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mercoledì 18 dicembre 2019

Ad Nemori - Akrateia

#PER CHI AMA: Atmospheric Death/Black
Dalla Baviera ecco giungere il full length di debutto degli Ad Nemori, intitolato 'Akrateia', lavoro che arriva a tre anni di distanza dall'EP 'Pyre'. Il cd include nove tracce di death melodico che con la delicatezza del pianoforte dell'introduttiva 'Miasma', si fa poi largo con le successive e più dirompenti tracce. Che i nostri abbiano uno spirito guerrafondaio appare chiaro sin dalla tellurica apertura di 'Tellurian Doom', un pezzo che prendendoci a calci nei fondelli, mette in luce le qualità compositive dei nostri, nel coniugare un sound potente con frangenti più atmosferici e decisamente melodici, che per sei minuti avranno di che solleticarvi i sensi, soprattutto quando sembra far capolino una melodia orientale in un notevole break acustico. Con "Above the Tide", la proposta del sestetto di Monaco sembra quasi incupirsi, concedendo ampio sfogo al growling possente di Raphael, accompagnato sempre dalle eccelse linee di chitarra confezionate dal duo formato da Stephen e Oliver, che qui sembrano concedersi anche lo sfizio di una sgroppata black, mitigata poi dalle keys di Milos, vero mattatore nell'erigere splendide ambientazioni. Vocals pulite compaiono invece nell'antemico intro di "Kenosis", una traccia di quasi dieci minuti che mette in scena una versione più edulcorata degli Ad Nemori, almeno in termini di potenza, qui assopita a favore di un sound più mellifluo, almeno nella prima metà. Poi è un suono dinamico a venir fuori, quasi a strizzare l'occhiolino agli Insomnium e a tutta la frangia melo death nord europea. "Obey Thy Sovereign" mostra tempi dispari a livello di drumming, ma la sua attitudine ha un che del symph black, il che dimostra anche una certa capacità di spaziare da parte del combo teutonico. Interessante sottolineare come tendenzialmente le seconde parti di tutte le song presentino una parte decisamente più atmosferica, qui anche con annesso un ottimo assolo di chitarra. L'incipit di "Diverging From The Black" mi ha evocato invece lo spettro degli Amorphis, e ditemi se anche voi non ne avete percezione. Lo svolgersi della song poi non riflette proprio i canoni dei gods finlandesi in quanto gli Ad Nemori sembrano qui un po' più caotici, errori di gioventù mi verrebbe da dire. "Guidance" è un intermezzo musicale dal forte sapore etnico che prepara a "The Stars My Destination", oltre otto minuti di sonorità frenetiche, al contempo epiche, a cavallo tra black (lasciatemi dire che qui la batteria non mi piace granchè) e un death doom dai tratti sinfonici. "Enkrateia" chiude l'album là come lo aveva aperto, ossia con soavi e malinconici tocchi di pianoforte che sanciscono la buona prova dei sei musicisti tedeschi. (Francesco Scarci)

Stormwarrior – Norsemen

#FOR FANS OF: Heavy/Power
When I first heard “Iron Prayers” back on 2002, I was blown away by Stormwarrior’s unapologetic resemblance to Walls of Jericho era Helloween. They even went as far as to have Kai Hansen produce and guest on their debut album. I was instantly a fan. The follow up to their debut was absolute perfection and one of my all time favorite albums. The band has changed over the years but one thing that has not changed, their approach to classic speed metal. It’s been almost six years since their last release, Thunder and Steele, so the time was right for the return of Stormwarrior. With the release of their sixth full length opus, Norsemen, they are back with a vengeance. It’s amazing how this band can stay true to their form without sounding dated or stale.

Keeping with Stormwarrior tradition, they begin with “To The Shores Where We Belong,” an intro that only builds you up to the burst of speed and energy you would expect from these Teutonic masters. “Norsemen (We Are)” bursts from your speakers with the fury of a marauding viking horde! A speedy epic number that sets the mood for what will be fifty minutes of head banging , horns up speed metal. Starting with speed and fury the song is classic Stormwarrior; including their signature melodic, anthemic choruses that you will find yourself signing along to by the time it rolls around for the second time. “Storms of the North” keeps it going with one of their most catchy choruses yet. The riffs are epic and the solos are godly.

