Cerca nel blog

mercoledì 25 settembre 2013

RuinThrone - Urban Ubris

#PER CHI AMA: Power Metal
Dal cilindro del dio del power-progressive-epic-fantasy-cyberpunk-superspadaaduemaniefucilelaser e chi più ne ha più ne metta, sbucano questi italianissimi (romani) Ruinthrone, al loro debutto con il loro primo full-lenght intitolato "Urban Ubris". Velocità, giusto groove, generosi assoli e tante belle mitragliate di chitarra praticamente in ogni pezzo, batteria precisa, tappeto sonoro di tastiera equilibrato e mai stucchevole (a ritagliarsi giusti spazi nell’opening di alcuni pezzi, per esempio), con tanto di ballata finale in stile “bardi moderni”. Fin qui note positive insomma. Va però detto anche quello che, alle orecchie di chi ascolta, risulta meno gradevole ed in particolare è la voce a non rendere al meglio nell’insieme, dando prova di adattarsi adeguatamente e risultando più espressiva nelle parti pulite, ma con un netto calo di resa laddove emerge la voglia di sporcarsi: nelle influenze della band troviamo, tra i vari, Blind Guardian e Symphony X e, non me ne voglia il volenteroso cantante, ma c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di destreggiarsi con assoluta noncuranza tra clean e harsh vocals. Nel complesso il disco scorre via abbastanza velocemente, senza grossi cali di tensione, ma senza far gridare al miracolo e questo, a parere di di scrive, è da attribuirsi soltanto alla scelta del genere proposto, già da parecchio tempo densamente popolato e quindi saturo di soluzioni prese, girate e rigirate in tutte le salse. Tra i pezzi del platter segnalo solamente "Another Cry" e "Chiral Twin", i cui refrain risultano di facile presa già dal primo ascolto. Nel complesso il disco è più che sufficiente, anche se piacerebbe sentire in futuro un cambio di direzione da parte di una band senz’altro di talento, magari verso lidi più personali e abbandonando la terra trita e ritrita del power metal. (Filippo Zanotti)

(Buil2kill Records - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RuinThrone

Sleepers Awake – Transcension

#PER CHI AMA: Prog rock, Prog metal, Tool, Pain of Salvation, Bush
Secondo album autoprodotto datato 2013, per questa band americana proveniente da Cleveland. Gran bella prova, un sound senza dubbio debitore del grunge e con impasti metal progressivi melodici sulla scia di Queensryche, qualcosa dei Megadeth e ritmiche contorte in stile Tool, con un sound molto più caldo che va a ripescare trame neo prog a la Dream Theater. La timbrica del cantante e chitarrista Chris Thompson si snoda tra l'oscura intensità vocale di M. J. Keenan e la sensualità di Gavin Rossdale dei Bush e raramente si stacca da queste due icone, marchiando a fuoco lo stile della band che mostra ottime idee e talento, anche se forse manca ancora quel pizzico di originalità che li renderebbe unici. Un po' forzati risultano i growls ad affiancare il cantato, giusto per dare un tocco più metallico al tutto, comunque, nonostante questo, Mr. Thompson rimane una conferma sia come vocalist che come chitarrista. I dodici brani sono sofisticati e complessi, quasi tutti molto lunghi, frastagliati, con cambi continui di tempo e miriadi di riff che si rincorrono continuamente e che proiettano l'ascoltatore in un universo ambizioso e multidirezionale, carico di certosina perizia sonora ed altrettanta cura estetica del suono. L'album è impegnativo e molto lungo, ha il sapore di un vero e proprio concept e rincorre le vie di "Undertow" dei Tool prendendoperò nettamente le distanze dal suono freddo ed estatico della band di Keenan, ampliandone le influenze, caricando sulla componente progressiva ed il virtuosismo dei singoli musicisti. Il sound è brillante e di moderna generazione, nessuna traccia di vintage prog anni '70, anzi continuamente la band cerca di proiettarsi nel futuro sonoro di realtà esplosive come i Pain of Salvation di cui condividono l'attitudine molto rock trafitta da tanta calda e ricercata energica melodia. "Transcension" è un album ben fatto e pensato ad arte, un disco che nasconde in sé una composizione musicale nettamente al di sopra della media, un'ottima dimestichezza con gli strumenti, una grande passione, una visione introspettiva della musica e un'intensità cara ai pezzi migliori ed indimenticabili del grunge (ricordate la tensione di brani come "Machinehead" dei primi Bush?). (Bob Stoner)

martedì 24 settembre 2013

Who Dies In Siberian Slush - We Have Been Dead Since Long Ago...


