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giovedì 22 novembre 2018

Runeshard - Dreaming Spire

#PER CHI AMA: Orchestral Dungeon Metal, Bal Sagoth
Chi si ricorda dei Bal Sagoth alzi la mano: bravi, è una black metal band inglese, capitanata da Lord Byron, concentrata su temi prettamente fantasy che trattano di civiltà barbare nate "prima di Atlantide", re-guerrieri, necromanti e sacerdoti di terrificanti divinità legate all'immaginario orrorifico di H.P. Lovecraft. Perchè questa mia introduzione? Perchè l'ensemble di oggi sembra essere posseduto da quello spirito chtuliano che caratterizzava Lord Byron e soci nei loro lavori. 'Dreaming Spire' è il debutto assoluto dei Runeshard, anche se Bálint Kemény, uno dei due membri, milita anche in Astur, Elanor e Ignotus Enthropya. L'EP consta di tre pezzi più "The Coronation", una bella intro suonata con l'organetto. Ma è dalla seconda song, la title track, che le cose divengono palesi e la vicinanza stilistica con gli albionici, quasi plagio. I pomposi synth sembrano infatti provenire da uno dei fatati lavori dei Bal Sagoth, penso in particolare a 'Battle Magic' e alle sinfonie magniloquenti in esso contenute. Analogamente, la traccia dei Runeshard srotola quasi sei minuti di sonorità epico-sinfoniche, il cui tema sembra strettamente collegato con draghi e castelli incantati, cosi come certificato anche dall'artwork di copertina. La musica pertanto qui, come nelle successive "Crimson Gates" e "Atlantean Sword", si muove su riffoni heavy - no, non posso dire black - montagne di dungeon synth ed orchestrazioni trionfali, suoni da menestrello e vocalizzi che si alternano tra un growl graffiato e calde voci pulite, in 17 minuti votati a battaglie insanguinate per salvare la nostra principessa dal perfido incantesimo di un mago o presunto tale. Che la saga dei Runeshard abbia pertanto inizio, spero solo che, a differenza dei Bal Sagoth, i nostri possano trovare più variazioni al tema, che alla lunga rischia di stancare notevolmente. Intanto, fiato alle trombe e godetevi questo 'Dreaming Spire'. (Francesco Scarci)

mercoledì 21 novembre 2018

Avast - Mother Culture

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Deafheaven
Sono passati quasi due da quando recensii il primo album dei norvegesi Avast. Era infatti il 25 dicembre del 2016 quando pubblicammo, sulle pagine del Pozzo, la recensione dell'EP omonimo della band. Due pezzi che mi avevano colpito per quella loro selvaggia ed inquieta emotività di fondo. Oggi, i ragazzi di Stavanger tornano con un nuovo capitolo, 'Mother Culture', che tocca temi scottanti e d'attualità come quelli dei cambiamenti climatici, che cosi da vicino ci stanno coinvolgendo, dagli incendi della California alle concomitanti furibonde nevicate della East Coast, arrivando alle devastanti calamità che da poco hanno colpito anche il nostro paese. Su questi temi e il rapporto natura-uomo, ecco insinuarsi la musica degli Avast, attraverso sei pezzi di un blackgaze che risponde con forza e convinzione alla proposta degli statunitensi Deafheaven. Tutto questo è assai palese sin dall'opener, la title track, che si prende la grande responsabilità di aprire l'album. Signori chapeaù. La song è debordante, una maligna cavalcata post black (e con qualche ricamo hardcore), che nei suoi attimi di quiete, cede ovviamente il passo ad aperture eteree degne del miglior post rock d'autore e ad atmosfere che ricordano da vicino quelle degli Alcest. Un pezzone insomma, che trova conferma nell'esplosività di "Birth of Man", passando però prima attraverso le ispirate note strumentali della suadente e splendida "The Myth". La terza traccia conferma tutto l'ardore palesatosi nell'opening track, forse qui ancor maggiore; ci pensano però i break acustici a spezzarne la furia e stemperarne gli animi. E le chitarre tremolanti del duo formato da Ørjan e Tron, abbinate al drumming furente di Stian ed ai vocalizzi al vetriolo di Hans (peraltro anche bassista), rendono 'Mother Culture' un disco davvero degno di nota. "The World Belongs to Man" ha un piglio decisamente più orientato verso il post metal: affascinanti le linee melodiche, le ferali urla del frontman, cosi come le sfacciatissime accelerazioni post black di metà brano e il malinconico tremolo picking nella seconda parte del pezzo, in una salita emotivamente incandescente che avvicina i nostri ai miei preferiti di sempre, i nostrani Sunpocrisy. Arriviamo nel frattempo a "An Earnest Desire", song dalla quale i nostri hanno estratto il loro notevole video in bianco e nero, un viaggio dall'alto su desolate spiaggie, accompagnato dalle splendide sonorità blackgaze del quartetto norvegese. Ahimè, siamo già all'ultimo pezzo e "Man Belongs to the World" sancisce quel doppio filo che vede l'uomo legato alla natura e viceversa, in un'ultima galoppata, decisamente più ritmata delle precedenti, dove l'essere più controllati non significa per forza essere meno convincenti. Forse il pezzo perde un po' in fatto di imprevedibilità, ma il bel break acustico a metà brano, mette d'accordo tutti sulla qualità eccelsa degli Avast (anche in termini di produzione) e non fa altro che aumentare il mio desiderio di ascoltare quanto prima una nuova gelida proposta musicale dei quattro scandinavi. Nel frattempo, vi suggerisco di procedere in ordine, ascoltare il debut EP, e poi consumare questo 'Mother Culture' nel vostro lettore preferito, non ve ne pentirete di certo. (Francesco Scarci)

