani e suggestivi, non c'è altro da dire e lasciarsi trasportare dal flusso che conduce a "[II]", un altro brevissimo pezzo (meno di tre minuti), in cui un drumming marziale e chitarre roboanti, coesistono alla grande in un frammento di follia omicida. Un breve intermezzo e poi l'acredine di matrice post black (Deafheaven, Fyrnask e Altar of Plagues, giusto per citarne alcuni) incendia l'aria con una serratissima ritmica che farà ben presto posto ad anfratti insalubri di suoni ondivaghi lenti e austeri, il cui unico fine è partorire ansie primordiali. E gli Abaton ci riescono alla grande. Ancora mistero con lo pseudo noise di "Flesh", a cui seguono gli interminabili minuti di "[IV]" ove compare alla voce in qualità di guest (presente anche in "Nadi"), Sean Worrel dei Nero di Marte. La preparazione è formidabile, la band ci cucina a puntino con una serie di suoni destrutturati, pregni di angoscia e alienazione sonica. È drone, doom, sludge, funeral, noise, post-core, ambient, black, psichedelia, crust, hardcore? Non mi è dato saperlo e francamente me ne frego in questo caso di etichette, lasciandomi intrappolare nel delirio perpetrato da questi stralunati ragazzi che a scuola hanno studiato Neurosis, Cult of Luna e Locrian. Delle inquietanti atmosfere si addensano anche nelle conclusive "Eco" e "[V]", altri due episodi di somma catarsi che segnano l'eleganza e la grandezza degli Abaton. Tanta roba, complimenti! (Francesco Scarci)

(Drown Within Records/Unquiet Rec/Martire - 2015)
Voto: 85

https://abaton.bandcamp.com/album/we-are-certainly-not-made-of-flesh

sabato 6 febbraio 2016

Fitzcataldo & The Trivettes - S/t

#PER CHI AMA: Post/Dream Rock
Non sono un fan del genere pop rock lo sapete: dopo aver scritto oltre 800 recensioni in ambito estremo però sono arrivato a confrontarmi con sonorità che pensavo di non dover mai abbracciare. Colpa (o merito) di un concerto del venerdi sera, ove mi sono imbattuto in questo interessante trio lombardo, dal moniker assai peculiare, Fitzcataldo & The Trivettes appunto. Questo è il titolo anche del loro debut album autoprodotto, e uscito negli ultimi mesi del 2014. L'album include dieci song che si muovono tra il post rock dell'opener "Bees" al punk passando per il brit rock, fino alla conclusiva "Salem". È proprio la opening track a catalizzare la mia attenzione per il suo mellifluo sound che strizza l'occhiolino a Editors e Dredg, sia a livello vocale che musicale. La band si lascia piacevolmente ascoltare in quello scorrere lineare delle sue chitarre, senza ricercare nulla di particolare, nessuna invenzione o estro, semplicemente rimanendo se stessi e lasciando che siano gli strumenti a guidare il tutto. "Gaialavita" mostra invece un mood tipicamente punk, grazie a quel suo riffing british e quel suo andamento di matrice Sex Pistols. In "Gagliardo", il power trio composto da Lorenzo, Stefano e Claudio prova ad emulare i maestri Coldplay e Muse e il risultato non è affatto male, però troppo commerciale per il sottoscritto. Mi muovo allora alla successiva "Velvet Smooth" ed è ancora il sound intimista degli Editors a venire a galla con un ritmo compassato che fa breccia solo quando le chitarre si aprono e si lanciano in uno splendido e arioso bridge. L'ordinato e fluido lavoro alla batteria di Claudio Rei ci introduce a "Tulips on the Jubilee Street", song votata ad un post rock notturno e psichedelico. "Tracey" è una bella traccia dal sapore dark che ha evocato in me un qualcosa dei The Cure, anche se la calda voce di Lorenzo Galbiati prende decisamente le distanze da quella di Robert Smith. In "Aurora Soul" ecco in sottofondo l'angelica voce di una fanciulla a delineare i tratti sognanti di questa song, mentre in "Mournign Doze" ancora forte è il richiamo agli Editors, con la performance di Lorenzo sempre più vicina a quella di Tom Smith, frontman della band inglese e un finale in un climax ascendente da brividi. In "Little Tony", convergono punk, brit pop e rock nella song più ruvida del disco. A chiudere, ecco "Salem" e 10 minuti di sonorità che sembrano allontanarsi dalle precedenti nove song, quasi a voler delineare il nuovo percorso che il terzetto andrà a percorrere in futuro. Da applausi qui il pulsare ansimante del basso di Stefano Redaelli, vero protagonista in questa traccia aggressiva (anche a livello vocale), ma anche più orientata ad un post rock dilatato (e forse anche metal) degno dei Mogway. Fitzcataldo & The Trivettes, bella scoperta davvero! (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

