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domenica 9 dicembre 2018

Logrind - Overcome

#PER CHI AMA: Post Grunge/Rock
In copertina, un pianeta dilaniato da ogni genere di umane angherie come metonimia del campionario di emozioni prese in considerazione nello sviluppo del disco. I suoni esordiscono squisitamente grunge-pop primi 90's (i Soul-Asylum-in-carrozza di "Waiting for Your Call"; i Rem-losing-ma-spazientiti di "If You Wanna Cry", ma soprattutto i Pearl Jam-di-Alive di "Alive", forse una sorta di quasi-sequel; oh, ma ve li ricordate i Train?) eppure mutano con impercettibile costanza nella direzione di un melodic antico/moderno ("Hey Guy") o un ultramelodic ancora più moderno/antico ("Stand Tall"), con incursioni arena pop ("Pray For You") e immancabile lentone reggiseno-oriented ("Between Us"). Canovaccio consolidato, professionalità e una produzione precisa e persino pignola. Come dite? Cercavate novità? C'è sempre Brian Eno. Ha fatto un disco nuovo anche l'altro giorno. Sempre che riusciate a reggerlo. (Alberto Calorosi)

(Areasonica Records/Believe Digital - 2016)
Voto: 60

https://logrind.bandcamp.com/releases

sabato 8 dicembre 2018

El Tubo Elastico - Impala

#PER CHI AMA: Psych Rock/Math/Jazz
Chi pensa al classico album di post-rock strumentale, avvicinandosi agli spagnoli El Tubo Elastico, si sbaglia di grosso. L'unica cosa vera è infatti l'essere privo di una guida vocale, cosa che da sempre non mi rende felice, però se vi affiderete anche voi alle cure di questi musicisti provenienti da Jerez de la Frontera, beh credo per una volta uno strappo alla regola si possa anche fare. Perchè questa mia transigenza? Ve lo spiego subito: 'Impala' è un album caleidoscopico che si muove tra mille colori e sensazioni, coniugando il psych rock con il math, il funk ed altre divagazioni jazz che esulano quasi dalle mie competenze, suggestioni esotiche e reminiscenze dal sapore pink floydiano. Ascoltando e riascoltando il cd, sarete certamente più bravi di me a indovinare a cosa o chi i nostri s'ispirano, mantenendo comunque intatta la loro enorme personalità. Il tutto è testimoniato dalla lunga e strepitosa opening track, "Ingrávido", una song che sublima tutto quanto scritto sin qui in quasi dieci minuti di musica, impreziosita anche da qualche tocco di synth. Più calda ed intimista la seconda song, "Antihéroe", con l'elegante epilogo tra chitarra acustica ed elettrica, mentre in sottofondo battono pulsazioni electro. Poi è un crescendo entusiasmante, tra saliscendi ritmici guidati dall'egregio lavoro delle chitarre e da un'elettronica che va divenendo sempre più preponderante. Non è un album semplice 'Impala', ma sia chiaro che potrà regalarvi enormi soddisfazioni, come quelle che si assaporano nelle più sofisticate "Turritopsis Nutricula" prima, dove compaiono delle spoken words, e nelle due parti di "El Acelerador de Picotas (Pt. I Ignición / Pt. II Colisión)" poi. Nella prima delle due song, ammetto di aver temuto si trattasse più di un esercizio di stile che altro, per mostrare l'eccellente livello qualitativo del combo iberico. La tecnica del quartetto è davvero pazzesca e l'inserimento di alcuni ospiti di spicco, sembra elevarne ulteriormente la caratura, in un quadro qui fortemente virato verso il jazz. Nei dodici minuti di "El Acelerador..." mi sembrano invece confluire sonorità latine che ricordano il buon Carlos Santana che vanno a miscelarsi nuovamente col jazz ed una buona dose di rock progressivo, guidato dal basso magnetico di Alfonso Romero (mostruoso in tutto l'album), peraltro responsabile insieme a Daniel Gonzáles - uno dei due chitarristi - delle ottime keys di quest'album. Il massiccio impianto ritmico dell'ensemble spagnolo si completa poi con l'estrosa performance alla batteria e percussioni di Carlos Cabrera e Vizen Rivas all'altra chitarra. "La Avispoteca" ci guida in anfratti musicali che odorano quasi di Medioriente con le strutture percussive ad assumere altre forme e colori assai sofisticati. Sembra di trovarsi nel bel mezzo di un souk arabo, dove tra la calca di gente che affolla strade e piazze, si trovano abili musicanti, che affascinano ed ipnotizzano con la loro musica. L'ultima tappa del nostro viaggio esotico è affidata a "Impala Formidable", un brano che raccoglie tecnica, idee e deliri vari di questi incredibili El Tubo Elastico. (Francesco Scarci)

