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lunedì 25 novembre 2019

EUF - NBPR

#PER CHI AMA: Instrumental Noise/Post-Rock
Non mi è stato chiaro fin da subito quale fosse il nome della band e quale il titolo dell'album. NBPR e EUF, due acronimi che possono voler dire tutto e niente. Alla fine mi viene in aiuto il web e mi dice che gli EUF sono una band navigata della zona di Milano, dedida ad un post-rock strumentale, mentre 'NBPR' è il loro primo Lp (il cui acronimo sta per "Non Basta Più Rumore") dopo un trittico di EP rimasti a livello di underground. Il motivo di questa scarsa conoscenza del quintetto milanese può essere sicuramente legato ad un genere non certo malleabile come quello proposto dai nostri. Scrivevo post-rock strumentale nelle prime righe, ma facciamo subito chiarezza che non è nulla di celestiale, sognante o comunque di facile presa, quanto suonato dai cinque musicisti lombardi. Il disco infatti è davvero ostico e lo conferma immediatamente l'opener "I'm not WW" (ci risiamo con queste sigle, allora è un vizio?) che nel suo incedere più rumoristico che etereo, mi mette in difficoltà sin dai primi minuti, colpa di suoni freddi e dissonanti, quasi i nostri vogliano prendere le distanze da tutto quello che è invece morbido e affabile nel genere. Di sicuro, ascoltando la band, almeno in questa prima traccia, non c'è nulla che mi evochi la produzione dei Mogway, vista la maggiore scontrosità sonora da parte della compagine italica. Un miglioramento in tal senso, si può vivere nella seconda song, "I Know You Want This", ma francamente preparatevi ad un voltafaccia dai risvolti aspri ed incazzati, visto che dai suoni quasi celestiali (con tanto di voci di bambini in sottofondo) dei primi minuti, si passa nuovamente a chitarre spigolose, irrequiete e di difficile digestione. Ci si riprova con "Burn You! Slow Idiot, Again", un titolo che a costruzione sembra richiamare i Godspeed You! Black Emperor, ma che musicalmente mostra una stratificazione chitarristica abbastanza pesante. Si fa fatica ad ascoltare gli EUF, uno pensa che qui ci sia modo di rilassarsi, riposando le membra dopo una giornata faticosa, ma mi spiace deludervi, serve attenzione e forza per affrontare il disco. "No Escape for Surrenders" appare più abbordabile, complice verosimilmente l'uso in sottofondo di alcuni sample cinematografici che sembrano alleggerire (di poco in realtà) l'architettura musicale dei nostri, costantemente tenuti in tensione da ritmiche nervose ed inquiete. La musica nel suo crescendo musicale non offre poi il fianco a grandi aperture melodiche ma si conferma perennemente sospesa tra ridondanti e tortuose trame sonore e frangenti più minimalistici. Le spoken words si palesano nella voce di una ragazza anche nella conclusiva "A New Born", che continua in quel lavoro certosino di fughe strumentali di difficile assimilazione, dimostrando da un lato che si può suonare post-rock in modo originale, ricercato e talvolta sperimentale, dall'altro che, eccedere in questa direzione rischi di rendere un bel viaggio assai faticoso. (Francesco Scarci)