#PER CHI AMA: Funeral Doom, Pantheist, Thergothon
Un nome, una garanzia. Una delle band più rappresentative della russa Solitude Productions, i Who Dies In Siberian Slush, tornano con "We Have Been Dead Since Long Ago..." un'altra opera di sofferenza e depressione, dopo il degno debut "Bitterness of the Years That Are Lost". Il suono si è evoluto, o per meglio dire, è morto nella fanghiglia siberiana dopo una quotidiana dose di vodka e droghe tagliate con il detersivo. La opener "The Day of Marvin Heemeyer" è la traccia più coinvolgente del disco, probabilmente grazie ai suoi tempi veloci e ai suoi riff oscuri, poco apprezzabile invece il flanger che incontro un paio di volte durante l'ascolto, perchè troppo invasivo, dato che non inficia solamente uno strumento, ma l'intera traccia. La parte centrale del disco rappresenta l'essenza del combo russo: troviamo tristi melodie, uptempi death metal, un diffuso minimalismo sonoro costantemente in chiave minore che esprime tutta la sofferenza del freddo boreale che ragginge il suo apice con "Funeral March N°14", composizione a dir poco estenuante che ci prepara per la chiusura di "Of Immortality", la traccia più completa del disco che equilibra tutti i particolari della band e che chiude perfettamente l'opera. In sostanza, un lavoro decisamente superiore alla media che grazie alle sue opprimenti sonorità trasmette tutto il male di vivere di questi giovani russi. Purtroppo c'è ancora qualche passo falso che compromette le potenzialità di questo lavoro per cui spero vivamente che la prossima volta i nostri riescano a confezionare un prodotto definitivo. (Kent)

Appollonia – Crimson Shades

#PER CHI AMA: Post metal Alternative, Kylesa, Neurosis, Iota
"Crimson Shades" è il terzo album autoprodotto dei francesi Apollonia. La band di Bordeaux ci porta con la sua musica in un universo pieno di costellazioni oscure da esplorare e scoprire poco a poco. Con ripetuti ascolti e massima concentrazione ci avviciniamo a questo lavoro così intrigante e tanto variegato. La prima costatazione è la preparazione tecnica della band transalpina che suona veramente bene, la seconda è che la composizione dei brani è fantasiosa ed equilibrata, frutto di numerosi ascolti che affondano nel metal alternativo e nella psichedelia pesante e non, una buona dose di Kylesa e tanto buon gusto. La parola metal restringe troppo il campo d'azione della band per poterla considerare tale; qui troviamo molto di più, dalle influenze progressive metal alla Mastodon, certa avanguardia black alla Ihsahn, l'alternative metal di Iota, una certa irriverenza alla Black Tusk e l'immancabile catastrofismo alla Neurosis. Le voci dei tre musicisti si muovono sinuose e riescono a svolgere un lavoro eccezionale nel sostenere i brani spostandosi da potenti cantati di memoria post-core ad intensi e delicati momenti di vellutato canto con richiami paisley underground di metà anni '80 che ricorda per certi aspetti i mitici Dream Syndicate rivisti e corretti seguendo sempre e comunque le coordinate della band. E così, brani come "Of Stillness and Space" o "Muninn" si vestono di caldo retro gusto psycho blues dividendo la scena con il rude approccio del post-core/metalcore in tinta progressiva. La voglia di stupire in questo album si sente, la fantasia e la passione per il rock psichedelico e il metal sperimentale si fondono alla perfezione e in "Sol" vediamo la band toccare vette di rock acustico immerso nel soul a dir poco eccelse, trafitte quando meno te lo aspetti da un'ondata lavica di metallo pesantissimo, un sound cupo e dall'aspetto atipico, un'atmosfera intellettuale, un lavoro complesso e di non immediata presa sull'ascoltatore. Nonostante ciò, l'album è un colosso sonoro di ottima fattura, dai suoni ben curati e ricercati , dall'impatto deciso e mastodontico. Così dopo i Sofy Major e i Taste the Void, dalla Francia arrivano gli Appollonia a confermare l'ottimo stato di salute dell'alternative metal transalpino. Da ascoltare attentamente. (Bob Stoner)