Absent/Minded - Raum

#PER CHI AMA: Death/Doom/Sludge/Depressive
È il terzo album dei teutonici Absent/Minded che recensisco, mi sono perso solo il debut 'Pulsar', semplicemente perché non li conoscevo ancora. Da 'Earthone' in poi, è stata una progressione nel mio indice di gradimento, che mi ha portato ad apprezzare sempre con grande entusiasmo, le proposte dell'ensemble bavarese. Ora, ecco arrivare la loro nuova release, 'Raum', per capire se le mie attese saranno nuovamente confermate. Sei i pezzi per i nostri, che aprono le danze con le vocals sussurrate di "Deep Roots Aren't Reached by the Frost", accompagnate dal classico rifferama ultra distorto della band e quel growling corpulento che da sempre, caratterizza i quattro musicisti di Bamberg. Come già detto per il predecessore 'Alight', in riferimento all'album precedente, non scorgo sostanziali differenze in fatto di genere proposto, vedo semmai la conferma di una qualità che si assesta sempre a livelli standard assai elevati. C'è chi potrebbe storcere il naso e parlare di immobilismo artistico da parte della band, francamente me ne fotto, preferisco rilassarmi e assaporarmi il suono delle poderose chitarre di Uwe che ama creare ambientazioni death doom per poi piazzarci dentro dei riferimenti legati al mondo sludge/post metal. Ancora meglio la seconda traccia, "Treasure", lenta, disarmante, a tratti spoglia, ma non con quella valenza negativa che può avere il termine. Penso semmai alla desolante propagazione sonica dei Cult of Luna o alla malinconica disperazione degli svedesi Shining, che forse in questo pezzo, hanno più di un punto di contatto con i nostri. E forse proprio in questo risiede la vera novità degli Absent/Minded targati 2018, ossia una maggiore vicinanza al black depressivo. Insomma, mica male mi viene da dire, soprattutto perchè tutto l'album si assesta su livelli medio-alti e perchè i pezzi migliori sembrano concentrarsi poi nella parte centrale del cd, quindi la qualità va aumentando man mano che si avanza con l'ascolto. "Fore-ever" parte assai lentamente, la voce bisbigliata di Stevie sembra quasi cullarci nelle sue struggenti e delicate note, almeno fino a quando il riffing deflagra nella sua pienezza e contestualmente s'accresce sinuosamente anche il ritmo. Con "Shore" si parte invece già belli carichi con una ritmica potente per poi fare il percorso inverso, rallentare in interessanti parti atmosferiche e riprendere con la stessa ferocia di inizio brano. Ci sono le onde del mare a darmi un senso di rilassamento in "Yrtm", dove una sorta di guida spirituale declama i versi della poesia "Funeral Blues" di W.H. Auden. L'ultima song è la lunga "Alpha", nostalgica nei suoi giri di chitarra acustica, ma sempre roboante nelle growling vocals e nel suo mastodontico riffing. Gli Absent/Minded sono tornati e non posso che esserne lieto, perchè la prova è sempre di pregevole qualità. Mi sarei aspettato qualche ulteriore variazione al tema classico (ed è per questo che non li premierò più del dovuto) perchè questi ragazzi hanno il dovere di dare e osare di più. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 75