(Dark Essence Records/Karisma Rec - 2018)
Voto: 80

https://avastband.bandcamp.com/

martedì 20 novembre 2018

From Ashes Reborn - Existence Exiled

#PER CHI AMA: Swedish Death, Amon Amarth, primi In Flames
Formatisi appena nel 2017, i From Ashes Reborn arrivano velocemente alla release del primo album, questo perchè i nostri non sono certo degli sprovveduti, avendo la formazione, per 4/5, militato in precedenza nei deathsters Badoc. Dalle ceneri di quella band, ecco quindi risorgere il quintetto che vede l'aggiunta in line-up di Ronni, il nuovo vocalist. Il risultato è 'Existence Exiled' e le otto song in esso contenute. Le danze si aprono con le melodie sognanti dell'intro "The Onerous Truth" che in poco più di un minuto consegna a "Fight for the Light" il compito di aprire ufficialmente le danze, in modo più efficace. Presto detto, la band inizia a macinare montagne di riff fumanti, strizzando l'occhiolino al melo death di matrice scandinava. Non mancano pertanto i riffoni roboanti, i break acustici, le growling vocals e le immancabili linee di chitarra un po' folkish che guardano ai primi In Flames ma anche agli Amon Amarth. Ce n'è per tutti i gusti, basta solo accomodarsi e prestare un po' di attenzione alla proposta dei nostri musicisti teutonici e provare a non farsi schiacciare dalla loro furia vibrante, soprattutto quella contenuta in "Follow the Rising", un brano energico (pure troppo a livello di drumming) e ficcante, che soffre il solo problema di voler imbastire la linea ritmica con un po' troppe cose correndo il rischio di sovrassaturare il sound. Questo torna fortunatamente ad essere più intellegibile nella sua esaltante sezione solistica, davvero da urlo. "The Essence of Emptiness" apre un po' nel modo dei vecchi album di Anders Friden e soci, con un bell'arpeggio su cui poi si poggiano un riffing corposo e la bella voce in growl di Ronni, in una song incisiva dall'inizio alla fine. Si può dire altrettanto della breve schiacciasassi "Infected", incazzata e roboante nel suo incedere sempre comunque pregno di melodie che rendono per lo meno il disco piacevole da ascoltare, soprattutto a livello di solismi, sempre davvero ineccepibili e coinvolgenti. Un po' più tradizionale ed incentrata su un mid-tempo invece la title track, con nessuno spunto davvero degno di nota, se non i vivaci virtuosismi alla sei corde che davvero donano parecchio brio al pezzo. Il bombardamento prosegue in "Homicidal Rampage", un altro buon brano che necessita ancora di uno snellimento a livello ritmico per risultare più centrato; qui da sottolineare un riffing più marcescente che si fa ad altri classici spinti al versante death metal, mentre la coppia di asce prosegue il proprio dibattimento in fatto di supporto ritmico+assolo. Demoliti da quest'altra carneficina, arriviamo all'ultima "The Splendid Path", gli ultimi tre minuti e mezzo strumentali che chiudono con eleganza 'Existence Exiled', un disco interessante che abbisogna, come dicevo, di un maggiore alleggerimento a livello sonoro per evitare quell'effetto caos che talvolta si respira durante l'ascolto del disco. Per il resto, direi che siamo sulla strada giusta. Un'ultima cosa, dimenticavo: la produzione di 'Existence Exiled' è stata a cura di Markus Stock (Empyrium, The Vision Bleak, Sun of the Sleepless) nei Klangschmiede Studio, mica l'ultimo degli sfigati, pertanto non sottovaluterei fossi in voi questo lavoro. (Francesco Scarci)