(I Dischi del Minollo - 2019)
Voto: 69

https://eufband.bandcamp.com/

ADE - Rise of the Empire

#FOR FANS OF: Techno Symph Death/Folk, Nile, Fleshgod Apocalypse
Recently, we have seen some death metal bands trying to combine the most brutal sound you can imagine with epic or folk touches, trying to forge a unique style where melody, majesty and relentless aggressiveness can coexist. The Americans Nile is, without any doubt, the most notorious example, but we can find through Europe other fine examples that shows us how theoretically incompatible styles can tastefully combined with some success. One of the best examples are the Italians ADE, a band founded 12 years ago in Rome. This city and the whole country have an enormously rich and grandiose history, so it is not a big surprise that these guys took the inspiration from their ancient history and tried to create a beast, equally influenced by the most aggressive metal and majestic history of Rome and Italy. From its inception, ADE has tried to mix a perfect technically executed death metal, with great Eastern/Mediterranean folk touches. The aim was to create a folk infused death metal, which sounds imposing, a key aspect because lyrically, the band is equally epic with lyrics based on the Roman Empire and its legendary history. The band debuted with an interesting album, whose limited attention didn’t stop the band´s hunger to reach higher levels. The sophomore album entitled ‘Spartacus’ was a higher step as it got more attention in the scene, not only because of its indubitable quality, but mainly due to the contribution in the drumming section of George Kollias, the master behind the drums in Nile. That was indeed a great excuse for many fans to discover the band. ‘Spartacus’ was an inspired album, where brutality, technics and epic infused folk arrangements were masterfully mixed. A key member in the latest aspect was Simone who played all the folk instruments. Sadly, he left the band after this album, and this had an important impact on the band, as in the later album the folk influences were decreased in favour of a more symphonic and epic approach. ‘Carthago Delenda Est’ was the third album and although it was a nice effort, I still preferred ‘Spartacus’, as it sounded more distinctive.

Three years later ADE returns with a surprisingly almost renewed line-up, where only the founder guitarist Fabio remains. With this initial surprise, I didn’t know what to expect, maybe a major change in ADE´s sound. Fortunately, at least for me, this isn´t the case as the band retains a great part of its core sound. ‘Rise of the Empire’ is another piece of powerful death metal, profoundly influenced by its epic and historical lyrics. The new vocalist doesn´t sound too different and his well executed growls remind me the previous front man. His cavernous voice has enough power to fit perfectly well ADE´s notoriously aggressive style and it is the perfect companion of the precise, yet brutal guitars. The drums played by the new member Decivs are as brutal and technically accurate as they were in the past, which says a lot, because ADE has been always a pinpoint machinery. The song "Veni Vidi Vici" is a clear example of how good the drums are, with many tempo changes, going easily for the fastest sections to more mid-tempo ones. This track, alongside other ones like "The Blithe Ignorance" and "Once the Die is Cast", for example, are also useful to write about one of the most important aspects of this album, the folk and symphonic arrangements. Although, as far as I know, there is no a specific member behind these duties, ‘Rise of the Empire’ seems to be a creature born from the combination of their previous two albums. I can happily say that this album contains more folk touches in the vein of ‘Spartacus’ as it retains the choirs and other majestic arrangements, but in a slightly lower degree than in ‘Carthago Delenda Est’. The closing track "Imperator" reflects this fusion as it combines both sides in a very tasteful way.

‘Rise of the Empire’ is definitively another great addition to ADE´s discography. Although it is a little bit early to compare it, in terms of pure quality, to albums like ‘Spartacus’, I sincerely hope that this album can be another step in the right direction. ‘Rise of the Empire’ should bring a greater recognition for a band, which clearly deserves it. (Alain González Artola)

(Extreme Metal Music - 2019)
Score: 85

https://adelegions.bandcamp.com/album/rise-of-the-empire

The Pit Tips

Francesco Scarci

Blut Aus Nord - Hallucinogen
Olhava - Olhava
Bliss-Illusion - Shinrabansho

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Matteo Baldi

Mamiffer - the brilliant tabernacle
Aaron Turner - Repression's Blossom
Blind Cave Salamander - The Svalbard Suite

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Alain González Artola

Nile - Vile Nilotic Rites
Wyrd - Hex
Wind Rose - Wintersaga

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Shadowsofthesun

Schammasch - Hearts Of No Light
Alessandro Cortini - Volume Massimo
Devin Townsend - Empath