https://fitzcataldo.bandcamp.com/

Doomina - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock
Sta davvero diventando difficile scrivere di questo tipo di dischi. Quali e quante altre parole potrei trovare per descrivere un disco di post rock strumentale, ben suonato e discretamente avvincente senza essere davvero memorabile, che non suonino già sentite un milione di volte? Forse nessuna, e la recensione potrebbe chiudersi qui, forse peró il punto non è questo. Esattamente cosí come il punto, per i Doomina, non è quello di suonare musica che sia per forza originale e mai sentita, quanto piuttosto di farlo nel miglior modo possibile, con perizia e passione, e confezionare un lavoro che sia quanto di meglio nelle loro possibilità. E questo è, difatti, l’album eponimo di questa band austriaca, sulle scene dal 2006. Il disco è disponibile in digitale o in vinile, dove di sicuro si potrà godere appieno della bella immagine di copertina e di una perfetta resa del suono caldo e avvolgente di queste 5 tracce la cui durata media, come prevedibile, si attesta sui 10 minuti. Il meglio arriva alla fine, quasi a voler premiare l’ascoltatore: i poco più di 10 minuti di “Prince of Whales”, densi di crescendo chitarristici e accelerazioni improvvise, sono quelli piú a fuoco dell’intero lavoro e quelli in cui meglio emergono le qualità della band nel costruire brani epici, potenti e, vivaddio, emozionanti. Per quanto il senso di già sentito sia sempre difficile da scacciare, qui i Doomina colgono nel segno. Non sempre si puó dire lo stesso del resto del programma in scaletta. L’opener “Keira” ha il merito di farci entrare bene nel mood del disco, con un andamento classico arpeggio-distorsione-arpeggio piú rarefatto distorsione-accelerazione che non stupisce ma piace per il gusto e la misura. Allo stesso modo anche le successive “Kepler 10b” e “Pangea” si lasciano ascoltare e apprezzare per la piacevolezza, pur senza davvero mai emozionare. Se potete immaginare il concetto di post-metal da sottofondo, questo secondo me ci si avvicinerebbe molto. “Behold... The Fjørd!”, la traccia piú lunga, cattura l’attenzione per mezzo dei suoi oltre 11 minuti di crescendo ondivaghi e poderosi, il primo dei quali culminante in una frase spiccatamente melodica che, ma forse sono le mie orecchie malandate, a me ha ricordato addirittura “Bed of Roses” dei Bon Jovi. In definitiva, un disco senz’altro ben fatto, suonato e registrato molto bene, che gioca bene le sue carte e si propone, per gli appassionati del genere, come ottima alternativa ai soliti nomi. Se amate il post rock strumentale, probabilmente lo amerete. (Mauro Catena)