https://aminded.bandcamp.com/

giovedì 6 dicembre 2018

Entropia - Vaccum

#PER CHI AMA: Blackgaze/Trance/Post, Deafheaven, Thy Catafalque, Lux Occulta
'Vacuum' si candida ad essere uno dei miei dischi preferiti del 2018. La band che l'ha concepito è formata dai polacchi Entropia, che mi avevano già colpito favorevolmente col loro debut album del 2013, 'Chimera' ed in seguito con 'Ufonat'. Perché tutto questo entusiasmo vi chiederete? Perchè a mio avviso la band di Oleśnica ha ereditato lo scettro degli Altar of Plagues, l'ha arricchito con le idee deliranti dei Thy Catafalque, rilasciando un lavoro mostruoso per sonorità, sperimentalismi vari ed espressività, che mi ha fatto letteralmente perdere la testa. Il quintetto in un'ora di musica ed in soli sei pezzi, ne combina davvero di tutti i colori: si parte dagli oltre 15 minuti di "Poison", una song ipnotica che miscela elementi psycho trance con il metal estremo, black, post e tanto altro. È semplicemente follia, quella che vado ricercando da tempo immemore, quella che riempie e centrifuga il cervello, che nei suoi magistrali loop elettronici, pop-algebrici, incorpora tutto ciò che un visionario malato di musica metal, vorrebbe sentire in una canzone. I quindici minuti più destabilizzanti della mia vita, ma si sa che la scuola polacca ha altre band antesignane nel genere e penso ai Lux Occulta e alle loro ultime divagazioni avanguardistiche. Ecco, gli Entropia ci hanno messo tanto del loro, della loro classe che già era emersa in passato et voilà, ecco questo meraviglioso gioiellino di musica ascrivibile al genere sperimentale, avantgarde estremista, o come diavolo volete, a me non interessa. Per me è importante che voi diate un ascolto, anzi due, tre o forse dieci, a 'Vacuum' e al drumming ossessivo di "Wisdom" e alle folgorazioni dettate da non so quali sostanze proibite che hanno portato questi cinque pazzi musicisti a scrivere musica di tale consistenza. Delizia per le mie orecchie, e sarà altrettanto per tutti coloro dotati di una mente aperta, apertissima, perchè il disco non è proprio semplicissimo da affrontare. Citavo "Wisdom", un brano che mette in loop per cinque minuti lo stesso giro di chitarra e synth, prima di esplodere in una tremebonda cavalcata post black che sembra trarre ispirazione però da qualche riff prog rock di anni '70. Il tutto senza utilizzo di una voce (uno screaming peraltro fantastico che fa capolino qua e là nel disco) che farà la sua comparsa solo sul finire del pezzo, quando l'ultima centrifugata ci avrà dato il colpo di grazia. Ecco a cosa somigliano gli Entropia, ad una lavatrice che nella sua centrifugazione più estrema, rilascia splendide note musicali. Come quelle che aprono "Astral", un viaggio sparati nell'iper spazio più profondo alla ricerca di una qualsiasi forma aliena con cui interagire. Certo, la musica degli Entropia potrebbe essere un pericoloso biglietto da visita per la specie umana, gli extraterrestri la considererebbero un'arma pericolosissima visto che la ritmica della song somiglia di più ad un cannone laser. E nemmeno la title track ci dà modo di mostrare l'attitudine pacifica del nostro pianeta, è un'altra arma di distruzione di massa, che rallenta i suoi beat a tal punto da ipnotizzarci di fronte alla ridondanza sonica profusa. Un loop di suoni ed immagini che entrano nella testa e non accennano a lasciarci. Io questo album l'ho consumato, ascoltato decine e decine di volte, le sue melodie ormai le sento sotto la mia pelle, la sua furia belluina risuona nella mia testa, le sue geniali trovate le inserirei in un'ipotetica enciclopedia della musica metal, per spiegare come possono convivere differenti forme musicali sotto lo stesso vessillo. Con "Hollow", i suoni si ammorbidiscono un po', rimanendo nei paraggi di uno space rock malinconico, dove le vocals sono cosi cariche di pathos da far venire la pelle d'oca, grazie soprattutto all'eccezionale lavoro di tastiere e synth che accompagnano la progressione blackgaze che si sviluppa nella sua seconda metà. Gli ultimi dieci minuti sono affidati alle melodie di "Endure" e alla sua debordante quanto arrembante ritmica che sancisce la fine di questo capolavoro di musica estrema, che voglio consigliare anche a chi di estremismi non ne vuol sapere, ma ritiene di avere la mente abbastanza "open" da poter affrontare questa sfida targata Entropia. Album dell'anno per il sottoscritto? Mi sa proprio di si. (Francesco Scarci)

(Arachnophobia Records - 2018)
Voto: 90

https://entropia.bandcamp.com/

Bane - Esoteric Formulae

 #FOR FANS OF: Black Metal, Dissection
Sharing the name of one of Batman's most impotent villains in recent - Christopher Nolan stylized - memory, Bane is your friendly neighborhood black metal band, not-so-recently transplanted into the permafrost of the Great White North to irk those Canucks who say 'ehh', but not enough to the point of lodging any actual complaint. With abundant similarities to Dark Fortress and early Dissection, Bane brings a swath of sounds, all mystified by dry ice and diet black metal in the form of catchy riffs, relentless melodies, and as many allusions to darkness and chaos as one can squeeze into an album. Throughout 'Esoteric Formulae' is a new Bane bringing a sound that continuously promises such chaos but, due to its rigid pacing, some bottlenecks in songwriting, an air of propriety over pummel, and very rehearsed cries into that certain chasm, the chaos is less pronounced as opposed to the stuffy professionalism and strong musicianship presented by these battle-hardened death/black metallers. A bit too preened and perfected to feel raw, intense, and cold, the echoes of loud guitar and swaths of vocals lose the coldness that is mentioned throughout the album in favor of a more hearty expression of metal's guitar power over a dark and evil atmosphere.