Petrolio - L+ES

#PER CHI AMA: Experimental/Noise/Ambient
Petrolio: non esiste monicker migliore per il progetto avviato nel 2015 da Enrico Cerrato (già con gli Infection Code, Moksa e Gabbia Inferno), una miscela in precario equilibrio tra ossessioni industriali alla Godflesh ed esplosioni harsh noise in grado di proiettarci in un mondo oscuro ed estraniante. Descrivere le emozioni che ci trasmette l’ultima fatica, dal titolo 'L+ES' (letteralmente “Le Esistenze”), nata in collaborazione con altri sei artisti del panorama sperimentale (Aidan, Sigillum S, Arbeit, Mai Mai Mai, Fabrizio Modenese Palumbo e Nàresh Ran, ognuno dei quali contribuisce a due delle dodici tracce dell’album), rappresenta una vera e propria sfida, in quanto la potenza di questa marea nera è tale da costringerci ad una continua lotta per non essere sopraffatti. Questo viaggio negli abissi sonori che rappresentano le nostre vite alienate comincia con “Ne Tuez Pas Les Anges” (ft. Aidan), una lenta marcia tra desolanti effetti ambient, tastiere grondanti tristezza e ritmiche meccaniche, efficace preludio alla definitiva immersione nel tunnel industrial-noise di “La Maladie Connue” (ft. Sigillum S), inesorabile come un male fisico. In “Scindere 2 Animes” (ft. Arbeit) la tensione è portata agli estremi da un crescendo di austere note di piano e rumori indistinti che a sorpresa si evolvono in una diafana melodia piena di malinconia, forse presagio di un pronto ritorno a galla sulla spinta della batteria saturata e degli scroscianti synth di “Fish Fet” (ft. Mai Mai Mai). Petrolio ci rivela l’inganno facendoci nuovamente sprofondare con la maestosa estridente “L’Eterno non è per Sempre” (ft. Fabrizio Modenese Palumbo), un pezzo che potrebbe tranquillamente far parte della colonna sonora di un film di Lynch e che ci avvia alla parte più disturbante dell’album: “Ceralacca e Seta” (ft. Nàresh Ran) è una finestra aperta sull’abisso di una nevrosi da cui sgorgano disperati farfugliamenti, seguono il caos rumoristico e i feedback maligni di “Heilig Van Blut” (ft. Aidan) e la martellante “Peregrinos De Almas” (ft. Sigillum S). Stiamo per toccare il fondo, la quiete della superficie è solo un vago ricordo evocato dai miraggi sonori di “Wood and the Leaf Rite” (ft. Arbeit): ciò che resta di noi, ormai schiacciato da un peso opprimente, si ritrova a vagare nei sepolcrali bassifondi di “Cut The Moon” (ft. Mai Mai Mai) e “Ojos, Eyes and l’Ecoute” (ft. Fabrizio Modenese Palumbo), alla ricerca di una qualche fonte di luce che si può solo intravedere in mezzo alla pioggia battente di effetti ambientali e percussioni ossessive. Il pachidermico groove di “Vuoto a Perdere” (ft. NàreshRan) ci riporta ad una realtà ancora più tetra dell’incubo: è l’allucinante grido finale che esplode nella cacofonia della nostra quotidianità quando la sopportazione giunge al limite (“è come se qualcuno mi spingesse o mi tirasse giù”), la voce dell’Es (forse richiamato nel titolo) che erutta spazzando via ogni repressione e tentativo di controllo conducendoci alla pazzia. In questo suo lavoro (la cui edizione fisica vedrà le tracce separate su due supporti, dalla 1 alla 6 su vinile e dalla 7 alla 12 su cassetta), Petrolio arricchisce il suo nero fluido col contributo di ogni ospite, dosandolo ed amalgamandolo come un alchimista, fino ad ottenere un vero e proprio elisir del disagio esistenziale: 'L+ES' non è certo l’album da ascoltare durante una bella giornata di sole in compagnia, bensì una prova da affrontare in solitudine, che vi sbatterà in faccia ogni vostro malessere a cui solo i più forti riusciranno a sopravvivere. (Shadowsofthesun)