(Noise Appeal - 2015)
Voto: 70

https://doomina.bandcamp.com/

Enisum - Arpitanian Lands

#PER CHI AMA: Shoegaze/Black Atmosferico
Poco meno di un anno fa, il Pozzo dei Dannati descriveva il terzo lavoro dei piemontesi Enisum, 'Samoht Nara', come un miscela di cascadian black e shoegaze. A distanza di 11 mesi, spetta a me raccontarvi di 'Arpitanian Lands', quarta fatica del trio della Val di Susa. L'ingresso nella lunga title track strizza l'occhio agli Alcest e immediatamente conferma quanto descritto dal mio collega nella precedente recensione. Una voce di donna, Epheliin, apre infatti questo brillante disco con i suoi eterei vocalizzi posti su di un arpeggio dal forte sapore folk. Inizia qui il racconto delle terre dell'Arpitania, che abbracciano territori di Italia, Francia e Svizzera, tributandone l'amore della band. La musica di Lys e soci ci accompagna lungo questo viaggio di scoperta, deliziandoci con il loro peculiare black dotato di passaggi atmosferici e frangenti di oscura magia, che hanno il ruolo di esaltare un suono già di per sè assai convincente. "Alpine Peaks" offre la visione estrema delle Alpi che dominano un paesaggio per certi versi estremo, conducendoci per mano sulla cima di quel gigante, creando quel senso di vertigine da far tremare le gambe. Poi alzi lo sguardo, ammiri l'orizzonte, l'apice delle montagne, respiri lentamente e a pieni polmoni con il cuore che rallenta i suoi battiti, e finalmente assapori la bellezza dello scenario che si dipana di fronte agli occhi. La canzone si muove contestualmente, tra arrembanti cavalcate black e frangenti più rallentati che ci danno modo di guardarci attorno e godere. Ma è con "Chiusella's Waters" che i nostri riescono finalmente a fare breccia nella mia anima e inebriarmi con le loro ataviche melodie che narrano del torrente omonimo che scorre in quelle terre e il cui fragore è richiamato da una certa effettistica inserita nel brano, che si muove tra epiche cavalcate e il dischiudersi di splendide melodie. "Mountain's Spirit" si fa notare per la profondità del drumming e comunque, come per le precedenti song, si muove nell'alternanza tra sciabolate black (con tanto di blast beat) e rallentamenti mid-tempo. Le frustrate estreme continuano ancor più violente nella successiva "Rociamlon" (in dialetto piemontese indica il Rocciamelone che è una montagna delle Alpi Graie), anche se qui, le brusche frenate perpetrate dalla band, rischiano quasi di sconfinare nel doom. La voce al vetriolo di Lys si conferma poi come una delle migliori del panorama estremo italico. Un altro arpeggio ed è il momento di "Fauna's Souls", una song permeata di una malinconica aura ancestrale che s'incontra e compenetra con l'irruenza del black degli Enisum, soprattutto a livello del folkloristico break centrale. "The Place Where You Died" include altri otto minuti di estremismi mid-tempo, decadenti melodie inneggiate dallo screaming lacerante di Lys, in una traccia che reputo la più matura e varia del cd. La riflessiva "Desperate Souls" e infine l'incalzante "Sunsets on My Path" (ove i gorgheggi di Epheliin tornano a palesarsi) completano un disco che conferma l'equilibrata evoluzione abbracciata dagli Enisum e paventano la possibilità di aprire a nuovi paesaggi compositivi. (Francesco Scarci)