Though the lineup featuring session guitarists, an aggressive drummer, and orchestral bookends may make Bane seem like a full-time group on paper, this album and the band's direction is very much dictated by Brainslav Panić, a twenty-eight year old musician from Serbia with a great grasp of the varying finishes of metal that may color an album cover and its various reminiscences. Variety plays out across the board from the more traditional sound of a song like “Reign in Chaos”, which takes a basic and accessible approach bordering on a familiar pop-punkish - think a slower and more accentuated aesthetic to Atreyu's “Ex's and Oh's” - verse in its lead riff, to embracing a sharp and purely evil sound in “Wretched Feast” and “Into Oblivion”. Where these latter two tracks hit the mark, aided by the input of guitarists Giulio Moschini from Hour of Penance and Amduscias from Temple of Baal, Bane's death metal side comes through as a more genuine and enjoyable approach than its lighter and theatrical black metal sound that seems more than a little lost in this wilder neck of the woods.

Employing the classic two-throated mask with high screams and low growls combining to form a mid-ranged hum, the onrushes of hatred in the vocals show themselves as far less drastic than Deicide or imperial as Behemoth, a drama that fails to capture anguish or even hint at the “chaos and confusion” so readily described in the lyrics. Rather, these dulcet invocations of a dark almighty show a larger bottleneck in Bane's formula that becomes as flat as a warm root beer sitting open in a cupholder during the third hour of a summer's road trip.

Fantastic at sinking hooks into an audience early on in each song, Brainslav seems to find trouble elaborating through these tracks with more than a cursory glance at evolution throughout each structure as opposed to eloping with the first bit of inspiration that comes to mind and marrying it to the flow of a three minute exploration of its curves. This makes for clear and obvious distinctions through the album between the traditional tones riffing through “Beneath the Black Earth” and “Reign in Chaos” compared to the shrill imperial intensity of “The Calling of the Eleven Angels” or the melodeath money track “Bringer of Pandimensional Disorder”. With Trivium intersecting with Dark Fortress in the latter, Behemoth opening the album, or NWOBHM taking the reigns to a trot, Bane is not so much building a bridge between death and black metal, but very clearly defining these distinctions without chaining all of these well-explored lands into a domain of Brainslav's chaos to round out these songs in anything more a singular series. This shoring up of borders by territory without unifying each country under a central system results in many disparate adventures but fails to draw together a cohesive direction or any experimental distractions from these one-dimensional songs espousing simply “chaos and confusion” for the “dark ones” with about as much personality and nuance as an interstellar Space Marine shouting “Blood for the Blood God” at every onslaught of orcs.

In spite of its varied song openings, Bane becomes bland as it overtly invokes its 'Esoteric Formulae' by bringing melodic riffs and a standard verse-chorus style buffeted by double bass and languishing with little variation. From this construction comes a structure bearing some striking similarities to Dark Fortress, Dimmu Borgir, and bits of later Nightside Glance, where melody supplants itself as the appealing focus of a band more apt to bathe in moonlight rather than ensconce itself in a cave as percussion blasts religion and tillable land away with a constant creep of impenetrable drumroll artillery. Still, shrillness makes little appearance. Bane's guitars have their tear but, with such wispy and airy delivery, fill the register with a hollow and localized Potemkin bustle that barely populates its soundscape enough to cause cavalcades when engulfed in flame. The side streets are empty, there is little more than the surface to observe, and it becomes a show of strength without the economy of ideas to back up such a faithful front.

Textural issues also plague this album's production. Too many times the snare snaps disappear behind the bassy mix, simply keeping time without finding places to accentuate that animosity so ready to rile an audience. Honza Kapák's drumming sparsely brings the blasting appeal that should show off the speed of the snare, erupting only at title moments throughout each song. This becomes a somewhat disappointing sound that echoes this absence of agency that accentuates the approach of bass behind melody but denies the rapidity and atonality of percussion so purposeful and unforgiving in the standard second wave style of black metal. A hollow hallow, as diametrically opposed to the desire of a band that seeks a professional mix, makes the sound of the underground and something as overproduced as the guitars in this album ruins the overall mix as much as each song's singular approach bottlenecks the release.

