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giovedì 2 giugno 2011

Worstenemy - Under Ashes of Wicked

#PER CHI AMA: Brutal Death, Avulsed, Cannibal Corpse
Non riesco proprio a capire se sono io in questo periodo ad avere l’orecchio troppo esigente o se siano realmente le band che affollano il panorama musicale ad avere ben poco da dire. Un peccato, perché chi passa tra le mie grinfie, non ha vita facile. Ma andiamo con ordine: i Worstenemy sono una band nostrana (di origini sarde ma residenza bolognese) che da una decina d'anni abbondante solca le scene e da quanto ho capito, continua in modo imperterrito e con una coerenza invidiabile (quasi degna di Cannibal Corpse o AC/DC) a proporre un death metal di efferata brutalità. L’EP di 6 pezzi che ho in mano attacca l’ascoltatore fin da subito con la sua irruente veemenza, tenendoci incollati allo stereo grazie al suono compatto che ne esce dalle casse. Le vocals, tra il growl e lo screaming vetriolico, vomitano tutta la rabbia del combo italico, mentre le asce si alternano tra sfuriate death e rallentamenti grooveggianti al limite del doom. Niente di che, nulla di entusiasmante giunge ahimè alle mie orecchie, solo un disco utile per la mia cervicale (per allenarmi con un po’ di sano headbanging) o per la classica pogata scaccia pensieri in compagnia degli amici. Fortunatamente qualche sprazzo interessante è avvisabile tra le note del quartetto sardo, quando i nostri si cimentano in oscure ambientazioni (sentire la parte centrale di “Nogoth”) degne dei migliori Avulsed o in sfuriate al limite della schizofrenia come nella successiva “Burning my Flesh”. Probabilmente la vera sfiga della band è quella di essere nata in Italia: se solo fossero cresciuti in Florida, qualche chance di sfondare l’avrebbero anche avuta nel corso di questi anni… L’importante è non perdersi d’animo (Francesco Scarci)

(Raptures Asylum Productions)
Voto: 60

Am Tuat - Inmotion

#PER CHI AMA: Death Doom
Dall’Olanda ecco arrivare un nuovo terzetto dedito ad un death doom assai ritmato che mi ha fatto ripensare alle vecchie glorie del passato della terra dei tulipani, Sad Whispering, Castle e Beyond Belief. Stiamo parlando di formazioni che offrivano il tipico sound rallentato, malinconico, corredato da vocioni brutali, qualche clean vocals e qua e là arieggi melodici, ma erano i primi anni ‘90. A distanza di quasi vent’anni, salgono alla ribalta gli Am Tuat che, prendendo spunto dalla tradizione fiamminga, rilasciano questo “Inmotion”, che probabilmente potrebbe fare la gioia di chi si ciba di dischi all’insegna della brutalità accompagnata da aperture melodiche, plumbee atmosfere invernali, inquietanti sussurri nel buio e drammatici arpeggi. Tanta carne al fuoco che potrebbe far ben sperare per il futuro, mentre per il presente, quello che abbiamo fra le mani, è ancora un prodotto abbastanza acerbo che poco, anzi nulla ha da dire a chi come me, ama questo genere di sonorità. Troppi, veramente troppi sono gli album che escono ogni giorno in questo ambito e molto elevata è la qualità delle band che affollano il mercato, soprattutto grazie alle band provenienti da Russia o Ucraina. E gli Am Tuat, per quanto si sforzino di trasmettere qualche apocalittica sensazione, passando attraverso atmosferiche ambientazioni e pachidermiche cavalcate, non hanno ancora quelle idee geniali o di classe capaci di permeare la loro musica, in quanto ancora intrappolati in sonorità death metal che appiattiscono il sound della band. Peccato, perché qualche sprazzo interessante ci sarebbe anche, troppo poco a dire il vero, per ritenere sufficiente questo album di debutto. Sarà sicuramente per la prossima volta… (Francesco Scarci)

