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sabato 10 ottobre 2015

Abraxas - Totem

#PER CHI AMA: Funk-pop/Indie
Gi Abraxas sono il frutto di una lunga avventura musicale di quattro amici d'infanzia parigini: Tino Gelli, Jonas Landman, Solal Toumayan e Leon Vidal. Il loro nome è un omaggio allo storico album di Santana e tra le loro influenze citano Pink Floyd e i King Crimson degli anni '70 ma anche Late Of The Pier e Of Montreal. Tanti e tali riferimenti producono uno stile difficilmente definibile, una sorta di mix tra pop, new wave, synth pop e funk, se non che gli Abraxas stessi si sono premurati di battezzarlo "protodancepop", il che, devo ammettere, rende bene l’idea di quello che fanno. Dopo che, nel 2011, esordivano con l’album autoprodotto 'Warthog', sorta di concept sulla vita di un facocero, esce quest’anno il loro primo EP per l’etichetta Samla Music. Totem dispiega in modo efficace, nell’arco di 5 brani peculiari, quella che è la proposta musicale del quartetto, che passa con leggerezza ed ironia su una quarantina d’anni di musica, senza soffermarsi o dilungarsi su nessun genere in particolare. I primi due brani, “Deep Down in the Middle of Shanghai” e “Guatemala”, a dispetto dei titoli che rimandano a luoghi e suggestioni esotiche, sembrano una perfetta sintesi tra il fulminante esordio dei connazionali Phoenix e l’ultimo acclamato lavoro dei Daft Punk, con le stesse atmosfere danzerecce, le chitarre funkeggianti e una certa idea di leggerezza. “Democratie” si veste invece di brume indie, mentre “Kayak” è un piccolo gioiello in grado di coniugare, all’interno di una struttura inusuale, un’invidiabile levità di tocco e certe atmosfere da tardi Pink Floyd. Gli Abraxas si muovono con personalità alla ricerca della pop song perfetta, e nel frattempo propongono un dischetto molto curato, nei suoni tanto quanto nella confezione, in grado di regalare una ventina di minuti di disimpegno per nulla vuoto e stupido. E non è affatto poco. (Mauro Catena)

(Samla Music - 2015)
Voto: 75

https://www.facebook.com/abraxasofficial

giovedì 8 ottobre 2015

Dryom - 2

#PER CHI AMA: Funeral doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi in modo sinuoso, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli, oppure malate e dannose per il nostro subconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia. Tutta questa poetica come preambolo alla presentazione di uno stupendo album uscito nell'anno del signore 2015, per la Solitude Prod. che conferma l'elevata qualità di produzione della label russa. Questa misteriosa one man band riafferma la presenza nel mondo del doom, di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più fini riguardo al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Dryom (in cirillico Дрём) sale in cattedra e ci offre un magistrale affresco funerario, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, contraddistinti da brani di lunga durata, tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana, che alla fine risulterà essere la vera protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu, tipico strumento a bocca del sud Italia, a cui si aggiungono una batteria drammatica, ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta su brani che non si ripetono mai, una propensione verso il suono metal sinfonico assai spinta che fa da comune denominatore a tutte le quattro estenuanti tracce del disco, che coprono un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è stupendo, con il suo paesaggio post atomico invernale. Ma ciò che mi preme risottolineare è la magnifica voce gutturale del frontman: spettrale, emarginata, malata, che domina un suono in cui più volte ho rischiato di smarrirmi, nel godere di quel senso di vuoto persistente che esso trasuda, e in cui la presenza di luce carica di speranza è relegata a pochi attimi, disseminati tra una composizione e l'altra. Mai una caduta nel plagio, mai una pecca, qui l'originalità è ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla nera! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