(Audiotrauma – 2018)
Voto: 90

https://petrolio.bandcamp.com/releases

sabato 17 novembre 2018

Gutwrench - The Art of Mutilation

#FOR FANS OF: Death Metal, Autopsy
A very short-lived death metal band from the early days of the subgenre, Gutwrench is the Dutch response to a steadily fragmenting series of death metal styles at the time. With its cohesive and crushing sound, the band harnesses the unhinged intensity of New York death metal, the speed and screaming treble of the Florida sound, and the cavernous horror hiding Sweden's sickness. 'The Art of Mutilation' is a compilation and re-release of the two demos that Gutwrench had delivered within a year and a half period from March of 1993 to September of 1994. The first five tracks comprise 'Wither Without You' while 'Beneath Skin' makes up the final six tracks. Between both of these demos is a previously unreleased song, “Asphyxia”, that serves as a strong transition between these two distinctly different demos.

'Wither Without You' is the exact sort of filthy, meaty, thickly textured metal that spreads teeth and sticks deeply into gums and ribs. Whereas a slice of early rhythm in “Meatlocker” would see its cousin come up in Lamb of God's “In the Absence of the Sacred”, Gutwrench throws that sound into a dike filled with sewerage as the quintet quashes any notion that the percussive New York style was a fluke. Emerging in 1993, this cavernous and hammering cassette was initially distributed by Displeased Records, a company that would also go on to sign the likes of Nile, Cryptopsy, Deeds of Flesh, Disgorge, and plenty of other easily dropped names that pad many a metalhead's collection. Displeased seems to have known the direction the sound would take over time but somehow Gutwrench got lost in the race.

Gutwrench's sound is not only a fascinated with the viscous 'Effigy of the Forgotten' swamp that had overtaken the death metal world at the time, but it provides the variety necessary to keep its sound fresh and appealing with some Swedish as well as Florida licks along with a good sense of flow and groove making “Crawl” live up to its namesake. A great harmony setting off “Necrosis”, sounding a bit bluesy and plenty doomy with some melancholic flair, achieves the pummeling style that we all know and love as it malignantly mutates. However, in Autopsy fashion, Gutwrench drags the song into the dirt so that skin can fester and maggots can feast, malleting those 'Mental Funeral' moments into a coffin fit for an infant.

Gutwrench enjoys the call and response of scraping strings as cymbals storm through the milliseconds between them, creating an unhinged sound that grooves as much as it growls. This makes the storm of guitars in the title track crash with a thick backdrop of swirling cymbal winds and stomp on paper cities like a '50s Japanese monster. The rudimentary beginnings of this band show the strength of death metal's direction through the early '90s, one that relied on raw talent and beastly riffage rather than focusing on production value and incorporating tropes from other styles to create an exquisite sound that grabs an ear. Gutwrench is sheer aggression pushing its limits and making mincemeat out of its audience, fitting seamlessly into its time and unfortunately having been lost by the wayside during its hangover.

'Beneath Skin' comes right out the gate bearing some some striking moments with a most familiar shrill scream across the treble, rising in a harmony, that has me thinking of later more accessible bands and takes its middling pace a step or two into melodic death metal territory as it leans more towards the Gothenburg style that, by 1994, was firmly planting itself. At its heart though, Gutwrench is still a death metal band that thrashes its way 'Beneath Skin' and stomps on the exposed bones of the “Scarred and Hollow”. An overflowing putrescence of riffing and blasting makes such a dissection drown in reverberating muck before finding a rise in an echoing flying riff joined by double bass and pounding snare to make the most encompassing moments in the production erupt from their elaborate catacombs like a startled swarm of bats. Simultaneously gorgeous and treacherous, the massive and meaty “Cain” brings that New York crush to the fore before brutalizing a melody until a snippet of soloing brings this frenzy rampaging to bloody conclusion featuring a slight hint of the synth that Enslaved would ride into nihil nearly a decade later in “The Dead Stare”.