Tӧrzs - Tükör

#PER CHI AMA: Instrumental Post Rock
Credo che la scena musicale ungherese abbia da sempre un suo perchè. A volte mi domando se l'originalità che molto spesso caratterizza le band magiare, sia in un qualche modo legata al fatto che la lingua parlata in Ungheria non abbia origini indoeuropee, sia nata negli Urali e da lì, diffusasi nelle grandi pianure danubiane. È per me pertanto interessante dare sempre un ascolto molto più coinvolto a quelle realtà che provengono da quella zona. E cosi, quest'oggi faccio la conoscenza dei Tӧrzs, un trio di Budapest che con questo 'Tükör' arriva addirittura al traguardo del terzo album. Il sound proposto nelle sei tracce incluse, è un post rock strumentale dai forti accenni malinconici: è chiaro fin da subito, dallo scoccare di quella chitarra acustica che in "Első" sembra quasi avvisare di prepararci a vivere forti emozioni. Ed è questo signori che faremo nell'arco dei quasi 40 minuti di musica che delicatamente sentiremo scorrere nelle orecchie ma anche nel profondo dell'anima. Che attendersi quindi se non un gentile flusso musicale, peraltro registrato live nell'Aggteleki Cseppkőbarlang, un sistema di grotte inserito all'interno di un parco nazionale ungherese, che sembra quasi amplificare quei riverberi generati dalle fughe chitarristiche dei nostri. Lo dicevo io che erano originali sti tizi e allora cosa di meglio che assaporare quegli anfratti atmosferici fatti di delicate pizzicature delle corde della chitarra, come accade nel break nostalgico di "Második", piuttosto che lasciarsi avvinghiare dalla vena psichedelica di "Harmadik", che farà certamente la gioia degli amanti dei Pink Floyd; qui in effetti le somiglianze con gli originali inglesi, rischiano di essere un po' eccessive. Il disco è comunque piacevole, anche se come sempre, io lamenti l'assenza di una voce che avrebbe potuto dare quel tocco in più ad un album che verosimilmente ne avrebbe giovato alla grande. I Tӧrzs sono alla fine un terzetto da tenere sott'occhio, ma mi sento in dovere morale di spronarli un pochino di più, spingendoli ad una maggior ricerca sonora per uscire dalla loro zona di comfort. Un primo passo è stato fatto con la registrazione nelle grotte, ora serve qualche step addizionale per spiccare il volo e assumere dei contorni di personalità ben più definiti. (Francesco Scarci)