mercoledì 7 ottobre 2015

Eternal Fuzz - Nostalgia

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Gli Eternal Fuzz provengono dal New Jersey e il quartetto sembra essersi formato nel 2009, data non confermata, ma ricavata dalle pochissime informazioni sul web (del 2009 il loro primo EP). Dopo questo è seguito un demo nel 2011 e un full length, 'Camp Fuzz', nel 2012. 'Nostalgia', rilasciato a maggio di quest'anno, include nove tracce e riprende la copertina dal precedente lavoro, invertendone solamente il tema stellare/notturno. La band statunitense continua col filone stoner/doom/sludge che ne ha contraddistinto gli esordi, quindi suoni pesanti, ricchi di basse frequenze puntando tutto o quasi sull'impatto sonoro. La qualità del lavoro svolto è buona, sia a livello compositivo, esecutivo e di registrazione. Le chitarre esprimono al meglio tutte le sfumature delle distorsioni estreme utilizzate, ricche di gain e larsen che anche ascoltate a volume medio lasciano trasparire una potenza sovrannaturale. Anche alla batteria è stata resa giustizia, con un profilo sonoro vintage, votata al realismo puro senza artifici come trigger e affini. Il basso concorre, come spesso accade in questi generi, al muro sonoro, quindi spicca realmente nelle parti meno estreme e comunica comunque il suo carattere leggermente nasale. Il vocalist caratterizza in discreta parte l'appeal della band, con un cantato leggero, quasi indie-pop, etereo quanto basta per dare anche un connotato space rock alla band di Cranbury Township. L'album apre con "Closer (Slugnaut) Fleet", che dopo una intro di chitarra dal riff palesemente psichedelico, esplode come una bordata degna di una corazzata americana. Le chitarre sono incisive come un gigantesco blocco di ghiaccio che si stacca improvvisamente e investe l'ascoltatore con la sua veemente onda d'urto. La ritmica cadenzata e il cantato ipnotico la fanno da padrona per gran parte del brano, ma le accelerazioni sporadiche e i cambi di ritmo alleggeriscono la processione sonora. In fin dei conti si tratta di un brano semplice, ma caratterizzato da una piacevole oscura atmosfera. "Terraessence" cambia le carte in tavolo, presentandosi come una traccia tra il grunge e il punk, una cavalcata di appena tre minuti che corre all'impazzata e si ferma sporadicamente a suon di larsen. Il riff di chitarra porta il marchio Nirvana, l'unica differenza è la cattiveria dovuta al fuzz utilizzato dal chitarrista. Anche qui il cantato sembra provenire dalla vicina cantina e fa l'occhiolino al movimento dark e kraut rock di qualche anno fa. Il rallentamento a metà canzone riporta l'ascoltatore nella dimensione sludge/doom degli Eternal Fuzz. L'immagine che viene subito alla mente è vedere se stessi immersi in una melma fangosa che ci imprigiona e fa di tutto per tirarci giù nelle profondità oscure, dove vivono esseri innominabili e che potrebbero causare pazzia istantanea al solo vederli. La band comunque riesce a dosare abbastanza bene i momenti di break che regalano attimi di pausa e respiro, basti ascoltare il fantastico stacco post-rock a metà di "Moody Hum". Insomma, gli Eternal Fuzz sono una band sicuramente interessante perché si sforza di miscelare generi che vedono moltissimi gruppi tra le loro fila. L'album non verrà annoverato tra i migliori del 2015, ma annuncia che un quartetto americano è uscito allo scoperto per farsi conoscere e raccogliere il meritato riconoscimento. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 75

Mondo Naif - Turbolento

#PER CHI AMA: Stoner, Queens Of The Stone Age, Verdena
C’è stato un momento in cui davvero sembrava che anche in Italia il rock venisse preso sul serio non dico dal pubblico, che l’ha sempre fatto, ma dall'industria discografica. Un momento in cui c’erano un sacco di band che facevano rock in italiano e non solo risultavano credibili, ma a cui veniva data la possibilità di dare alle stampe album di livello assoluto. Oltre ai consueti nomi di rilievo quali Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Massimo Volume, che si sono assicurati una lunga carriera, c’erano un sacco di altre band magari meno fortunate ma che hanno lasciato segni importanti in quei tardi anni '90, e penso ai leggendari Ritmo Tribale (in realtà dei precursori), ai vari Karma, Gea, Politburo, Hogwash, Malfunk, Fluxus, tutti responsabili, a vario titolo, di lavori che hanno segnato un epoca. Ecco, i Mondo Naif hanno tutte le carte in regola per affiancarsi, e forse ergersi al di sopra di tutti quei nomi, ai quali in qualche modo viene spontaneo assimilarli. Il loro è un rock pesante e pensante, che musicalmente pesca dallo stoner o dal grunge d’oltreoceano, declinato però in italiano come ho sentito fare poche altre volte. 'Turbolento', il loro secondo album, esce per l’ottima Dischi Bervisti (in collaborazione con GoDown Records e Dreamin Gorilla Rec) ed è prodotta da quel Tommaso Mantelli, aka Captain Mantell, già responsabile dell’ottimo Bliss, a suo tempo recensito su questi lidi. Kyuss, Monster Magnet e QOTSA tra le probabili influenze dirette della band, così come tutto il rock degli anni '70. Ma i Mondo Naif non si limitano ad un’operazione revivalistica, hanno molto da dire e lo fanno con stile e convinzione. “NonTempo” apre l’album con un tiro potente, la bella voce di Stefano ricorda a volte quella di David Moretti dei Karma anche nelle linee vocali, come avviene anche in “Niente” e nell’ottima “Scatole Magiche”, fusa in una sorta di suite con “Maelstrom”, strumentale che tiene fede al suo titolo con un gorgo chitarristico da cui è impossibile sfuggire. Da citare la presenza di alcuni ospiti che impreziosiscono il suono donandogli varietà, come il sax di Sergio Pomante (anche lui dei Captain Mantell) che dà una marcia in piú ad “Aquilone” o di Nicola Manzan (Bologna Violenta) e Alberto Piccolo, responsabile rispettivamente di archi e chitarra classica che arrivano a pacificare la cavalcata stoner della conclusiva “Belfagor”. Disco di grande rilievo, a cui forse manca una grande canzone per risultare davvero indimenticabile, ma ci sarà tempo anche per questo. Nel frattempo godiamoci questa musica turbolenta. Da avere. (Mauro Catena)