(My Kingdom Music)
Voto: 55

Questo “Inmotion” mi ha dato da fare, nel bene e nel male. Gli olandesi “Am Tuat” muovono i primi passi nel 2003 e da lì incominciano a sviluppare la loro musica. Dopo due demo, nel 2009 danno alle stampe sopracitato album. Potrebbe essere catalogato nel genere “progressive death metal”, ma si percepiscono molte influenze musicali diverse. Ci trovo i “My Dying Bride” e qualche influenze thrash metal. La formazione attuale vede: Bauke Valstar (chitarra e voce), Nick Pel (chitarra), Arno Rensik (basso) e Sander Bosscher (batteria e voce). Al primo ascolto sono rimasto colpito da sensazioni contrastanti, quelli seguenti, a essere sincero, hanno originato lo stesso effetto. Si dice che l’importante sia colpire l’ascoltatore, creare in lui emozioni: in questo ci sono riusciti. Vi è mai capitato di percepire qualcosa come interessante ma, al tempo stesso, come gravemente sfregiata? Qualcosa che poteva essere notevole ma, rimasta incompiuta, ci offende in poco lo sguardo? Sì? Questo è quel che ho provato ed eccone le cause. Il growl utilizzato è ben oltre il mio limite di sopportazione, molto pesante, totalmente anonimo e appiattisce tutte le tracce. Queste perdono la loro singolarità e si confondono. Tutto ciò è accentuato da un’esecuzione che mi appare svogliata. Gli accordi, quando dovrebbero essere potenti, non lo sono quanto dovrebbero, le parti tirate appaiano troppo piatte quasi amorfe, persino troppo lente. Francamente li trovo più a loro agio nelle fasi più tranquille. Qui gli accordi risultano ben eseguiti, molto più melodici e le contaminazioni danno origine a un qualcosa di più rilassante ma più apprezzabile. Tra le track segnalo volentieri la strumentale “Ahead of Sadness”, che considero veramente piacevole (manca infatti il pernicioso growl). Vorrei spendere due parole sull’elefantiaca “A Cry... The Sound of a Tragedy”: 18 minuti! Ragazzi miei, io apprezzo l’impegno ma, insomma, si arriva alla fine annaspando. Non credo che tali fatiche siano nelle loro corde, almeno per ora. Le altre canzoni rimangono nell’anonimato del percepito ma subito rimosso. Nel complesso il lavoro risulta troppo annacquato: 66 minuti sono troppi, arrivarci in fondo è difficile. Vale il discorso fatto prima, per un avere un buon risultato con queste durate, occorre una certa maturità, che ancora non dimostrano di possedere. Da apprezzare il loro coraggio e la capacità compositiva non banale che si percepisce dal lavoro. Da piccolo la maestra diceva che, in certe cose, avevo le capacità ma non mi impegnavo a dovere. I miei allora si inviperivano da matti: “Se hai le doti usale!” (seguiva gragnuola di scopaccioni). Ecco lo stesso vale per questi olandesi. Potrebbero fare degli ottimi lavori al posto di dischi sì sufficienti, ma che lasciano un senso di amarezza per ciò che avrebbero potuto essere e non sono. (Alberto Merlotti)