lunedì 23 settembre 2013

Mekigah - The Necessary Evil

#PER CHI AMA: Death Doom Atmosferico
È ancora l'enigmatico sottobosco australiano a regalarmi splendide gemme di metallo emozionale. Fucina di straordinari talenti (Ne Obliviscaris, Aquilus, Circle, tanto per citarne solo alcuni), il lontano paese oceanico mi regala la gioia dell'ascolto di questo “The Necessary Evil” degli eterei Mekigah. Splendido l'approccio darkeggiante del duo di Melbourne che con le melodie soffuse di “Burning My Wings on Your Radiance” mi conquista in una manciata di secondi. Atmosfere sinistre (vero trademark della band) mi seducono immediatamente per il loro languido avanzare, con la calda voce gotica dei due vocalist, Vis Ortis e Kryptus, nonché per il climax ascendente che fin da subito i due mastermind vanno a creare, con le vorticose chitarre che si dipanano in un affascinante crescendo di melodie e tensione. Un lungo assolo, un brivido che percorre la mia schiena, trepidanti sensazioni mi schiacciano sulla poltrona. Non so se si tratti di un intro o se realmente questa sia la musica proposta dai nostri. Chiudo gli occhi e mi immergo nell'ascolto della title track. Un urlo lontano, apparentemente malvagio, aleggia sul tappeto di tastiere, vera struttura portante del brano. I ritmi sono assopiti in un riverbero dilatato di suoni sognanti, una nenia ideale a cullarmi e farmi cadere tra le braccia di Morfeo. Ma fate attenzione perché il rischio è quello di ritrovarsi invece tra le braccia del diavolo. Ecco infatti sopraggiungere malefiche vocals che per un solo minuto mi ridestano dal sogno. Con “Bloodlust”, l'ensemble inizia a pestare sull'acceleratore spingendo la propria proposta verso lidi più black oriented anche se basta poco per ritornare sui binari, costruite però su tetre ambientazioni horror: addio alle visioni eteree dei miei sogni e spazio all'incubo, quello che attanaglia la gola, crea tensione e angoscia. Il sound dei Mekigah si rivela una macchina infernale: nebuloso (si ascolti “The Scythian Revolution”), litanico e teatrale nella sua esecuzione vocale (poco spazio viene lasciato anche allo screaming). “Galkadjama” è una lenta discesa agli inferi, mentre “Touching a Ghost” un pezzo di etereo gothic doom, un ibrido tra atmosfere alla Dead Can Dance miscelato alla disperazione dei My Dying Bride. Eccellente, non c'è che dire e i successivi pezzi ne sono la riprova: “Crossing Over...” è un pezzo black doom dall'aura mefitica, “In the City of the Blind” un intermezzo noise che ci porta all'ascolto de “Le Roi Est Mort” una vera e propria marcia funebre che richiama gli ultimi Ulver. A chiudere questo maestoso album, il cui feeling arriva a scomodare addirittura i Type'o Negative, ci pensa la strumentale “From the Grave to the Cradle”, le cui sinuose chitarre citano come influenza, i Paradise Lost. Insomma “The Necessary Evil” è un gran bel lavoro a cui siete pregati caldamente di dare una chance, una grossa chance. (Francesco Scarci)