“Freeborn” changed the pace a bit having that galloping tempo, crunching riffs, and melodic dual leads. Being one of the teasers released before the album, it’s just metal as fuck from beginning to end. They have this atmosphere that make any song they create sound epic. “Odin’s Fire,” “Sword Dane,” and “Blade on Blade” are classic Stormwarrior. These songs could have been on Northern Rage. “Shield Wall” starts off with some dual lead melodies over some epic keyboard effects then bursts into some great dual lead work for the intro that leads into the verse. It actually comes off as quite catchy. What this song does is prepare us for the epic masterpiece that is “Sword of Valhalla.” Clocking in at just over eleven minutes, this is an absolute beast of a song. This is everything heavy metal should be in one song; speed, epic riffs, melodic epic choruses, and godly soloing.

Once again, Stormwarrior proves to the world that staying true to your formula can pay off. This album is pure Stormwarrior from beginning to end. Their signature sound is is pure metal; nothing more, nothing less. I’ve never heard an album by this band that I did not like. Twenty-one years after their formation and seventeen years since the release of their blistering debut, Stormwarrior stands out as one of the best and most consistent bands in metal. Prove me wrong….I dare you!! (
The Elitist Metalhead)



(Massacre Records - 2019)
Score: 95

https://www.facebook.com/STORMWARRIOR.Official

martedì 17 dicembre 2019

Black Messiah - Oath of a Warrior

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Epic Black
Un temporale lontano accompagnato da ariose tastiere apre 'Oath of a Warrior', album di debutto dei tedeschi Black Messiah. Segue “A New Messiah” che ci mostra subito la sostanza di questi sei vichinghi tedeschi, il cui sound è inquadrabile in un viking symphonic black vicino alle produzioni dei connazionali Mephistopheles, ma anche con rimandi allo swedish death degli Ablaze My Sorrow, il tutto rigorosamente cantato in lingua madre e in inglese. L’album non è affatto male, anche se come al solito, io non sopporto il cantato in tedesco, che poco si adatta, per la sua ruvidità, alla musica in genere. Le chitarre imbastiscono trame che prendono a piene mani dalla musica classica: è sufficiente, infatti, ascoltare la terza traccia “Blutsbruder”, caratterizzata da un riffing violentissimo su cui s’inseriscono ottime melodie, per udire forti reminiscenze “Wagneriane”. Il pezzo finisce con l’utilizzo di strumenti non del tutto convenzionali (mi sembra un liuto), che mi catapultano con la mente sulle spiagge bianche della Grecia. Si prosegue e il registro è più o meno sempre lo stesso: motivi vichinghi d’altri tempi, con la musica che passa da momenti di estrema epicità ad altri in cui è il black sinfonico a dominare. I brani risultano ben strutturati, vari e assai melodici, capaci di alternare le tipiche cavalcate epic a momenti di più saggia atmosfera. Le vocals poi, non sono ne esageratamente growl, neppure pulite a dire il vero, ma ben bilanciate nella loro estensione. Questo album non è sicuramente un must, tuttavia l’ho trovato assai interessante e complesso nella sua concezione. Direi che un ascolto è il minimo che si possa fare per essere proiettati in una dimensione lontana dove le spade erano levate per celebrare la vittoria. (Francesco Scarci)