(My Kingdom Music)
Voto: 65

domenica 29 maggio 2011

Aborym - With No Human Intervention

#PER CHI AMA: Black Industrial, Carpathian Forest, Dodheimsgard
“With No Human Intervention” non è semplicemente il terzo album per gli Aborym, ma un altro marchio a fuoco nella musica estrema contemporanea, un ulteriore affermazione di indiscutibile superiorità della formazione capitolina. Seguo gli Aborym fin dal loro debutto “Kali-Yuga Bizarre”' e sebbene gli esordi della band fossero più che promettenti non avrei mai immaginato di farmi coinvolgere in maniera così appassionata dalla loro musica. “Fire Walk with Us!”, il secondo capitolo, mi turbò letteralmente quando lo ascoltai per la prima volta e mi fece aprire gli occhi su quanto l'arte degli Aborym fosse innovativa, disturbante ed annichilente. Per il sottoscritto quell'opera rimane un capolavoro, un album avvolto nella malvagità più autentica, un vettore di energia distruttiva impossibile da convogliare e troppo sfuggente per essere carpita in tutti i suoi impulsi. “With No Human Intervention” lancia lo stesso messaggio spietato del suo predecessore, un messaggio di dissolutezza, odio e violenza di cui gli Aborym rappresentano ormai gli unici efficaci portavoce e che in questa occasione viene condiviso assieme ai numerosi ospiti dell'album: Bård "Faust" Eithun (ex-membro di Thorns ed Emperor), R. Nattefrost dei Carpathian Forest, Sasrof dei Diabolicum, Irrumator di Anaal Nathrakh e Matt Jerman di Void/OCD. Brani come “WNUI” e “U.V. Impaler” sono la prova di una vena creativa inesauribile e di un intuito geniale, sono scariche elettriche inebrianti che attraverseranno il vostro corpo galvanizzandolo e lasciandolo in preda alle convulsioni. I pezzi sorprendono per la loro bestialità e le litanie di Attila non erano mai state così isteriche e contorte prima d'ora! I ritmi frenetici ed esasperati sostenuti dalla drum-machine ricordano molto da vicino il black metal industriale che vide i Mysticum come precursori del genere, ma gli Aborym possiedono un suono estremamente più complesso rispetto alla seminale formazione norvegese e il loro uso così impavido e folle dell'elettronica rende sterile qualsiasi tentativo di paragone. “Does Not Compute” e “Chernobyl Generation” sono schegge impazzite di tecnologia, bagliori fluorescenti che corrodono e dilaniano l'anima, mentre i dieci minuti di “The Triumph” riesplorano l'eclettismo del debutto, spaziando dalla melodia del black metal più cadenzato fino ad un'apnea di orgiastica electro. In questo terzo sigillo l'odore insopportabile di sangue e morte che si respirava in “Fire Walk with Us!” ha lasciato il posto a quello più asettico delle macchine, tra le profetiche visioni di un mondo in cui sono le fabbriche a dominare e ad ergersi minacciose sulle nostre tombe. Queste sono le visioni evocate da “With No Human Intervention”, un'opera costruita per celebrare la vostra fine, per divorarvi ed annientarvi... (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 85

Steny Lda - Steny Lda

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal, Isis
L’attivissima etichetta Slow Burn Records ha dato alle stampe lo scorso dicembre al full lenght di debutto dei russi Steny Lda (il cui significato è “Muri di Ghiaccio”). La proposta dell’act sovietico (non mi è dato di sapere il numero e il nome dei membri della band), è in linea con le proposte della sub label della Solitude Productions, ossia un post metal/sludge che a parte le ultime due tracce, è da considerarsi un disco meramente strumentale e proprio qui risiede il punto debole di un disco che avrebbe potuto meritare un voto molto più alto se solo una giusta voce avesse completato l’opera. Questo si evince dalla necessità di completare qualcosa di estremamente strutturato, insomma come la vedreste voi se gli Isis avessero suonato esclusivamente senza il cantato caldo e selvaggio del buon Aaron Turner? Io non molto bene, in quanto le vocals a mio avviso costituiscono un vero e proprio strumento a disposizione della band, per conferire maggiore personalità o dinamismo ad un disco. E questo “Steny Lda”, per quanto sia un cd che a me piace, trova la sua pecca nella mancanza di quelle vocals che avrebbero potuto donare una maggiore dinamicità ad un disco che è tuttavia in grado di offrire buoni spunti a livello musicale. E dire che gli ingredienti per fare il botto ci sono tutti: ritmiche in pieno stile sludge (ottima “O-M-G”) si avvicendano con atmosfere più soffuse, tipiche del post rock, quasi a voler tributare i Mogway (ascoltate “0-5-7”), con i loro passaggi delicati e a tratti ripetitivi, quasi una sorta di ninna nanna che ci spinge verso una dimensione più onirica. Ma è poi la componente elettrica a riemergere più preponderante come nella successiva “H-M-T”, che a parte riproporre le urla già trovate in “O-M-G”, viaggia sui binari del post metal melodico sospinto da una forte vena malinconica. Le fastidiose urla del vocalist tornano anche in “C-O-W” (quanto mi piacerebbe conoscere il significato di questi simboli e numeri), mentre la settima “C-W-B” mostra un sound più vicino a Mastodon e Baroness, con delle ritmiche grooveggianti dal forte flavour sudista. Ma ancora una volta è il piglio post rock depressivo a riemergere con finalmente un cantato “normale” (tuttavia da rivedere in quanto poco espressivo), cosi come pure nell’ultima “1-0” che chiude un disco che per quanto possa risultare interessante, mi lascia comunque con l’amaro in bocca, per tutte quelle potenzialità ahimè inespresse. Rimango in attesa di un come back discografico per prendere una posizione più definita per ciò che concerne questi Steny Lda. Nel frattempo godiamoci questo debutto, che “del domani non v’è certezza” (Francesco Scarci)

