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lunedì 16 dicembre 2019

We Lost the Sea - Triumph & Disaster

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Era addirittura dal 2013 che non recensivo qualcosa degli australiani We Lost the Sea. Da allora le cose sono cambiate parecchio: in primis la band è diventata completamente strumentale e quelle che erano le divagazioni post-hardcore dell'epoca, hanno lasciato ora il posto ad un post-rock cinematico che sento più influenzato dallo stoner piuttosto che da correnti più estreme. Alla fine quel che ne esce è 'Triumph & Disaster', il quarto lavoro dell'ensemble di Sydney, che ci narra la personale visione post-apocalittica di un mondo ormai al collasso, attraverso gli occhi di una mamma e suo figlio, in quello che è il loro ultimo giorno sulla Terra. Non certo rassicurante concordo, ma la musica funge da narrazione alla distruzione e alla tragedia incombenti. E "Towers" non poteva che essere la migliore song ad aprire le danze, attraverso i suoi controversi 15 minuti in chiaroscuro, che descrivono adeguatamente le emozioni che emergono da quel susseguirsi di eventi catastrofici che sanciscono la fine dell'umanità. Il tutto è fatto con un'alternanza certosina tra pesanti parti ritmate, frangenti ambient e fragorose ritmiche rallentate, che suonano come una marcia funebre a celebrazione del morto, in questo caso il nostro bistrattato pianeta. "A Beautiful Collapse" parte più in sordina, anche se quelle note cosi morbide suonano come un avvertimento, il classico monito per un'umanità ormai destinata a soccombere. Il muro ritmico risulta stratificato tra tre chitarre, basso, batteria e tastiere ad investirci quindi con una maggior veemenza. "Dust" è un breve intermezzo che si affida per lo più ad una chitarra acustica e a quella che mi pare essere una tromba che mi evoca un che dei nostrani At the Soundawn. Con "Parting Ways" ci si appresta ad affrontare un'altra bella maratona di oltre 12 minuti, che si apre sempre con quella raffinatezza ed eleganza che contraddistingue il sestetto australiano, con un ritmo che va via aumentando, fosse quasi il battito del cuore che assiste impietrito allo scatafascio generale. Interessante ma sembra quasi monca, una voce qui avrebbe rimediato a quel senso di vuoto che talora affiora dall'ascolto del brano. "Distant Shores" è ancora un esempio di malinconici suoni acustici dal flavour quasi country che ci introducono alla terza sfacchinata di oggi, i quasi 15 minuti di "The Last Sun", che rappresentano l'episodio più violento del disco, almeno nel suo incipit, visto che poi a prendere il sopravvento è una lunga parte acustica che si protrarrà ben oltre la metà del brano. Anche qui, con una voce a supporto, lasciatemi dire, che il risultato sarebbe stato di ben altra caratura. E finalmente la voce arriva con la conclusiva "Mother's Hymn", la voce di un angelo peraltro, che di nome fa Louise Nutting, che nella sua splendida ma tragica performance, viene accompagnata da chitarra, batteria e tromba in un inno maestoso che esalta finalmente le gesta dei We Lost the Sea, a cui caldamente consiglio di di ricorrere ad un maggior uso della voce celestiale della bravissima Louise, a quel punto vedremo sicuramente voti molto più alti. (Francesco Scarci)