Like the obscurity in which these demos reside, the members of Gutwrench maintained marginal roles in the death metal underground with guitarist Edwin Fölsche being the only member to come up again in as recognizable a band as Pentacle, playing guitars on the 1996 EP 'The Fifth Moon'. In all, Gutwrench seemed to have moved on long before the turn of the millennium and the beginning of this new era where underground sounds are so easily accessed and finally giving this band its deserved due. Dirty, corroded, and very much a product of its time, Gutwrench's short output is as enjoyable as it is a time capsule, filled with gems from decades past and buried in the rough underground but entirely worth being unearthed. (Five_Nails)

Julinko - Ash Ark/Sycamore Tree


#PER CHI AMA: Dark/Drone
È una raccolta di canti rituali e melodie decadenti quella di Julinko, Giulia Parin Zecchin all’anagrafe, il tutto contornato da caleidoscopici arrangiamenti di chitarra in un riverbero perenne e ancestrale. Un progetto coraggioso a livello sonoro, 'Ash Ark' più che un ascolto richiede un totale abbandono ai suoi rituali e ai suoi ambienti sacri dal sapore dimenticato e solenne. Ciò che più si avvicina ad un brano, come siamo abituati a sentirlo è quello, penso ironicamente, nominato "Ghost Track" che vede la partecipazione di Carlo Veneziano alla batteria. Il riff ha delle reminiscenze pink floydiane, più precisamente barrettiane, sia nello stile compositivo che nel suono di chitarra. Saranno stati i lidi veneziani in inverno con la nebbia e l’umidità che entra nelle ossa, ad ispirare questa piacevole volata psichedelica che non perde l’incanto mistico in una delle più belle performance vocali del disco. Mi vengono in mente quegli scenari alla 'Eyes Wide Shut', le stanze inaccessibili e le cerimonie segrete, l’incenso bruciato, le maschere e le tuniche decorate, oggetti dorati ovunque e grandi arazzi alle pareti. Tuttavia c’è anche qualcosa di molto più primitivo della massoneria, basta ascoltare la traccia "Transumanar" per trovare tracce di antichi sacerdoti sciamanici di una qualche tribù amazzonica dimenticata da millenni ma che ognuno di noi, inspiegabilmente, sente familiari. Dopo 'Ash Ark' è uscito il singolo "Sycamore Tree", una ballata acustica in stile Nick Cave, dove la voce di Giulia, di una spettrale bellezza, si fa strada in un ambiente cupo e melanconico. Si parla di morte e di immortalità, di transizione verso l’aldilà; il "Sycamore Tree", l'albero del sicomoro, è presente nei miti egizi ed ebraici utilizzato appunto per facilitare il passaggio dell’anima da questo mondo al prossimo, e la canzone, nel suo funereo evolversi, trasmette una sensazione di sospensione e di profondo struggimento, senza perdere quella caratteristica, sempre presente e pertanto fortemente distintiva, dell’artista. Siamo davanti ad un progetto da non perdere di vista perché credibile, non comune e ben curato in tutti gli aspetti; Julinko è una sacerdotessa oscura dalla voce cristallina, capace di ipnotizzare ed incantare l’ascoltatore nelle sue spire sonore, ove dolcemente vi troverete immersi in un mondo tra il fantastico e l’ignoto e farete molta fatica a trovare la volontà e la forza di tornare indietro. (Matteo Baldi)