(Dischi Bervisti/GoDown Records/Dreamin Gorilla Rec - 2015)
Voto: 80

Fashion Queens – Infiniti di Forme Rosa e Blu

#PER CHI AMA: Hard Rock/Blues/Grunge
Uscito sul finire del 2014, questo EP di debutto dei padovani Fashion Queens, fuori per la Jetglow Recordings, mostra una band affiatata e ben avviata. Le sei tracce del disco ci vengono presentate dall'etichetta come il perfetto connubio tra musica rock stoner, velata da un retrogusto blues e liriche poetiche, che in parte può esser vero e in parte no, visto che di stoner qui non v'è traccia se non in qualche apertura vocale alla John Garcia (ai tempi degli Unida) sparsa qua e là tra i brani. Più visibile è un rimando a formazioni grunge del passato nazionale, che poi cantando in italiano, per forza di cose ci si accosta ai lavori di Timoria o Karma. Il fatto di volersi accostare al mondo stoner a forza, toglie quello che realmente si cela tra le note di questa band, ossia un buon hard rock blues di stampo classico con chiaroscuri tipici della musica alternativa italiana e buone aperture soniche molto classic rock. Contornati da un canto singolare di buone doti ma che sinceramente manca di spirito psichedelico e predilige spesso una tonalità che poco si prestano al trip, e sovente si spostano verso territori hard rock, rappresentano alla fine il vero territorio di conquista della band patavina. Buone le composizioni, fantasiose e ben radicate, come detto in precedenza, nel blues (il brano "3/4"), il disco presenta una qualità di registrazione ottima, pulitissima, anche se manca il tocco che spacca o che la rende veramente unica, però ben fatta, forse un pizzico più di polverosa U.S.A. e di calore nel sound non sarebbe guastato. Centrato anche il brano "George Jung" ove affiora maggiormente la vena più metal con all'interno un bel innesto recitato di ottimo effetto; infine è una pillola rock dal velato accenno Afterhours quello della conclusiva "Unaware". Fashion Queens, un buon inizio che lascia ben sperare. (Bob Stoner)