(SlowBurn Records)
Voto: 70

Terra Tenebrosa - The Tunnels

#PER CHI AMA: Sludge, Ambient, Noise, Neurosis, Cult of Luna
Mistico, intrigante, seminale, tribale, pachidermico, disturbante, enigmatico… ecco riassunto in poche inequivocabili parole quanto racchiuso nelle sette tracce di questo unico “The Tunnels”, album degli svedesi Terra Tenebrosa, band che nasce da ex menti malate dei Breach. Il risultato è palese fin dall’iniziale “The Teranbos Prayer”: attacco affidato ad una ipnotica batteria dall’incedere tribale, e poi ecco che una malsana atmosfere rende reali i peggiori dei nostri incubi, quasi la colonna sonora ideale per lo spettrale film “Donnie Darko”. Rimango basito di fronte a questi suoni, costantemente accompagnati da una voce aliena. Non ho ancora superato quella sensazione di pura angoscia inflittami dalla opening track, che vengo aggredito dal basso malefico di “Probing the Abyss”, e dal quel suo incedere ossessivo, che ancora una volta mi spinge a rifugiarmi come un bambino spaventato, raggomitolato in un angolo della sua cameretta. “The Tunnels” ha un effetto devastante sulla psiche di chi lo ascolta, slatentizzare tutte le nostre paure e indurci a rifugiarci all’interno di noi stessi. Mi appresto ad affrontare i dieci minuti di “The Mourning Stars”, ma sono solo con la mia assenza di fiato, neppure abbia percorso i 42km della maratona. Fortunatamente, la song parte piano, delicata, ma sono consapevole che dietro le ante di quell’armadio, che tanto mi spaventava da piccolo, si celi realmente un mostro diabolico, forse il cuculo (the Cuckoo), la figura a cui i Terra Tenebrosa fanno riferimento all’interno di questo album. Il brano non nasconde l’amore dei nostri nei confronti dei Neurosis, per quelle tipiche lisergiche atmosfere e sonorità che hanno reso grande la band californiana. I suoni apocalittici s’ingrossano man mano che la musica fluisce nel suo importunante avanzare, con le vocals quasi indecifrabili che fanno da sfondo a cotanta follia. Un rigurgito black metal si scatena nell’incipit demoniaco di “The Arc of Descent” anche se poi nella sua parte centrale sono, al solito, le claustrofobiche ambientazioni a farla da padrone. Il viaggio all’interno dei nostri incubi più reconditi prosegue con la strumentale e ripetitiva “Guiding the Mist/Terraforming”. “Through the Eyes of the Maninkari” è l’ennesimo tributo dei nostri al sound dei pionieri del genere: doom, sludge, industrial, ambient e noise si fondono alla perfezione in questo catalettico lavoro, fino alla conclusiva title track, degna conclusione di questo cd sprigionante emozioni centrifuganti. Se non volete, che il vostro viaggio si interrompi qui, sappiate che la versione in vinile racchiude la bonus track "Breaking Open the Head" per altri 15 minuti di delirante passione. Sia chiaro, l’album non sarà di facile assimilazione per chiunque si voglia avvicinare, senza avere un po’ di dimestichezza col genere, il rischio è di restare bruciati. Per chi è avvezzo a simili sonorità, l’ascolto è d’obbligo. Immaginari. (Francesco Scarci)