(Self - 2012)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Mekigah

Galaktik Cancer Squad - Ghost Light

#PER CHI AMA: Black atmosferico
La Hypnotic Dirge Records è un fiume in piena che prosegue la sua opera di reclutamento di semi-sconosciute band di talento per farle conoscere ad un pubblico più ampio. È il caso dei teutonici Galaktik Cancer Squad, one man band che sinceramente ignoravo fosse già giunta alla loro quarta release e che ho appunto scoperto grazie all'etichetta canadese. L'act germanico è dedito a un black ferale dalle vaghe tinte progressive, che già dalla prima track, mette in mostra un potenziale di fuoco pauroso. “Ethanol Nebula” è una song contraddistinta da lunghe tempestose sfuriate di colante metallo nero su cui gravano le mortifere vocals del factotum Argwohn. I brani sono tutti molto lunghi e i nove minuti di “When the Void Whispers my Name” si articolano in un’intro affidata a una spettrale e ipnotica chitarra, che poi deflagra in una minacciosa cavalcata oscura. La selvaggia irruenza del black rappresenta il vero marchio di fabbrica del combo tedesco, anche se ovviamente il tutto è agghindato da partiture più ragionate, sprazzi melodici e break acustici che riescono a spezzare quello che rischierebbe di essere il vero limite dell'album, l'eccessiva velocità. Splendido a tal proposito il finale della seconda traccia, un notturno intermezzo acustico che ristabilisce quella quiete che era stata spazzata via dalla furia belluina iniziale. Le chitarre ronzanti in stile Burzum, aprono “In Lichterlosen Weiten”, lunga suite di dodici minuti, in cui accanto alla rabbia incessante, a tratti alienante, del mastermind teutonico, si affiancano momenti di rilassatezza che mi consentono di tirare il fiato, rilassarmi sulle note più suadenti della band e poterne apprezzare al meglio suoni e sfumature, altrimenti sbaragliate dall'arroganza strumentale dell'album. E cosi non posso far altro che lasciarmi trasportare dal mid-tempo del terzo brano che offre richiami dei primi Katatonia e di altre realtà dedite a sonorità più doom oriented; decisamente la mia song preferita, forse quella più matura e varia, in cui comunque dopo la quiete, a irrompere è nuovamente la tempesta. La title track sembra più sperimentale nelle sue ritmiche e suoni: maggior spazio viene lasciato alla componente strumentale e ad un approccio meno black e più death; altrettanto lo screaming, che si fa più oscuro. Bell'esperimento. “Hypnose” è un altro quarto d'ora di pura violenza primordiale (peccato per l'uso della drum machine), per di più interamente strumentale, che viene interrotta solo al minuto 8 da un break acustico. Insomma un po' dura da digerire. Messo al muro, non ho modo di parare i colpi inferti dai Galaktik Cancer Squad. Ko tecnico. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/GalaktikCancerSquad

venerdì 20 settembre 2013

Sasquatch - IV

#PER CHI AMA: Stoner, Post Grunge, primi Soundgarden
Della serie la prima impressione può essere quella sbagliata. In questo caso la copertina mi aveva un pò fuorviato, in stile steam punk/futuristico che mi faceva presagire una band dedita all'elettronica o alla psichedelia. La psichedelia c'è signori e signore, ma in stile anni '70, come pure il metal e il rock impastati alla vecchia maniera che alle mie orecchie suonano paurosamente stoner. I nostri figliuoli vengono dalla città degli angeli (Los Angeles), ma nel loro caso dire da quella dei demoni. Devo dire che dopo aver studiato per bene gruppetti come Black Sabbath e Soundgarden (quelli vecchi però), i nostri si sono chiusi in garage e ci hanno dato dentro dal 2001 ad oggi. Sabbia, lunghe strade bagnate dal torrido sole californiano, rappresentano l'ecosistema perfetto dove il mitico bigfoot (altro modo in cui viene chiamata la mitica creatura dei boschi) può vivere e proliferare. "The Message" è la prima track di questo "IV" che sarà in vendita dal 24 Settembre 2013, anche se Amazon ha combinato qualche cagata e lo ha reso già disponibile (!!!). Il brano mette subito tutti in riga, veloce quanto basta e graffiante da far tremare i muri. Ottime chitarre che ricreano quel sound del passato che non vuole affievolirsi, figuriamoci scomparire. La perfetta antitesi delle moderne distorsioni, il tutto in totale armonia melodica con la parte ritmica che è ricca di bassi a non finire. Lo stesso vocalist incarna il culto dei 70's e sfrutta al meglio il suo timbro per contrastare la parte strumentale che naviga tra gli hertz percepibili dall'orecchio umano. "Smoke Signal" è un pezzone che inizia in doom style, ma ha ben sette minuti e mezzo per evolversi richiamando chiaramente le sonorità del celebre "Superunknown" della band di Seattle. Comunque tutto ben fatto e sempre molto personale, questo per farci capire che se sei ben piazzato, ti puoi permettere di fare il verso ai grandi del genere. Chi riuscirebbe a mettere un semplice coretto a tre quarti di traccia e infilarci pure suoni noise-psichedelici senza sembrare un pazzo? Ovviamente i Sasquatch. Che lo compriate in digitale o in cd, questo "IV" merita un posto nella vostra armeria musicale. Almeno lo potrete usare come arma di difesa contro l'avanzata inarrestabile dei prodotti commerciali che non fanno altro che offendere le nostre povere orecchie. (Michele Montanari)