'Esoteric Formulae' leaves me feeling blocked by the Berlin Wall, observing through binoculars the failures of an entirely separate society, culture, and system on the other side with which there is no doubt that an even reconciliation will never occur. Constant descriptions of chaos come from an album so hell-bent on sticking to a single-minded prescribed plan that it gives off a feeling of many missing parts in this segregated series of songs, all in need of elaboration and fresh movements to stitch together a memory of this album. But each movement is only able to stick to its system lest they be cut from this path for the corruption it could bring to the integrity of a band that refuses to branch out with more expressive, unique, or devious deviations. The only collapse may come from within to bring about a new day as much as others may naysay such a stalwart and conclusive mindset, and the strength of this barricade ensures the impasse between both the mindsets of musician and its audience.

While Brainslav has his abilities and surely shows them while creating an album ready to reproduce in a live setting, it seems this leader is too willing to marry each idea to a single song without bringing in the plural partners necessary to create harems of harmony in these tracks, those that ensure the modernity and brilliance in blackened death metal that take a band from singularly seeing songs in a straight path to delicately balancing between fluid as well as fluctuation, showing the strength of each element in order to flourish and play with the improvisation that heavy metal is based in.

This is the main issue in 'Esoteric Formulae'. Here is an album rife with potential and proper production, but so brittle in substance and tightly laced that it would flow more elaborately if each song had its repetitive songwriting tropes boiled off and all of these great moments were incorporated into a bite sized snack EP rather than saddled with upholding a full-length meal so burdened by gristle that the first moments of each track are enough to understand the labor of the next three minutes of vicious chewing. Where are the solos in this album? Where are the drastic changes in pace, the nuanced steps that uplift these melodies, and drumming fills that move a song out of its comfortable one-riff verse-chorus cycle? Harmonies gorgeously come through in abundance with flying rejoinders to slice through the helix of guitars, but through the restrained drumming and songwriting that holds together “Beneath the Black Earth”, this is the only place where a solo attempts to make an appearance. Where it could have flown for a time, the segment's creativity is quashed by the flow of harmony rather than allowed a moment of unique expression and individuality. Another guitarist could have taken that place and made it his own. Instead Brainslav is showing slavish adherence to his own 'Esoteric Formulae' and quashing any agency, only allowing momentary space for friends where he would be better off enlisting longstanding allies for a fuller undertaking. Maybe I didn't get the memo, but I expect that somewhere in a bit of “chaos and confusion” there would result in a bit more scattering of multitudes than having each element in this wide berth of musicians and instruments wheel lockstep at every turn like an elite command crushing colonial contingents.

What makes a sharp difference between so many one-man bands against so many full groups is that the one-man situation tends to end up in a bottleneck. Here it shows that even in attempting variety, the bottleneck is in the songwriting department where Brainslav sticks against all odds to his verse-chorus formula, sparse on bridges and even sparser on deviations, while his session musicians show plenty of personality among the languishing and overly-thought flow of this album. Brainslav indulges his melodies well, I don't have to have heard all of his music to understand that as a major strength, but he needs fresh impulses to conduct his flows in order to generate the electricity necessary to power an audience to devotion.

Where Bane does hit the mark is in its unexpected and thankfully expansive places. “Burning the Remains” brings the classic second wave of black metal sound across well with a few death metal guitar crunches to drive the point home, finally bridging a bit of a gap between death and black styles, the vocals even inhaling the scent of a decomposing raven in order to accentuate the cracking knuckles of cold in the guitars, and finding brutality in its melodic melancholy. Such an astute show of force in this song dispels any thought that Bane simply didn't know what sound would make the day, but consciously attempted avoiding it for as long as possible in search of a streamline to keep each song in place. The by-the-numbers sounds in the lighter songs throughout the album make for potent and enjoyable listens totally out of this expected scope as “Burning the Remains” caps a run that made “Wretched Feast” and “Into Oblivion” stand so brutally far out.