(A Thousand Arms/Lerockpsicophonique - 2019)
Voto: 68

https://torzs.bandcamp.com/album/t-k-r-2

giovedì 21 novembre 2019

Asphodèle - Jours Pâles

#PER CHI AMA: Post Punk/Depressive Black/Shoegaze
Gli Asphodèle si sono formati nel 2019, ma non pensate che siano dei pivelli. La band francese che consta di cinque membri, include infatti batterista e chitarrista degli Au Champ des Morts, una band che ho particolarmente apprezzato nel 2017 con l'album 'Dans la Joie', la ex vocalist degli Amesoeurs, il cantante dei Aorlhac (che abbiamo già incontrato su queste pagine) e il bassista degli svedesi Gloson. Insomma, potrebbe risultare fuori luogo parlare di super gruppo però, se rapportato ai circuiti underground, non mi vergognerei affatto ad affermarlo. Che attenderci quindi da questo quintetto inedito? Vi risponderei semplicemente che tutti e cinque i musicisti hanno portato le loro pregresse esperienze in questo 'Jours Pâles', cercando di conglobarle con quelle degli altri. Pertanto, dopo l'intro strumentale di "Candide", ecco palesarsi in "De Brèves Étreintes Nocturnes" la voce di Audrey Sylvain, a portarmi con la sua timbrica, indietro di una decina di anni quando la brava cantante si dilettava con i vari Neige e Fursy T. nel loro inequivocabile concentrato di post-punk, shoegaze e depressive rock. Ad inasprire il sound però con echi post-black, ecco la chitarra sbilenca di Stéphane Bayle, uno che da 25 anni suona anche (e soprattutto) negli Anorexia Nervosa e ha pertanto una vaga idea di come fare male, a fronte anche di una nuova esperienza nei blacksters Au Champ des Morts. La musica degli Asphodèle si muove quindi in ambiti estremi anche se l'utilizzo massivo delle female vocals, smorzano la vena feroce della band, sebbene le ritmiche si confermino taglienti anche nella title track e il growling/screaming di Spellbound, cerchi di fungere da classico contraltare della soave performance della gentil donzella. Il sound dei nostri si arricchisce comunque di molteplici sfaccettature, dai break acustici della già citata title track, alle asprezze più black oriented di "Gueules Crasses", song dotata di una epica e gelida aura, grazie alle chitarre di scuola scandinava, mitigate dalle melodie vocali della particolare Audrey. Il disco scivola velocemente verso la fine attraverso altri pezzi, alcuni decisamente malinconici ("Nitide") ma comunque molto vari, altri che strizzano l'occhiolino più pesantemente allo shoegaze ("Réminiscences") song che trovo quasi fuori posto in questo contesto sebbene Spellbound cerchi di mantenere con la sua timbrica una certa connessione col depressive black. A chiudere invece "Décembre", un pezzo in stile Shining (quelli svedesi) che sancisce un disco interessante che sembra però mostrare qualche intoppo a livello di songwriting o comunque non avere una fluidità musicale ancora acclarata. 'Jours Pâles' è un lavoro discreto suonato da ottimi musicisti che paiono ancora non particolarmente amalgamati tra loro. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2019)
Voto: 68

https://ladlo.bandcamp.com/album/jours-p-les

Laika Nello Spazio – Dalla Provincia

#PER CHI AMA: Rock Alternative
In un panorama italiano devastato da banalità musicali, alcune realtà si fanno notare cercando di rinforzare quel percorso iniziato nei primi anni novanta da band storiche che hanno dato una certa credibilità e una dignità alla musica alternativa nazionale come Massimo Volume o Marlene Kuntz, quindi è inevitabile parlare di questo album come un valido lavoro a supporto di quelle lontane realtà. A partire dalle parti vocali, la parentela con i primi Massimo Volume è palese quanto la ricerca di vocaboli poetici non scontati per le liriche, uno stile compositivo che li accomuna a quel modo espressivo italico, alternativo e di tutto rispetto di fare rock per certi versi anche fortemente politicizzato. Musicalmente i Laika Nello Spazio si presentano con una formazione a tre, con due bassi ritmici e una batteria, e un intento atto a creare una musica squadrata e scarna, figlia del post punk con gli istinti dell'hardcore più melodico. Risulta difficile parlare di ricerca sonora ed originalità, l'album suona bene e seppur il sound sia minimalista e rumorosamente ben assemblato, sempre in tiro con melodie sicure e travolgenti, la musica risulta reale, onesta e i temi trattati sono credibili mentre parlano della vita difficile nelle province di oggi. Il cantato è denso, molto sentito e intriso di rabbia stradaiola, direi molto vicino per attitudine alla musica di denuncia dei New Model Army, anche se gli spettri di Clementi e Godano sono sempre dietro l'angolo assieme ai canti di protesta del Teatro degli Orrori e Petrol. Comunque i brani volano veloci, sanguigni, senza fronzoli e nascondono una bella vena poetica, ricercata, evidenziata con il bel video del singolo, "Il Cielo Sopra Rho", geniale ripresa artistica parallela al capolavoro di Wenders. I due bassi sostengono a dovere l'assenza delle chitarre e la ritmica pulsante è padrona indiscussa della scena, linee dirette ed efficaci, non v'è molto spazio per virtuosismi che toglierebbero spazio all'intensità del canto. Le belle canzoni dal titolo, "La Scala di Grigi" o "Dalla Provincia", come del resto tutti gli altri brani, sprigionano rabbia, rammarico e ricordano da vicino certe vette di intensità degli RFT ovviamente rivedute nello stile del trio lombardo. Questo bel lavoro è quanto di più distante si possa immaginare dalle patinate e glamour uscite di Manuel Agnelli & Co. mostrando quanto il sottosuolo lombardo non sia affatto una misera costola di X-factor e non a caso si riallaccia egregiamente all'aspro sentire del capolavoro, 'Lungo i Bordi', mantenendo la tensione di quel disco che ha fatto storia ed insegnato molto al rock italiano. Il suono di questa band non sarà innovativo (cosa comunque che non risulta nei piani della band) anzi ai più risulterà assai derivativo e limitato a livello sonoro ma questo album è fatto, concepito e vissuto con una aggressività contagiosa che non lascia scampo. Da ascoltare. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2019)
Voto: 70

