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mercoledì 1 aprile 2020

Matteo Muntoni – Radio Luxembourg

#PER CHI AMA: Post-Rock/Jazz/Neo Progressive
Matteo Muntoni è un musicista, polistrumentista e compositore sardo con poliedriche visioni sul mondo della musica. La sua ampia versatilità lo porta a spaziare con una certa libertà tra echi post rock e reminiscenze jazz ("The Jellyfish Dance Drift"), scaglie di psichedelia d'annata e minimalismo sonoro misto ad ampie aperture, sulla scia di alcune geniali intuizioni a la Steven Wilson. Così, si susseguono colori e suoni da ogni angolatura, sempre con una moderata vena rock melodica e controllata; la sua è una musica complessa, variopinta ed allo stesso tempo di piacevole impatto che scivola bene all'ascolto, che si estende addirittura in ambito pop (l'omonimo brano che porta il nome del disco 'Radio Luxembourg') senza mai scadere nella banalità, ed anche se intavola tematiche più semplici, non si priva mai di una certa personalità. Il titolo dell'album è una dedica alla storica radio, punto di riferimento per tutti gli aspiranti dj delle prime radio libere italiane degli anni settanta, nata nel 1933 a Marnach in Lussemburgo e dedita alla diffusione di musica d'avanguardia, assai diversa dagli allora programmi delle radio pubbliche europee. Il caldo tepore del jazz d'atmosfera, arpeggi cristallini e stili che si fondono in una manciata di canzoni multicolori, fanno di questo album un marchio di fabbrica, con il rock alternativo ed i chiaroscuri musicali a susseguirsi brano dopo brano, mettendo il giusto brio al disco. Un album corposo che non si perde in virtuosismi ma che mostra un lavoro di squadra molto intenso, un disco dalle molteplici qualità artistiche e dalle sentite e cercate derivazioni compositive di certo rock progressivo più soft degli anni settanta, azzardando il paragone al sound dei mitici Sweet Smoke, o al prog dei Willowglass, con punte verso il rock fusion dei Both Hands Free, ovviamente personalizzato dall'autore, rivitalizzato ed attualizzato ai giorni nostri. Un lavoro strumentale, interessante e tutto da scoprire, partendo dal mio brano preferito ossia la bella suite progressiva in chiusura dell'album, "Werewolf Cricket". (Bob Stoner)

Untitled with Drums - Hollow

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle
Secondo lavoro per questo quintetto francese che prende il nome da una canzone dei mai troppo lodati Shipping News. Questo l'indizio che aiuta ad inquadrare le coordinate di riferimento della musica degli Untitled With Drums, cosi tesa tra reminiscenze post-rock e noise di fine anni '90 e le influenze quasi progressive dei primi anni 2000, portate da band quali Tool o Cave in. Quello dei cinque francesi è un rock oscuro e di sicuro impatto, nel quale un songwriting di qualità si fa strada attraverso coltri di feedback e bassi distorti, sorretto da un drumming potente e preciso, e una voce sempre in grado di reggere il pathos. Difficile scegliere i brani migliori, laddove la qualità media è sempre piuttosto alta (con una leggera flessione forse nella seconda parte dell'album), raggiungendo notevoli picchi di intensità nell’incedere marziale della drammatica “Silver” o nei saliscendi emozionali di “Passing on”, “Amazed” o “Strangers”, con il suo drumming tribale, mentre “Hex” lambisce gli A Perfect Circle o i migliori Incubus. Quello che piace, in generale, è come ogni pezzo contenga un’evoluzione, un twist in grado di tenere costantemente vivo l’interesse, scongiurando il pericolo dato da una certa omogeneità di atmosfere di far assomigliare un po’ troppo i brani tra loro. 'Hollow' è un disco solido e compatto, fosco e potente, perfetto per chi ama i nomi di riferimento e non solo. (Mauro Catena)

(Seeing Red Records/Araki Records/Brigante Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: 74