The money track, “Bringer of Pandimensional Disorder” has an astounding lead riff. Brutalized by blast beating and harmonized to the hilt, this song cannot help but bring the most memorable moments in the album while so elegantly gliding towards the all-too-forgettable chorus that keeps repeating the title. Great at arranging his music but in need of fresher ideas, this song brings hope that Bane will continue to bring out the best in a riff even in spite of its lacking direction as a piece like this, even on its best footing, ends up in the hands of too many surface sounds rather than digging deeper below a hatred that even Bullet for my Valentine harmonizes about but never really grasps.

Finally getting downright crunchy in achievement of what had been lacking throughout the previous twenty-eight minutes, “Acosmic Forces of the Nightside” allows the guitars to flow from gritty riffing moments into melodies through a beautiful interplay, flirting with the arena style of NWOBHM, and showing that Brainslav can concoct an expansive sound with a bit of edge to it. There is hope on the horizon that Bane can be coaxed into this more varied, improvisational, and complex creativity rather than simply sitting on a single sound as though it will get up and bite the band's backside. If the rest of the album had this sort of approach, I would be much more receptive to 'Esoteric Formulae' due to its progressive propensities rather than relentless restrictions. Rather, things are the other way around and Bane is far too enamored with sticking to 'Formulae' without too many sprinklings of the 'Esoteric', ending up playing host to too many insipid bottlenecked moments that fail to make a memorable impact, sightseeing in the realm of accessibility without much exploration even there, in spite of its incessant invocations of dark deities.

Fomulaic in substance and barely esoteric in aesthetic, Bane seems to be living far too in kind with one of its homonyms. Bane finds its esoteric aesthetic hampered by too many power metal moments dulling its blade and making more theater out of its sacrificial show than conjuring the forthright notions of the reclusive ritual for which black metal is better known. Even in its darkest hour, 'Esoteric Formulae' is far too accustomed to the rays of the Sun, burning off its thin atmosphere as well as its poisonous potency. Luckily, there are no egregious moments of cringe on this album but it also seems like that sort of zealous venture out on a limb wouldn't have ever entered the members' minds going into the album either. Brainslav could do well to find ways to express himself with more variety between each hook and chorus so as to avoid pigeonholing each track into a single tone and direction. Though the album employs variety in its approaches, it doesn't take them much farther than these basic beginnings, which comes across as though a flat trajectory results from each song's blast off and ends up without atmosphere or compelling reasons to stick around after the first thrust of melodies is exhausted. Surely there is more on the cutting room floor than made it into this release because this album can't help but feel like it is missing many pieces. (Five_Nails)