(Trust No One Recordings)
Voto: 85

Raven Woods - Enfeebling the Throne

#PER CHI AMA: Black Death, Behemoth, Melechesh
Chissà qual’era l’intento della Code 666 quando ha arruolato nel proprio rooster i turchi Raven Woods? Trovare i nuovi Behemoth o forse proporre qualcosa di brutale e al contempo “sporcato” da melodie di mesopotamica derivazione (vedi Melechesh)? Non saprei dire, quel che è certo è che la proposta musicale del five-pieces anatolico è un death black che si rifà senza ombra di dubbio alle due band sopra menzionate, anche se i nostri tendono decisamente a privilegiare la proposta di Nergal e soci. Il genere quindi è già ben delineato nelle vostre menti, veniamo pure al risultato: dopo l’intro si viene subito travolti dalla title track e da “Breathless Solace” che confermano immediatamente che quello che ho fra le mani è un prodotto di metal estremo e brutale, caratterizzano da un riffing tonante e fragoroso (complice un’ottima produzione) che esalta tutti gli strumenti, in particolar modo la batteria di Semih che si rivelerà nel corso del disco, fantasiosa, a tratti sincopata, ma costantemente devastante (spaventosa in “Ecstasy Through Carnage”). Certo, lo spettro dei Behemoth continua ad aleggiare sui nostri, prevalentemente a livello delle ritmiche, sempre tirate e sempre a cavallo tra death e black, e dove la melodia è relegata a pura spettatrice. Tra un passaggio orientaleggiante (si ascolti il meraviglioso bridge di “Torture Palace”, la mia song preferita o “Upheaven-Subterranean”) e un outro acustico, i nostri riescono a sfoderare brillanti prove anche in chiave chitarristica, dove i solos confezionati dal duo Cihan/Emre, si riveleranno alla fine assolutamente azzeccati. Non posso non citare anche la prova egregia alla voce di Kaan, che si diletta alternandosi tra lo screaming black e il gorgoglio death, bravo. Insomma, fondamentalmente a me questo disco piace, anche se talvolta potrà balzarvi all’orecchio qualcosa di un po’ troppo derivativo o peggio, piattino. Quel che è certo è, che ancora una volta la Code 666 ha piazzato un colpo vincente con una semisconosciuta band dalle grandi potenzialità, stiamo a vedere in futuro che accade, ma sono certo che sentiremo ancora parlare dei Raven Woods e non per forza questa volta, confinati nell’underground più estremo. (Francesco Scarci)