Lambs - Betrayed From Birth

#PER CHI AMA: Sludge/Post Black, Converge
Una manciata di minuti (13 per l'esattezza) bastano ai romagnoli Lambs, uno degli ultimi acquisti in casa Drown Within Records, per dimostrare di che pasta sono fatti. Tre pezzi, "Fear is Your Key", "You Will Follow Me Down" e "And Your Time Will Be Collapsed", per mostrare la bontà di una proposta che racchiude in sè un suono che combina il post hardcore moderno, quello decadente e malinconico, con le oscure tenebre del post black alla Altar of Plagues. Il cd irrompe con un riffing che sembra quasi di "katatonica" memoria (era 'Brave Murder Day'), che lascia subito spazio ad un approccio più votato a psichedelia e crust punk, contrappuntato da ritmiche serrate che sconfinano nel post black e a sperimentalismi di natura francese (Blut Aus Nord e Deathspell Omega), con uno screaming efferato a condire il tutto. Non mancheranno anche vertiginosi rallentamenti al limite del doom a rendere il contesto ancor più accattivante. La seconda traccia ha un mood punkeggiante, lanciandoci a razzo con una bella cavalcata selvaggia, interrotta da un muro su cui forte è il rischio di sfracellarsi. Rallentamenti in stile Converge infatti, sono in grado di garantire alla song un interessante effetto onda, tra frustate hardcore e melmose decelerazioni sludge. Il ritmo infernale viene mantenuto anche nel terzo brano, in cui l'andatura si fa ancor più schizofrenica e in cui probabilmente, la band palesa anche la maggior maturità compositiva, e una certa abilità nel muoversi sia in territori tirati che in quelli più ragionati, cervellotici e anche intimistici, in cui la componente melodica si fa maggiormente apprezzare. 'Betrayed From Birth" è di sicuro un buon biglietto da visita, ora mi piacerebbe gustarmi un prodotto più organico e strutturato che segua questo trend. (Francesco Scarci)

giovedì 4 febbraio 2016

Slowrun - Resonance

#PER CHI AMA: Rock atmosferico/Ambient
Se avete paura di sostare nel purgatorio delle anime, deviate il vostro ascolto a musiche più convenzionali e scontate. Diversamente, rimanete con me armando le vostre mani. L’una, d’una fiaccola accesa di fuoco e di benzina. L’altra, di speranze malinconiche e rabbiose che attendono quel gancio alla vita che ha il sapore del sangue già versato e pronto ad essere ancora messo in gioco. Benvenuti nel deserto di velluto degli Slowrun. Faremo diversamente stasera. Io per ogni traccia, anziché dire, chiederò, e voi ascoltando, replicherete a voi stessi, certo, non a me. Giochiamo. I dadi li metto a giro. La posta è alta solo se giocherete al mio gioco. Il nostro casinò lo inaugura “Ascent”. La traccia non è musica, ma stridere strumentale ferroso di maglie dissonanti e troppo vicine, rugginose e stanche. Perché non assecondate i suoni, il silenzio, la malinconia perdendo senso e sapore del giorno? Cosa cerchi? Cosa vuoi? O forse cosa vorresti che non hai il coraggio di chiedere? Ecco “Blinding Light”: la song dei quattro finlandesi ha l’arroganza pudica che tu non avresti. È deciso, è stellato nelle punte callose della chitarra, è immaginoso e concreto. Da e toglie. Toglie e da. Poi termina con un riff che trasla in un altro giro sgranato di corde. Ecco un’altra domanda. Cosa vuoi essere? Non c’era nulla prima. C’era una soffitta polverosa. Eri solo. Poi. Hai alzato il volume. Vita ed incanto. Rabbia e pace. “Remember”. Ascoltate. Come se non ci fosse stato il tempo. Questa “Fragments” accarezza gli estimatori d’anime nel vento. Scioglie i pensieri di chi sa scordare la propria anima alla fine del giorno. Come vi fa vibrare questa traccia? E ora “Introspection”. Si ripete la ritmica. La song cerca l’ipnosi dei sensi. Accarezza per accarezzarsi. È culla al cullarsi. E voi? Quando è stato l’ultima volta che avete cullato un pensiero? Torno. State comodi. Torno al vostro antro ambient maliconico ed oscuro. Ai chiaroscuri dell’anima, al sorseggiare vino rosso da calici medievali. Si. Torno con “First Hour”. Per questo pezzo ho solo una domanda : “cosa provate la notte svegliandovi avvolti da buio e silenzio ed ombre?” Siamo alla settima traccia. “The Way”. Il titolo della song è curativo. Scevro da domande. Impossibile alla gogna. Lasciatemi dire che il chiedere non è che il dire. Lasciatemi dire che la musica è parole anche se strumentale. Lasciatemi dire che l’ispirazione provata è proporzionale alla qualità dell’ascolto, così vi invito nella grotta degli Slowrun. Vi perdere, ma solo se vorrete. Tra domande e torce avrete le vostre risposte. Buon ascolto. (Silvia Comencini)