(Black Market Metal Label - 2018)
Score: 75

https://baneband.bandcamp.com/album/esoteric-formulae

lunedì 3 dicembre 2018

Moonfrost - III

#PER CHI AMA: Black/Death, Celtic Frost
Ci hanno impiegato ben sei lunghi anni gli svizzeri Moonfrost per tornare sulle scene, con il seguito discografico di quel 'Starfall', che non aveva pienamente convinto gli addetti ai lavori, per quel suo sound che integrava influenze provenienti dal black scandinavo di anni '90 con il cosmic black metal dei connazionali Darkspace. Oggi, il quartetto di Solothurn torna con questo nuovo 'III' un numero che sta ad indicare il loro terzo full length, in oltre dieci anni di carriera. Il sound di questo  lavoro sembra però virare verso altri lidi, se lo compariamo alle performance passate del combo elvetico. Interessante senza ombra di dubbio, l'approccio stilistico di "Too Drugged to Dream", cosi intenso ed elegante a livello ritmico, ma ancora sgraziato a livello vocale. Parlare di black metal qui però mi sembra quasi una forzatura, potremo infatti citare gli Enslaved come influenza principale, anche se le chitarre cosi oscure, sembra vogliano evocare lo spettro dei Celtic Frost. Più ritmata la seconda song, "Frontier Spirit", una traccia che evidenzia la dissonanza a livello chitarristico quale marchio di fabbrica dell'act svizzero che palesa tuttavia un certo desiderio ad abbandonarsi a sfuriate dal sapore post black. Con "Transitions" le cose cambiano ulteriormente e ciò che mi preme sottolineare qui, è invece la performance a livello solistico in un squarcio chitarristico da applausi. La song prosegue poi in quel suo sporco lavoro, in grado di bilanciare egregiamente estremismi sonori (decidete un po' voi se death o black) con suoni commutati da influenze dall'orientamento progressive, che rendono il lavoro di sicuro interesse, ma ancora un pochino difficile in fase digestiva. Forse il classico rimedio della nonna, un po' di bicarbonato per intenderi, potrebbe tornarvi utile per assimilare al meglio la musica dei Moonfrost, ma tranquilli perchè il quartetto viene incontro alle nostre esigenze e confeziona una quarta traccia, "Obsidian", più abbordabile e magnetica, almeno nella sua prima lunga metà; la seconda parte, più dirompente, mostra una certa versatilità di fondo dei nostri nello sperimentare suoni che danno largo spazio al basso, in frangenti dal sapore post punk che chiamano in causa gli An Autumn for Crippled Children. Ecco cosa intendevo per virata stilistica all'inizio di questa recensione: i Moonfrost non sono rimasti con le mani in mano in questi sei anni e hanno sperimentato a tutto tondo cosa il proprio sound aveva da offrire per risultare più interessante. Detto che anche le successive "Doors of Perception" e l'ispirata "Beyond Death" confermano questo trend, vorrei aggiungere che quello dei Moonfrost sembra un cantiere ancora aperto, in cui l'ensemble svizzero sta lavorando alacremente per trovare una propria identità ben definita. Non posso che essere lieto di questa mutazione in seno alla band, che mostra anche nelle conclusive e atmosferiche "Halcyon" e nella rockeggiante "Thorns for a Dying Day", la loro volontà di inseguire qualcosa di originale e al passo con i tempi. La strada imboccata è di sicuro quella giusta, e lo sprono che posso dare io è di smussare quelle spigolature nel sound che rendono la proposta dei Moonfrost ancora a tratti ostica da affrontare. Partirei col ridurre la componente vocale dando maggior spazio alla musica atmosferica che a più riprese nel corso di 'III' sembra emergere. Migliorerei anche la pulizia a livello dei suoni e la loro coesione, per il resto rimango dell'idea che questi ragazzi del nord della Svizzera, hanno tutte carte in regola per poter emergere dalla massa. Per ora il mio è un voto un po' al ribasso uno stimolo a fare molto meglio in futuro, senza dover necessariamente attendere un altro lustro per ascoltare una nuova release targata Moonfrost. (Francesco Scarci)

sabato 1 dicembre 2018

Kevlar Bikini - Rants, Riffage and Rousing Rhythms

#PER CHI AMA: Punk/Hardcore
Era da un po' che non ascoltavo del buon punk/hardcore e devo dire che l'ultima fatica dei croati Kevlar Bikini è arrivata a puntino. Nati come quartetto a Zagabria nel 2010, i Kevlar Bikini hanno prodotto un paio di buoni album e dopo essersi ristretti in un trio, hanno da poco pubblicato 'Rants, Riffage and Rousing Rhythms' grazie al legame con la Geenger Records. Il packaging non smentisce lo stile perpetrato dalla band, un jewel case con una grafica in stile collage che vede un ninja che stende a calci un avversario mentre un occhio gigante fa da sfondo e vigila sul combattimento. Ci troviamo di fronte a dieci brani brevi ed intensi, appunto una raccolta di sproloqui, riff e ritmi trascinanti, dove i primi sono caratterizzati dal cantato forsennato del vocalist che si fa gonfiare le vene del collo fino a farsele esplodere come in "Clerofashionistas". L'intro sommessa ed oscura lascia piano piano il posto al palm muting di chitarra che cresce fino all'esplosione ritmica, con un susseguirsi di riff rabbiosi e corposi che non hanno niente a che fare con lo stile minimalista e scarno di molte band del genere. Un brano che scorre in un attimo e lascia posto a "Nailbiter Blues" che per poche battute ci inganna spacciandosi per un pezzo black metal, ma l'illusione dura poco e si va nella direzione prestabilita, relegando questo omaggio a brevi break disseminati nei quasi quattro minuti di canzone. Lo stile dei Kevlar Bikini convince sempre di più, grazie anche agli arrangiamenti ben fatti e alle influenze noise/metal dei nostri. I pattern furiosi di batteria macinano battute su battute, mentre la timbrica del cantante assomiglia sempre di più a carta vetrata dalla grana grossa e urticante. L'esperienza dei nostri amici croati si fa sentire in ogni passaggio, break e allungo, mescolando sapientemente le loro idee e fregandosene delle influenze che si portano dietro come un cantastorie errante. Il miglior brano è sicuramente "Homo Rattus" che unisce desert/psychedelic/grunge rock in un'atmosfera da film western, dove il sole acceca e la sabbia si infila in ogni orifizio accessibile. La chitarra gioca su una melodia briosa alla maniera di Josh Homme, per poi allungarsi verso power cord onirici, poi il tutto si mescola e si rincorre, dando luogo ad una traccia quasi interamente strumentale lontana dall' hardcore/punk ascoltato fino ad ora. L'entrata del sax però spiazza tutto, esibendosi in un assolo al fulmicotone, semplice ma non toglie che sia un tocco da maestri. Tutto si chiude com'era iniziato, lasciandoci soddisfatti e allo stesso tempo stupiti davanti a cotanta bravura. Non sappiamo se tre è meglio di quattro, ma i Kevlar Bikini sono cresciuti alla grande e sono pronti per far parlare di sè. (Michele Montanari)