(Code 666)
Vo
to: 70

Alpthraum - Cacophonies from Six Nightmares

#PER CHI AMA: Black Ambient Funeral Doom
Ci sono generi, nel metal, che sfociano in importanti esperimenti sonori e le influenze sono talmente varie che spesso si fatica a ricavarne l’origine. Generi che esaltano e distruggono allo stesso tempo, che instillano una malinconia sottocutanea a tratti demistificata. Musica di nicchia, senza dubbio. Gli Alpthraum sono una di queste band. Impossibili da definire. È musica nera che più nera non si può. Dopo attenti ascolti mi sono ritrovato a riflettere sulla natura viscerale dei sentimenti che stanno alla genesi di un disco come questo, e, allo stesso tempo, ho cercato di comprendere le fondamenta che sottostanno a un genere tanto ricercato. Fondamentalmente “Cacophonies from Six Nightmares” dovrebbe (usiamo il condizionale) essere un album black metal. Almeno, da un calcolo quantitativo, le atmosfere tipicamente black risultano le più consistenti nel corso delle sei tracce. Un sound alla “Wolven Ancestry” tanto per intenderci, primitivo e animale. Non solo. L’uso artificioso di lunghissime pause e il pesante ricorso ad elementi ambient, formano un disco di rara complessità, e mi rendo conto che per i non addetti ai lavori può essere una sfida riuscire ad arrivare fino alla fine dell’ascolto in una sola volta. Il maggior punto a favore, che rimane però anche quello più problematico, resta il sapiente dosaggio di violento black ad un’atmospheric-doom (è davvero difficile rinchiuderlo in un’etichetta generica) che richiama alla lontana il sound dei Void of Silence. La sesta traccia dell’album (il sesto degli ultimi incubi cui allude il titolo) si dimostra una performance di sei minuti (che sia un caso?) in cui non compaiono chitarre o batteria. È l’inquietante soliloquio di una creatura indefinita, alternato a suoni e rumori che coinvolgono l’ascoltatore in un’atmosfera inconcepibile per la mente umana, quasi una nenia sacrale. Caos e silenzio. Caos e silenzio. Caos e silenzio. I lettori accaniti di Lovecraft, come lo è il sottoscritto, potranno trovare in quest’opera musicale il perfetto sottofondo per gli orrori dell’altrove, anche se, rimanendo in campo doom, gli Antichi rimangono patrimonio storico dei Thergothon. Sconsigliato a chi è affetto da tendenze suicide. (Damiano Benato)

(Kunsthauch)
Voto: 70

Samael - Lux Mundi

#PER CHI AMA: Celtic Frost, Rammstein, Laibach
Annunciato già da tempo come un ritorno alle vecchie sonorità di “Passage” ed “Eternal”, l’ultimo lavoro in studio dei Samael rivela senz’altro la volontà di riaccostarsi ad un sound che verso la seconda metà degli anni ’90 aveva portato la band svizzera a ricevere larghi consensi nel sottobosco del metal estremo. E’ ora lecito interrogarsi se questi intenti nostalgici bastino a ripercorre i fasti del passato, ma i dubbi si sciolgono abbastanza rapidamente, senza necessità di superare i primi quattro brani del disco. In “Lux Mundi” ritroviamo le medesime atmosfere apocalittiche degli album citati poc’anzi, le stesse ritmiche meccaniche ed un incedere marziale stilisticamente inconfondibile che si pone a metà strada tra black e industrial metal, tuttavia è la forza dei singoli brani a risultare quasi impalpabile. Non si può dire che nell’economia delle canzoni manchino il dinamismo e la capacità di concepire architetture musicali complesse, d'altronde siamo sempre al cospetto di un quartetto di musicisti più che navigati. Ciò che in realtà fatica ad emergere è l’energia, quello straordinario vigore sprigionato da vecchi cavalli di battaglia quali “Shining Kingdom”, “Liquid Soul Dimension”, “Year Zero” e “The Cross” (solo per citarne alcuni). Tralasciando l’interlocutorio “Above”, va aggiunto che i Samael avevano comunque raggiunto uno splendido equilibrio in album come “Reign of Light” e “Solar Soul”, entrambi contraddistinti da un approccio più innovativo, elettronico e commercialmente appetibile, per cui risulta incomprensibile o perlomeno deludente una virata verso schemi già ampiamente esplorati e sui quali risulta evidentemente difficile recuperare una rinnovata ispirazione. Nonostante l’ascolto più minuzioso dell’album faccia emergere un paio di episodi riusciti come “For a Thousand Years” e “In the Deep”, “Lux Mundi” non regge comunque il confronto con il passato e rassomiglia tanto ad una raccolta di b-side che non trova una dignitosa collocazione all’interno di una discografia che fino ad oggi aveva toccato livelli qualitativi eccellenti. (Roberto Alba)

(Nuclear Blast)
Voto: 60