(Einheit Produktionen - 2005)
Voto: 70

https://www.facebook.com/BlackMessiah666/

Blood Ritual - Black Grimoire

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection, Nile
Con le orecchie ancora crivellate dai colpi dei Summon metto su l'ultimo platter dei Blood Ritual, ormai datato 2005, sapendo già di dovermi sorbire l’ennesimo scontato massacro death/black. Una montagna di pesanti riff schiacciasassi, con forti echi di derivazione Nile, mi investono già dal primo lunghissimo pezzo (otto minuti di malvagità allo stato puro che trasuda dai solchi di questo “Invocation of Satan”), pezzo che mi stupisce non tanto per la cattiveria, ma per l’uso di chitarre soliste melodiche che mi hanno immediatamente richiamato i Dissection di 'The Somberlain'. Devo ammettere che il mio scetticismo iniziale sia stato presto spazzato via dalla prima traccia, che mi ha permesso di ricredermi sulla qualità dei nostri death metallers statunitensi. Anche i successivi brani si mantengono sulla stessa linea: ritmiche iper-tecniche e opprimenti, registrate su toni di chitarra bassissimi, contrapposte a momenti un po’ più atmosferici, vocals agonizzanti e soprattutto ottimi assoli. Quello che non mi piace granché di quest’album, è il suono della batteria, troppo stile “pentola” nella prima track e troppo ovattata nelle successive; il tutto probabilmente a causa degli studi di registrazione, i famigerati The Autopsy Room che hanno ospitato i 3 Inches of Blood e Drawn & Quartered, band dedite ad un sound abbastanza marciulento. Credo che ciò penalizzi non poco la proposta dei nostri, che se invece, adeguatamente prodotti e limate un po’ d’imperfezioni di troppo, potrebbero aprire la loro proposta ad un pubblico più ampio. Il cd è disponibile anche in un deluxe digipack con tre bonus tracks incluse. Vi segnalo che l’orrida cover è stata concepita da Rex Church degli Acheron. Peccato per alcune “grezzate”, altrimenti quest’album avrebbe meritato di più; ad ogni modo, tutti gli amanti di Dissection, Aborted e Nile diano pure un ascolto a questo oscuro 'Black Grimoire', laddove le porte dell’inferno si spalancano. (Francesco Scarci)

Summon - Fallen

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash/Death, Slayer
Una delle mode più trendy è stata per lungo tempo quella di emulare la durata di 'Reign in Blood', una trentina di minuti di musica e poco più. Gli americani Summon, la cui fondazione risale ai primi anni ’90, non ne sono rimasti immuni e nel 2005 hanno pensato bene di far uscire 'Fallen', classico lavoro death thrash, trito e ritrito decine di volte. Per carità, bravi i Summon a scatenare il putiferio sonoro con questo sesto lavoro in studio, proponendo però qualcosa di estremamente scontato, caratterizzato da tutti i clichè del genere: death thrash ad alta intensità, ottimamente prodotto negli Hellion Studios (quelli dei Cephalic Carnage per capirci), pregevoli assoli (di memoria “slayeriana” appunto, periodo 'Hell Awaits'), ritmiche martellanti e chitarre corrosive, ottime vocals e una bella copertina, opera di Joe Petagno (Motorhead). Le prime 5000 copie di 'Fallen' includevano poi un bonus DVD con l’intero album ri-registrato in Dolby Digital Surround Sound Mix oltre a 3 bonus video clips. Una sufficienza la voglio comunque dare ai Summon, per lo meno per la preparazione tecnica, per la costanza, l’onestà e l’impegno profuso in tutti questi anni. Però alla fine sappiate che questo è un album consigliato solo a chi ama sonorità death/black/thrash alla Slayer, Behemoth e Angel Corpse, e niente di più. (Francesco Scarci)