https://www.facebook.com/laikanellospazio/

Golden Heir Sun - Holy The Abyss

#PER CHI AMA: Ambient/Experimental/Drone, Earth, Popol Vuh, Neurosis
Da piccolo amavo esplorare i boschi nei dintorni di casa mia: in realtà più che di boschi si trattava di strisce di verde risparmiate da campi e cemento, ma per un bambino era come entrare in un altro mondo che la fantasia ingrandiva a dismisura e dove il tempo perdeva significato. Una volta mi resi conto dell’arrivo di un temporale solo quando il cielo sopra le cime degli alberi era ormai diventato del colore del piombo e il vento aveva iniziato a fare scempio di rami e foglie: per qualche minuto rimasi immobile, incantato da quello spettacolo al tempo stesso meraviglioso ed inquietante, come se una presenza invisibile stesse manifestando un brusco cambiamento d’umore.

Oggi di quei boschi rimane ben poco, ma l’ascolto di 'Holy The Abyss', primo disco di Golden Heir Sun, mi riporta alla memoria quelle immagini ed un indefinito bisogno di isolamento e contemplazione. Del resto il nuovo frutto del progetto solista di Matteo Baldi, già protagonista in una delle migliori formazioni post metal in circolazione, i veronesi Wows, si configura proprio come un inno in onore della natura, fonte di vita ma anche in grado di scrollarsi di dosso da un momento all’altro questa fastidiosa infestazione di esseri troppo spesso inconsapevoli del fatto di essere solo l’ennesima specie di passaggio su questo pianeta.

Come il precedente 'The Deepest', 'Holy The Abyss' è costituito da un'unica composizione di ben venti minuti di lunghezza che si snoda tra ampie sezioni dominate da atmosfere sacrali, eterei intrecci di chitarra ed esplosioni di dinamica, il tutto concepito come una sorta di rituale catartico volto a ripristinare l’armonia tra l’essere umano e la sua spiritualità più ancestrale. Non a caso, ad accoglierci troviamo il suono oscillante di una campana tibetana affiancata da un lento e malinconico arpeggio di chitarra, mentre da questo ipnotico tappeto sonoro emergono alcuni accordi più duri che si smorzano all’ingresso della voce di Matteo, quasi assorto in un mantra:



“On my hands, Before the Dawn I kneel, in awe.
On my knees, Before the Sun I kneel, in awe.
On my hands, Before the Clouds, I see, rain down.”

Così come l’universo tende inevitabilmente al caos, alla conclusione della “preghiera” corrisponde l’imporsi della chitarra distorta, lanciata in un furibondo crescendo ove il brano aumenta di intensità, raggiungendo il climax al riprendere del cantato, ormai trasformatosi in uno straziante grido:



“Nature is enough, Nature always wins.”

Improvvisamente l’apocalisse sonora si consuma e si disperde come vento: al suo posto riaffiora il vibrare della campana e alcuni tenui accordi che infondono sia un senso di rinnovata quiete che di precarietà, quasi a voler rappresentare il ciclo perpetuo di ordine e disordine che domina il cosmo, nonché il pericolo sempre in agguato degli istinti distruttivi dell’umanità.