(Small Stone Records - 2013)
Voto: 85

http://www.sasquatchrock.us/

United Sons of Toil - When the Revolution Comes, Everything Will Be Beautiful

#PER CHI AMA: Post-hardcore, Fugazi, Shellac, Refused
La prima cosa da menzionare a proposito di questo disco e di questa band è che gli United Sons Of Toil non esistono più da circa un anno. La notizia buona è che i due terzi del gruppo fanno parte di un’altra formazione di cui abbiamo parlato da poco, ovvero i Tyranny is Tyranny. Quella cattiva è che gli USOT erano una gran band e questo loro ultimo lavoro, 2011, era un signor disco. Già, perché questo album dal titolo chilometrico (e anche piuttosto esplicativo dei contenuti, se non altro in termini di tematiche affrontate e su quale sia la parte della barricata frequentata dagli autori) è uno di quei dischi che non ci si stancherebbe mai di ascoltare, a patto di appartenere a quella categoria di persone per le quali il solo sentire nomi quali Dischord, AmRep e Touch & Go sortisca ogni volta l’effetto di un tuffo al cuore. Il suono di questo trio di Madison, Wisconsin, affonda infatti le proprie radici in quella terra fertile e meravigliosa che era il noise-rock sviluppatosi nel Midwest americano attorno alla metà degli anni '90 e di cui le etichette sopra citate sono state formidabili fertilizzanti e incubatrici allo stesso tempo. Quello che troverete in questo cd è un condensato i cui riferimenti sono ben identificabili e delimitabili andando dai Fugazi ai Tar, dai Refused agli Unwound fino agli Shellac, ma il modo in cui questi vengono trasferiti e impiegati nel linguaggio fa sì che si vada oltre l’omaggio e la citazione, permettendo agli USOT di apparire sempre, in ogni istante, sinceri, appassionati e serissimi. Quello della serietà è un altro punto da sottolineare: il lavoro è caratterizzato da una unità di tematiche e una visione che lo rendono quasi un concept album su una ipotetica, e nemmeno troppo velatamente auspicata, rivoluzione socialista. Il bello è che mancano del tutto le forzature e gli eccessi di seriosità che troppo spesso appesantiscono gli album tematici, togliendo loro spontaneità e freschezza. Ecco così che diventa difficile citare singoli pezzi, tanta e tale la qualità media, in un susseguirsi di trascinanti singalong, stop and go killer, coltri di feedback assordanti e ruvidezze assortite. Molto particolare anche l’accoppiata delle due voci, una più roca e profonda, l’altra più sottile, affilata e “screamo”. Difetti? Forse una maggiore varietà ritmica avrebbe reso il tutto davvero indimenticabile, difatti per la maggior parte ci troviamo di fronte a pezzi mid-tempo, ma è comunque un dettaglio. Massimo rispetto. (Mauro Catena)