https://untitledwithdrums.bandcamp.com/

martedì 31 marzo 2020

Noam Bleen - Until the Crack of Dawn

#PER CHI AMA: Post-grunge, Alice in Chains, Porcupine Tree
Era il 2016 quando un EP rilasciato solo in formato digitale, mi faceva sobbalzare nel suo magma chitarristico intriso di post-HC anni '90 e un song-writing tutt’altro che banale, il tutto supportato da una produzione scintillante. Dopo tre anni, i Noam Bleen cambiano nella formazione (Nick Bussi si aggiunge ad Antonio Baragone e i due si dividono scrittura, voci e strumenti, con la batteria di Silvio Centamore) e nel suono. Laddove l’omonimo EP era un concentrato incendiario di Helmet, Quicksand e primi Tool, in quest'ultimo 'Until the Crack of Dawn' le asperità vengono smussate, i ritmi rallentati e in generale si respira un’atmosfera meno rovente e più rilassata. Siamo sempre negli anni '90, ma il modello di riferimento si sposta verso i mid tempo elettroacustici che nel migliore dei casi ricordano gli Alice in Chains di 'Jar of Flies' o i Porcupine Tree meno acrobatici, anche se spesso il sound dei nostri finisce dalle parti di certo tardo grunge che personalmente non ho mai troppo amato (Bush, Live, Staind e compagnia cantante). E se è vero che l’incipit “Feeling Bleen” è un biglietto da visita di quelli che si fanno ricordare, in virtù di un cantato pinkfloydiano e delle sue bellissime chitarre, il resto del programma stenta a mantenere lo stesso livello, ma oggettivamente non era semplice. Il mood del disco si mantiene per lo più su mezze tinte fosche, sicuramente più nelle corde della band, che quando prova ad accelerare, risulta a fuoco solo parzialmente (“As of Yore” meglio di una “Opera House” un po’ goffa). I tre Noam Bleen dimostrano di saper scrivere canzoni piuttosto epiche e discretamente orecchiabili, anche se li preferisco quando enfasi e chitarroni rimangono in secondo piano e ad emergere sono una scrittura non scontata (“New Year’s Eve”, “Departure” o la stessa title track). 'Until the Crack of Dawn' è un lavoro di sicuro spessore, da approfondire con ascolti ripetuti e che piacerà non solo agli orfani del post-gunge della seconda metà degli anni '90. (Mauro Catena)

lunedì 30 marzo 2020

Frontside - Twilight of the Gods (A First Step To The Mental Revolution)

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, Morbid Angel, Dismember
Il titolo 'Twilight of the Gods' quanti ricordi è in grado di generare, almeno nel sottoscritto; speravo di ritrovarmi fra le mani un qualcosa che ricordasse almeno in lontananza il capolavoro dei Bathory e invece questi Frontside avrebbero dovuto rappresentare la risposta europea a Bleeding Through e Killswitch Engage, e forse ci riescono anche, ma pensate la mia delusione. La band polacca, in giro dal 1993 e già vincitrice in passato dei Grammy Awards del proprio paese, con il miglior album heavy metal dell’anno, ci propinano il solito death/thrash ultra aggressivo, dal killer sound, che combina voci growl a coretti clean. Poco di nuovo all’orizzonte anche per il 2006 quando il lavoro fu rilasciato: melodie calcitranti, il tipico swedish style alla Dismember, unito al classico temperamento hardcore americano della scena di New York, miscelato alla pesantezza del death “made in USA”, ecco in breve l'essenza di questo lavoro. Il risultato tuttavia è buono anche se con i soliti quattro ingredienti messi in croce, molte band riescono a raggiungere un discreto successo, mentre ci sono altre band in giro dalle idee geniali ma prive di uno straccio di contratto. A parte le mie sterili polemiche, il quintetto polacco è impressionante per quanto sia preparato: ritmiche debordanti emergono dai solchi di questo 'Tramonto degli Dei', che rende giustamente merito ad una formazione tecnicamente valida, con buone idee e un’energia vitale da vendere in quantità industriale, peccato che alla fine sia però la solita solfa. Sebbene saturo di tali sonorità, questi Frontside si presentano già da diversi anni come una delle migliori band in circolazione per il genere proposto. Dannatamente potenti, dannatamente bravi!! (Francesco Scarci)

Walls of Jericho - With Devils Amongst Us All

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore, The Black Dahlia Murder, Bleeding Trough
Sinceramente con un nome del genere mi aspettavo più una band di power o speed metal, però vedendo prima la casa discografica e mettendo poi il cd nel lettore, mi sono reso conto che fra le mani avevo l’ennesimo esempio di metalcore. Che scrivere di diverso allora per questa band di Detroit, che già non sia stato scritto per le altre centinaia o forse migliaia di band metalcore che popolano il music biz? Il quartetto statunitense ci spara sulle nostre facce il solito polpettone di furia hardcore unita ad attitudine punk per un concentrato esasperante di adrenalina pura. Undici irriverenti tracce, caratterizzate dal solito thrashy riff, esplodono nelle casse del vostro stereo, undici pugni nello stomaco in grado di mettervi presto ko. La release dei Walls of Jericho ormai datata 2006 è energia allo stato puro, che mi fa saltare come una gazzella, sbattere il muso come un topo intrappolato in gabbia, lanciarmi in un headbanging frenetico dall’inizio alla fine, per ritrovarmi madido di sudore alla fine dell’ascolto di questo 'With Devils Amongst Us All', un disco la cui non troppo piccola pecca è quella di risultare uguale ad altri mille dischi metalcore. Da segnalare infine che le vetrioliche vocals sono ad opera di una cantante donna, tale Candace Kucsulain che attacca il microfono con un'incredibile ferocia. Solo per gli amanti del genere. (Francesco Scarci)