(Geenger Records - 2018)
Voto: 80

https://kevlarbikini.bandcamp.com/

Istina - Revelation of Unknown

#PER CHI AMA: Depressive Black, Burzum, Xasthur
Nel 2014, mi ero preso carico di recensire il debut album dei russi Istina, un disco quel 'Познание тьмой', che conteneva un black furioso frammisto a parti atmosferiche. Ebbene, a distanza di quattro anni da quel lavoro, mi ritrovo fra le mani il nuovo cd del gruppo di Krasnoyarsk, 'Revelation of Unknown', cosi come tradotto dal cirillico in inglese dalla band stessa. Ben dodici pezzi per 70 minuti di musica fatta di sonorità mortifere che proseguono quanto iniziato con il loro debut. Tutto è molto palese sin dall'introduttiva "At the Peak of Madness", una scheggia di tre minuti e mezzo di black ferale che scarica parte della sua nera energia distruttiva in un breve atmosferico break centrale. E quando parte "Decayed Threads", il registro non sembra mutare troppo: il treno ritmico riprende alla grande tra blast-beat e ritmiche ribassate, ma dopo un minuto ecco lo stop a smorzare gli animi per almeno 30 sec di reminiscenze burzumiane. Poi la veemenza dei nostri riparte verso sconosciute mete lontane, ove fare sporadicamente pause, emananti forti sensori tastieristici cari al buon vecchio Conte Grishnackh. Il black degli Istina, come già scritto in passato, paga un grosso dazio alle prime release di Burzum, palesando anche qualche ulteriore influenza di scuola Xasthur. Inevitabile che un lavoro di questo tipo non possa aprirsi a grandi palcoscenici, il sound è troppo oscuro e parecchio incazzato, lo screaming ferale di N., uno dei due musicisti dell'ensemble russo - l'altro è M., non agevola l'ascolto ai profani del genere, quindi il mio consiglio è indirizzato a chi simili sonorità, le mastica già da tempo. E se "Alien One" è un litanico e doomeggiante pezzo, ipnotico quanto basta per indurci a paranoici pensieri, con la brevissima e drammatica "Awakening", la band prova ad introdurci ad ancor più insalubri anfratti della psiche umana. "Solitude" è un pezzo lento, su cui s'inseriscono le vocals ululanti del cantante, e in cui il depressive black si mostra in tutta la sua stentorea decadenza, tra ammiccamenti a Shining (quelli svedesi, mi raccomando) e ambientazioni da incubo. Non è un lavoro semplice da digerire, lo scrivevo quattro anni fa, lo confermo oggi. Gli Istina sono portatori di tenebrose ed orrorifiche ambientazioni (le strumentali "Contemplation of Mysteries" e "Perfect Shining of Darkness" nesono un esempio), ma anche di violente scariche che sembrano addirittura provenire dal punk, come quanto si sente nell'arrembante title track, una song che sembra però risentire di un certo caotico sound primordiale nelle sue linee di chitarra, il che la rende assai più ostica da assimilare. Ancor più spaventosa in fatto di violenza emanata, "Losing Control", dove i nostri sembrano davvero perdere il controllo della loro diabolica proposta, con sonorità glaciali, a tratti al limite del brutal death. Turbato emotivamente da simili sonorità, mi avvio all'ascolto delle ultime tracce: "Stopping Time" mette il freno alla violenza sin qui dissipata dall'act russo, con una proposta più controllata, all'insegna di un black doom ritmato e angosciante. Gli oltre dieci minuti di "The Return" e i lugubri minuti rimanenti affidati a "Ruins of Innermost", condensano un po' tutto quanto sentito sin qui in questo 'Revelation of Unknown', un lavoro fottutamente malvagio, riservato solo a pochi intimi fruitori di sonorità dannate. (Francesco Scarci)