(Dunk! Records - 2015)
Voto: 75

Sailing to Nowhere - To the Unknown

#PER CHI AMA: Power/Hard Rock
Un marinaresco monologo di violino accompagna il corso di un veliero nell'infinità dell'oceano. Le placide onde marine cominciano ad infrangersi con crescente intensità sullo scafo: sarà una notte burrascosa. Con la tempesta sopraggiungono anche i pirateschi riff di Andrea Lanzillo, chitarrista e songwriter dell gruppo, che ci introducono nel brano opener “No Dreams in My Night”. Questi 7 minuti di “notte senza sogni”, mettono subito in mostra qualità e peculiarità dei romani Sailing To Nowhere: l'aggressività conferita dall'ottimo lavoro di Lanzillo alla sei-corde e dalle cavalcate in doppia cassa di Giovanni Noè, arriva sempre a sfociare in chorus fortemente melodici, anche se spesso questi energici sprazzi di potenza vengono fin troppo sovrastati. L'impianto melodico della band rappresenta infatti (da buoni italiani), la sua caratteristica dominante, con le linee vocali di Veronica Bultrini e Marco Palazzi (rigorosamente in pulito) e cori quasi epici che rimangono fissi in testa all'ascoltatore fino alla fine dell'album. Brano che incarna alla perfezione tutto ciò è sicuramente la seconda traccia, "Big Fire", che possiede senza dubbio i chorus più orecchiabili del disco, insieme alla semi-ballad "Lovers On Planet Earth", sempre sostenuti da un sound azzeccato che riesce a metterli in risalto nella giusta misura. Molto pregevoli anche le parti di tastiere: suoni semplici ma assai azzeccati e, soprattutto, gli viene conferito il giusto spazio: non vengono limitate solamente ad “accompagnamento”, ma in diverse occasioni si fanno largo nel sound ed emergono con dei buoni passaggi strumentali (vedi per esempio nell'opener track). Questo senza comunque mai esagerare e sfociare nella monotonia, come spesso accade in questo genere, per quegli onnipresenti tappeti di archi, che, se eccessivi, portano alla noia e di conseguenza non vengono valorizzati. Fila spedita invece (dopo che le atmosfere si erano smorzate con la più lenta "Strange Dimension"), l'omonima traccia "Sailing to Nowhere", la quale sembra rappresentare lo spirito dei sei navigatori, compagni in questo viaggio senza meta, che incontra riff potenti e un drumming incalzante dall'inizio alla fine. Come ultima song, troviamo inaspettatamente una cover di una canzone pop, ovvero “Left Outside Alone” di Anastacia, riarrangiata però in chiave metal, o meglio, in chiave Sailing To Nowhere. Come da loro stessi affermato infatti, seppure si tratti di un brano che non c'entra con l'album, fa parte in qualche modo della storia del gruppo, dato che era un brano che veniva da loro utilizzato come riscaldamento in sala prove. Si conclude dunque in questo modo il primo full-length dei Sailing To Nowhere, gruppo che negli ultimi tempi sta riscuotendo un discreto successo all'interno del panorama metal italiano, grazie soprattutto alla release di questo lavoro. I “navigatori” della capitale si sono presentati al pubblico con il loro suono melodico, non sempre apprezzato dai puristi del metallo, ma che comunque rappresenta una diffusa branchia del genere. In ogni caso l'album è ben realizzato, si percepisce che è frutto di un lavoro che ha richiesto lungo tempo e grande collaborazione fra tutti i componenti (ed anche di un'ottima produzione). La prima prova per l'ensemble romano ha mostrato di che pasta sono fatti, ma aspettiamo nuove notizie dall'oceano, per osservare come evolverà il percorso stilistico di questi marinai! (Emanuele "Norum" Marchesoni)

(Bakerteam Records - 2015)
Voto: 75