(Moribund Records - 2005)
Voto: 60

https://www.facebook.com/SUMMON-115792518441039/

lunedì 16 dicembre 2019

Ovunque - C'era una Volta Ovunque

#PER CHI AMA: Experimental Alternative Rock
Era il primo ottobre 2018 quando uscì 'C'era una Volta Ovunque', opera prima degli eugubini (e fatevi una cultura, sono gli abitanti di Gubbio no) Ovunque. Quello che mi ha stupito della band è la forza, anche a distanza di un anno, di spingere il loro lavoro e allora eccomi qui a parlarvi di questo disco strumentale di otto tracce che abbraccia rock alternativo, psichedelia e sperimentalismi vari. L'album si apre con il riffone di chitarra di "Ragno", una song che mi ha evocato per certi versi i vicentini Eterea Post Bong Band, la band che mi sentirei di affiancare maggiormente ai nostri per ciò che concerne le influenze comuni. "Spigoli" ci dà una versione più psichedelica del duo formato da Federico Gioacchino Uccellani (chitarra) e Jacopo Baldinelli (batteria), proponendo un sound che affonda le proprie radici nella musica seventies, sebbene i violenti e distorti riffoni qua e là nel brano, sembrino dire altro. "La Bestia" è un pezzo oscuro dal flavour blues rock, ipnotico quanto basta nel riproporre in loop lo stesso giro di chitarra per i primi 60 secondi, per poi imbestialirsi nella sua ruvida componente ritmica che ci regala comunque qualche delizioso gioco di corde. "Maledetta" è sicuramente il pezzo più lungo del cd, oltre sette minuti di musica, il cui incipit mi ricorda qualche delirante e nevrotica melodia di basso dei Primus. Anche qui il ridondante riproporre lo stesso giro di chitarra ha la disturbante funzione di deviare la mente dell'ascoltatore in architetture ritmiche svincolate da schemi precostituiti, il che tradotto significa che dovrete aspettarvi tutto e il contrario di tutto in snervanti e fuorvianti linee ritmiche. Era lecito no attendersi qualcosa del genere, considerate le mie premesse relative agli sperimentalismi o ancor prima allo status eugobino dei nostri. Scherzo ovviamente, ma è inevitabile che sia divertente, al contempo complicato, ascoltare le prodezze sonore di questo psicotico duo, che ha ancora tempo di ubriacarci e farci perdere i sensi con la follia monolitica di "18 Soffi" o quella più hard rock oriented di "Un Luogo Asciutto", ove la chitarra sembra il verso di un'anatra nello stagno. E visto che si parla di animali, ecco arrivare "Gnu 2" e ancora una volta gli strumenti sembrano emulare versi di bestie (anche se non so se lo gnu faccia esattamente quanto proposto dalla 6-corde in questo pezzo), per poi affidarsi ad una seconda parte decisamente più stentorea. A chiudereil disco "Io Non Porto Cappelli Blu", l'ultimo baluardo che ci separa dal delirium tremens e che ci dice che gli Ovunque sono una realtà da seguire con curiosità ed interesse, ma a cui mi sento di suggerire di completare il quadro ritmico con un basso e qualche altro strumento alternativo per poter davvero competere ad armi pari con i mostri sacri internazionali. (Francesco Scarci)

Timelost - Don't Remember Me For This

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post-Punk/Dark Wave
Da Philadelphia ecco approdare al debutto i Timelost, collaborazione tra Shane Handal e Grzesiek Czapla, che con il loro 'Don't Remember Me For This', potranno solleticare i palati più affamati di post-punk/shoegaze, due generi molto spesso a braccetto tra loro, al contempo affiancati anche da una componente dark wave. Undici tracce che si aprono con "Timelost", una song che oltre a fissarsi per il chorus inneggiante il titolo, è impreziosita da ottime linee di chitarra e sicuramente una bella carica energetica. Se "Lysergic Days" non mi ha preso molto per il suo litanico vociare, con "Nausea Curtains" il duo statunitense propone un sound più ritmato che sembra evocare spettri passati. Tuttavia, il sound dei Timelost continua a non affascinarmi cosi come avrei sperato. Ci prova la title track con il suo incedere dapprima leggerino, e poi finalmente sognante, per cui sollevo finalmente lo sguardo per scrutare sullo schermo del cd il numero del brano. Eccolo lo shoegaze che stavo attendendo, con quelle preziosi linee di chitarra a creare melodie celestiali, mentre la voce rimane in sottofondo. I nostri ci prendono gusto e sfoderano un altro gioiellino con la malinconica "The River Broke Us", che esalta la performance del duo soprattutto quando si alzano i giri del motore e quelle splendide chitarre riverberate saturano i miei neuroni cerebrali. È un'escalation visto che la band riesce a mettere in fila uno dietro l'altro ottimi pezzi che pongono in primo piano lo shoegaze, l'ambito in cui i nostri sembrano trovarsi più a proprio agio. Non mancano però gli episodi in cui i nostri vanno a combinare post-punk con il grunge e penso alla breve "Heart Garbage" o alla più esplosiva "It Only Hurt Once", ma lasciatemi dire che i nostri rendono sopra la media laddove è lo shoegaze a guidare le cose, come nella conclusiva "I Know Cemeteries", song che rappresenta la summa di questo 'Don't Remember Me For This'. (Francesco Scarci)