Strunkiin - The Joy of Creation

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Io francamente non me lo ricordavo, ma Bob Ross fu un pittore che divenne famoso per aver creato il programma televisivo "The Joy of Painting" tra il 1983 e il 1994, che insegnava ai telespettatori, a dipingere delle scene naturali con la tecnia dell'olio. Morì all'età di 52 anni a causa di un linfoma. Questa premessa perchè 'The Joy of Creation', secondo album dei finlandesi Strunkiin, vuole essere un tributo proprio a quell'artista che evidentemente influenzò i nostri con quel suo approccio artistico, qui applicato alla musica. E allora non ci resta altro che socchiudere gli occhi e provare ad immaginare quei paesaggi: "Island in the Wilderness" e le sue ariose tastiere mi conducono in assolati paesaggi montani, penso a quelle distese infinite di radure e foreste che caratterizzano le zone più remote della Finlandia in cui è la natura a governare. Meravigliose le melodie black che guidano il brano, il suono degli animali, di voce non v'è traccia, mi sembra quasi di vedere renne e alci scorrazzare per le lande innevate e le aquile scrutare il mondo dall'alto. La colonna sonora di tutto questo è quella contenuta negli otto minuti dell'opener, tra saliscendi di un black atmosferico assai interessante. "Northern Lights" richiama ovviamente l'aurora boreale e quei magici momenti che caratterizzano la visione di quell'unico evento naturale. La musica si muove veloce, come se fosse guidata dallo sfarfallio delle luci del nord nel cielo stellato, tra improvvise accelerazioni ricche di blast beat e momenti più soavi, in cui le tastiere assumono il ruolo cardine nell'economia del brano, talvolta animato da un tumultuoso riffing in grado di intersecarsi con momenti più calmi, guidati da un tremolo picking malinconico. Lo stesso mood nostalgico apre in acustico "Blue Ridge Falls", una song che miscela il black con un sound etereo, ricco di orchestrazioni e attimi di quiete, ove in sottofondo è sempre il verso di uccellini a tener banco. Poi largo spazio a splendide incursioni melodiche, tocchi di pianoforte e meravigliose vallate (come quelle dell'artwork) riempiono i miei occhi. Il suono dell'acqua apre "Crimson Tide", poi chitarre taglienti iniziano a descrivere con i loro accordi, nuove scene di natura estrema. Tutto molto interessante ma c'è un ma. Brani cosi lunghi (la media è vicina ai 10 minuti) trovo che sia delittuoso lasciarli privi di una voce, sembrano depotenziati e meno poetici, un qualche grido qua e la gliel'avrei messo perchè affrontare quasi 50 minuti di black strumentale, per quanto ispirato, non è tra le cose più semplici da fare. Nel frattempo siamo giunti al finale, affidato a "Wilderness Day", gli ultimi 11 minuti e mezzo di suoni orchestrati dalla rabbia del duo finlandese, che omaggia egregiamente la natura estrema del nord. (Francesco Scarci)

giovedì 15 novembre 2018

All My Memories - Umwelt

#PER CHI AMA: Death/Hardcore, Fallujah
I Fallujah stanno facendo scuola. Con la loro tonante proposta di deathcore atmosferico hanno conquistato uno stuolo di seguaci in giro per il mondo, tra cui i qui presenti All My Memories. Si tratta di un ensemble proveniente da Parigi che con 'Umwelt' (un titolo che mi aveva indotto a pensare ad origini teutoniche per la band) tagliano il traguardo del secondo album. Un disco che conta undici tracce belle dirette e immediate e dalle durate non troppo estenuanti. Si parte infatti con i novanta secondi di "Terra Mater" che espongono immediatamente il manifesto programmatico dei cinque francesini, ossia un death/hardcore melodico. Chiaro che un minuto e mezzo sia poco per capire le intenzioni dei nostri ed eccoli lanciarsi immediatamente con la title track, un pezzo possente che mette in luce le buone intenzioni della band transalpina, tra suoni iper bombastici, possenti linee di chitarra che ogni tanto si concedono quelle bombe ritmiche che cosi tanto mi fanno sussultare e apprezzare il genere. E mentre i suoni scivolano piacevolmente tra i roboanti riff e pulsanti tocchi di basso di "Wasteland", a guidare il tutto c'è il bel vocione del frontman Loïc che si dimena tra un growl cavernoso e qualche chorus ruffiano. In men che non si dica, ci ritroviamo già alla quarta traccia, "Thanatos", song più oscura, ma che mantiene l'intelaiatura musicale sin qui goduta. Si prosegue con "Coward", e le atmosfere si fanno più malinconiche nel loro incedere, peccato solo si faccia fatica a goderne appieno, il vocalist per quanto bravo, a mio avviso canta un po' troppo per i miei gusti, avrei dato maggior spazio a quei rallentamenti apocalittici che spaccano in due il brano. Ottimo il comparto tastieristico, e quel piglio electro death all'inizio di "Burn The Heaven" (ma sarà ben più enfatizzato in "Behind The Wall", dove peraltro ci sarà il featuring di Anthony Doniak, dei Here Come The New Challenger), in una song che fondamentalmente si muove sulla falsariga di quanto fatto sin qui e che verrà fatto da qui fino alla fine. Forse in questo immobilismo (ed in un eccessivo numero di pezzi) risiede il punto debole degli All My Memories, anche se deve essere chiaro che 'Umwelt' è un buon album, con tutti i suoi pregi e sbavature. D'altro canto siamo solo al secondo lavoro per la band francese e la strada imboccata è sicuramente quella buona. (Francesco Scarci)