Trasporre in note la propria interiorità, le proprie emozioni e suggestioni rappresenta una vera e propria sfida con se stessi, ma a Matteo (non a caso discepolo di maestri quali Neurosis, Godspeed You! Black Emperor e Tool) piacciono le imprese difficili, tanto da concepire questo lavoro come qualcosa che va oltre l’aspetto meramente musicale e che si fonde con altre forme di espressione, allo scopo di coinvolgere l’ascoltatore in questo viaggio introspettivo: parte integrante dell’opera sono infatti le ammalianti coreografie di Giulia, danzatrice che accompagna le esibizioni di Golden Heir Sun, e gli evocativi visual creati da Elide Blind, due componenti fondamentali del progetto che possiamo apprezzare nel videoclip creato per il brano.

Dunque, quale è il messaggio di 'Holy The Abyss'? Una critica ad una vita quotidiana resa sterile dalla superficialità e dalla dipendenza da troppi beni inutili? Un invito a lasciarci alle spalle tecnologia, consumismo e lavori alienanti? Forse. O forse è solo una riflessione su quanto sia meschina l’esistenza senza una presa di coscienza di quanto ci sia di meraviglioso nell’Universo e su quale sia il nostro reale posto in esso. Non basterà a curare questa società malata, ma forse spingerà me a tornare tra i pochi alberi rimasti della mia infanzia e ad inginocchiarmi sulla terra umida mormorando una preghiera:


“Holy the Abyss, free us all.”


(Karma Conspirancy/Toten Schwan/La Speranza Records - 2019)

Suzan Köcher - Suprafon

#PER CHI AMA: Psych/Folk/Rock
La musicista tedesca Suzan Köcher e la sua band pubblicano per Unique Records il secondo disco intitolato 'Suprafon', una miscela di dream pop, folk e psichedelia che ricorda i Velvet Underground ma anche i Fleetwood Mac per la pacatezza e morbidezza dei suoni, oltre che al piacevolissimo ascolto. Proprio la facilità d'ascolto secondo me è il punto di forza di questo lavoro, può funzionare da sottofondo infatti in qualsiasi occasione e non richiede una concentrazione particolare, anzi ha il potere di sciogliere la tensione emotiva e ristabilizzare le emozioni anche se per un breve tempo. Il singolo “Peaky Blinders”, peraltro aperto da un bellissimo video dai toni plumbei e piovosi, è una ballata calma e sognante, le chitarre sono chiare e riverberate e accompagnano la splendida voce di Suzie nella sua passeggiata musicale tra synth melliflui e nuvole sonore. Sentire 'Suprafon' è come andare a fare un picnic in campagna, circondato da campi di grano e raggi di sole, la pacatezza e l’atmosfera sono avvolgenti ed esortano a prendere la vita non troppo sul serio, a divertirsi e pensare positivo. Una song da citare è sicuramente "Night by the Sea" che con il suo dolce incedere tra chitarre acustiche e l’accoratissima linea vocale che sembra rievocare un’atmosfera western, perfetta per la colonna sonora di un film di Tarantino, senza dubbio risulta il mio pezzo preferito del cd. Impossibile non nominare l’incantevole chiusura del disco, la title track "Suprafon", forse la summa delle intenzioni che la band ha voluto riversare in questo secondo disco. Le vibrazioni sixties si sentono prepotentemente, una pulsante linea di basso fa da sfondo ad una ballata rock'n'roll dai toni chill out lisergici e colorati, con un ritornello così catchy quasi a far venire nostalgia della summer of love, di woodstock e degli hippie. Suzan Kocher & co. hanno sfornato un disco altamente godibile, consigliatissimo a tutti gli amanti del folk rock che abbiano voglia di sentire una band nuova dal suono originale e che porti il vessillo della musica sessantiana senza alterarne l’idea originale, ma anzi arricchendola di freschezza e nuove idee. (Matteo Baldi)

(Unique Records - 2019)
Voto: 78

https://suzankoecher.bandcamp.com/