(Roadrunners Records - 2006)
Voto: 62

https://www.facebook.com/WallsofJericho/

venerdì 27 marzo 2020

Dark Fount - Become the Soul of Mist (幽浮林澗之霧)

#PER CHI AMA: Black/Acoustic Folk
Dati per dispersi da ben 13 anni, i cinesi Dark Fount tornano a farsi vivi, rilasciando un EP (tra l'altro disponibile in soli 30 pezzi esclusivi in cassetta) di un paio di brani, edito dalla Pest Productions. La one-man-band di Tai'An, guidata da Li Tao, si è fatta portavoce fin dagli esordi del black metal made in China, in compagnia dei soci di scuderia Zuriaake. Dicevo solo due pezzi per questo 'Become the Soul of Mist', che si aprono con il black mid-tempo di "幽浮林澗之霧", un esempio di glaciale e melodico sound oscuro che vede delle accelerazioni al limite del post black comparire nella seconda metà del brano, ove le grim vocals del mastermind cinese trovano ampio spazio, mentre la melodica linea chitarra ricorda un che dei Mahyem di 'De Mysteriis Dom Sathanas'. La seconda "餘燼" è una suggestiva song acustica che nel suo desolante e malinconico incedere folk, sembra tributare quell'ultimo saluto alle vittime del virus che sta falcidiando il mondo in questi giorni complicati. Certo la proposta del musicista cinese è un po' troppo risicata per delineare in modo strutturato il come back discografico dei suoi Dark Fount, per cui conto assolutamente di risentirli quest'anno in un disco dalla durata più importante, per ora da parte mia solo un ben tornato. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2020)
Voto: 64

https://pestproductions.bandcamp.com/album/--8

Candles and Wraiths - Candelabia

#PER CHI AMA: Symph Black, Angizia, Cradle of Filth
Arrivano da Vienna i musicisti di quest'oggi, i Candles and Wraiths con un sound che, coniugando un black e death sinfonico con venature goticheggianti, ammicca non poco ai Cradle of Filth. Poco male, visto che di band di questo tipo non ce ne sono poi molte e allora, in attesa di ascoltare gli originali con una nuova release, perchè non distrarsi con una band di questo tipo, che dopo tutto, qualche idea niente male ce l'ha pure. Parliamo quindi del debut album del trio austriaco, intitolato 'Candelabia', un lavoro che si apre con la classica intro sinistra ed inquietante ch funge da apripista ad "After Midnight", una song che accosta immediatamente i nostri a Dani Filth e soci ma in cui trovo anche un che dei nostrani Ecnephias. Ecco quindi come prende forma il sound dei Candles and Wraiths, tra scorribande black, orchestrazioni pompose e screaming vocals. Un cantato quasi operistico sembra aprire "Nightmares on Forsaken Soil", ma è qualcosa di impercettibile lasciato proprio ad una frazione di secondo, visto che poi si riparte con delle accelerazioni infuocate, i consueti cambi di tempo tipici del sound dei nostri, il tutto corredato da ottime melodie di supporto. Una spinetta apre "Fire Amidst the Crashing Waves", un altro brano in cui sono sempre le ingarbugliate partiture chitarristiche a farla da padrona, con il cantato abrasivo (e nevrotico) di Prabhin Velankanny in primo piano che ben si adatta allo scorrimento instabile del disco. Un brano più convincente è "All Hallows Eve" che, partendo sempre da reminiscenze a la Cradle of Filth, si lancia in saliscendi tortuosi con un riffing nervoso ed una dirompente sezione di blast beat che configura il suono della band a quello di una sassaiola allo stadio. "Melpomene" è un pezzo strumentale, stile colonna sonora da film. Con "The Stranger" le ostilità riprendono come un flusso letale contraddistinto da ritmiche sincopate che trovano comunque un break centrale più meditato a concedere giusto quella manciata di secondi sufficienti per prender fiato e ripartire con un rifferama perennemente contorto e aggrovigliato su se stesso attraverso estenuanti giri di chitarra. Un altro brano che ho particolarmente apprezzato è "Wartorn Lovelorn", per quel suo approccio militaresco ma anche per l'utilizzo di clean vocals che arricchiscono ulteriormente la proposta della band viennese, che in certi tratti mi ha rievocato un che di un'altra band austriaca, gli Angizia, li ricordate? Alla fine, 'Candelabia' è un disco che sottolinea già la marcata personalità e professionalità dei nostri, e che pone le basi per una crescita futura, giusto per prendere le distanze da quelle che sono le influenze dell'ensemble austriaco. Per ora direi un buon punto di partenza, in futuro mi aspetto qualcosa di più spettacolare, visto che le potenzialità ci sono tutte. (Francesco Scarci)

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