We Lost the Sea - Triumph & Disaster

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Era addirittura dal 2013 che non recensivo qualcosa degli australiani We Lost the Sea. Da allora le cose sono cambiate parecchio: in primis la band è diventata completamente strumentale e quelle che erano le divagazioni post-hardcore dell'epoca, hanno lasciato ora il posto ad un post-rock cinematico che sento più influenzato dallo stoner piuttosto che da correnti più estreme. Alla fine quel che ne esce è 'Triumph & Disaster', il quarto lavoro dell'ensemble di Sydney, che ci narra la personale visione post-apocalittica di un mondo ormai al collasso, attraverso gli occhi di una mamma e suo figlio, in quello che è il loro ultimo giorno sulla Terra. Non certo rassicurante concordo, ma la musica funge da narrazione alla distruzione e alla tragedia incombenti. E "Towers" non poteva che essere la migliore song ad aprire le danze, attraverso i suoi controversi 15 minuti in chiaroscuro, che descrivono adeguatamente le emozioni che emergono da quel susseguirsi di eventi catastrofici che sanciscono la fine dell'umanità. Il tutto è fatto con un'alternanza certosina tra pesanti parti ritmate, frangenti ambient e fragorose ritmiche rallentate, che suonano come una marcia funebre a celebrazione del morto, in questo caso il nostro bistrattato pianeta. "A Beautiful Collapse" parte più in sordina, anche se quelle note cosi morbide suonano come un avvertimento, il classico monito per un'umanità ormai destinata a soccombere. Il muro ritmico risulta stratificato tra tre chitarre, basso, batteria e tastiere ad investirci quindi con una maggior veemenza. "Dust" è un breve intermezzo che si affida per lo più ad una chitarra acustica e a quella che mi pare essere una tromba che mi evoca un che dei nostrani At the Soundawn. Con "Parting Ways" ci si appresta ad affrontare un'altra bella maratona di oltre 12 minuti, che si apre sempre con quella raffinatezza ed eleganza che contraddistingue il sestetto australiano, con un ritmo che va via aumentando, fosse quasi il battito del cuore che assiste impietrito allo scatafascio generale. Interessante ma sembra quasi monca, una voce qui avrebbe rimediato a quel senso di vuoto che talora affiora dall'ascolto del brano. "Distant Shores" è ancora un esempio di malinconici suoni acustici dal flavour quasi country che ci introducono alla terza sfacchinata di oggi, i quasi 15 minuti di "The Last Sun", che rappresentano l'episodio più violento del disco, almeno nel suo incipit, visto che poi a prendere il sopravvento è una lunga parte acustica che si protrarrà ben oltre la metà del brano. Anche qui, con una voce a supporto, lasciatemi dire, che il risultato sarebbe stato di ben altra caratura. E finalmente la voce arriva con la conclusiva "Mother's Hymn", la voce di un angelo peraltro, che di nome fa Louise Nutting, che nella sua splendida ma tragica performance, viene accompagnata da chitarra, batteria e tromba in un inno maestoso che esalta finalmente le gesta dei We Lost the Sea, a cui caldamente consiglio di di ricorrere ad un maggior uso della voce celestiale della bravissima Louise, a quel punto vedremo sicuramente voti molto più alti. (Francesco Scarci)