(Jetglow Recordings - 2014)
Voto: 70

Dalla Nebbia - Felix Culpa

#PER CHI AMA: Black Progressive, Enslaved, Windir
'Felix Culpa' è il nuovo lavoro degli statunitensi Dalla Nebbia, che già avevamo avuto modo di apprezzare con il full length di debutto 'The Cusp of the Void' del 2013. I quattro loschi figuri del South Carolina tornano con una importante novità ossia la presenza al violino di Sareeta (Borknagar e Solefald tra gli altri) a donare un pizzico di magia in più al sound maledettamente oscuro del combo statunitense. Cosi dopo l'immancabile intro, ecco materializzarsi "Until the Rain Subsides", song che palesa quel filo di malinconia che contraddistingueva già la proposta dei nostri agli esordi e che oggi assume connotati ancor più forti, quando è proprio il violino di Sareeta a irrompere sul tappeto eretto dalle melodiche ma serrate ritmiche dei Dalla Nebbia. La voce di Zduhać si conferma velenosa e interseca i propri vagiti con quelli puliti (e più rari) di Yixja. Tuttavia, la cosa che più mi colpisce (e maggiormente ho apprezzato nel corso dei ripetuti ascolti dell'album) è la psichedelica matrice sonora che vede la band dell'East Coast miscelare il black con il progressive (in stile Enslaved) e l'avantgarde, mantenendo tuttavia inalterato il proprio estremismo sonico. Una proposta che vede irrobustirsi nella successiva "Abandoned Unto Sky" che ci affida una band decisamente più matura che in passato, il che si riflette anche in un più complicato approccio musicale. Con "Lament of Aokigahara" il sound dei nostri sprofonda nelle viscere di un black doom dalla vena funeral che mostra un suono nostalgico ma rarefatto, che va a nascondersi in anfratti ambient e arriva a sfociare nel devastante impatto di "The Banner of Defiance", dove il quartetto esprime tutta la frustrazione accumulata in questi due travagliati anni che hanno anticipato l'uscita di 'Felix Culpa'. Il brano segue uno strano cammino con suoni disarmonici ma sontuosi, talvolta difficili da decifrare, che tuttavia rappresentano il punto di forza del nuovo lavoro dei Dalla Nebbia. Sebbene non sia cosi facile avvicinarsi alla musicalità dell'act statunitense, a causa di una marcata complessità sonora, che basa le proprie fondamenta su una certa alternanza di atmosfere depressive e altre ritmiche infernali, il disco trova la sua summa in "Not Within the Stone", che vede la presenza alla chitarra, in qualità di guest, di Aort dei Code (il quale presterà i suoi servigi anche nella title track). Le chitarre confermano la propria vena schizofrenica anche in questo pezzo, stratificandosi su più livelli, rendendo la proposta dell'ensemble americano ancor più interessante e longeva in termini di ascolto. A questo aggiungete il violino di Sareeta, una certa imprevedibilità di fondo che mi ha evocato un che degli Oranssi Pazuzu e una struttura piuttosto ricercata, e forse sarete solo lontanamente in grado di assaporare gli umori che si celano e alternano nelle complesse note di questa song. Manca immediatezza non ve lo nascondo, i suoni non sono cosi facili da essere digeriti, intanto il disco prosegue con il funambolico refrain della title track che vorrei associare a dei coloratissimi fuochi artificiali che esplodono nel cielo, quando il gran finale garantisce la presenza di tutti gli esplosivi a illuminare a giorno l'oscurità della notte. I Dalla Nebbia analogamente utilizzano tutti gli orpelli strumentali, le chitarre, le tastiere, il programming techno, i violini, le screaming vocals che sono a loro disposizione e sfoderandoli tutti insieme, e finendo per ubriacarci tra le distorsioni elettriche ed elettrizzanti del loro sound. Sembra l'inizio di un deprimente film in bianco e nero degli anni '50, quello invece affidato alle note di "Paradise in Flames", con le chitarre che seguono l'overture di violino e tastiere, e richiamano il grande amore nordico del 4-piece verso i Windir, con un epico incedere che ondeggia nell'etere come il vento gelido del nord sferza minaccioso l'aria. Il brano per 2/3 strumentale, trova solo nel finale una maggiore efferatezza nei suoi toni con lo screaming di Zduhać a palesarsi nell'ennesimo cambio di passo di un disco che farà certamente la gioia degli amanti di sonorità estreme che ambiscono, con un malcelato interesse, a sperimentazioni soniche assai ricercate. Il disco placa il proprio flusso evocativo nel conclusivo interludio semi-acustico di "The Silent Transition" che conferma, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, la stralunata vena psicotica dei Dalla Nebbia. (Francesco Scarci)

(Razed Souls Productions - 2015)
Voto: 85

domenica 4 ottobre 2015

La Fantasima - S/t

#PER CHI AMA: Drone/Experimental/Folk metal
"La Fantasima è l’immagine, il cuore, il suono ed il desiderio che è parte dei silenzi e dei colori della natura Italica. Dalle sue notti, dai boschi, da sotto i suoi monti, tra le pagine di antiche leggende e nel tepore della luce dei fuochi, rendiamo omaggio alla nostra terra, raccontandola". Cosi i nostri descrivono la propria proposta nelle loro pagine. Da ammirare innanzitutto il lato isolazionista e underground del trio romano che licenzia in download gratuito il proprio lavoro senza troppa pubblicità. Le cinque tracce che compongono il disco sono ispirate alle bellezze della natura italica e solo a pensare quante di essa versano in situazioni disastrose o dimenticate, l'omonimo album ne diviene un'ottima colonna sonora, una reale fotografia di quanto in Italia si stia regredendo in tal materia. Il sound dei nostri ha la veste oscura e il passo rallentato del freddo funeral doom siberiano, prediligendo suoni puliti e d'atmosfera, molto cupi e riflessivi; i brani sono totalmente strumentali, rallentano i battiti cardiaci, risultano depressivi e notturni, pieni di pathos e malinconia. Mostrano una magia ancestrale, una capacità ipnotica e magnetica, una collocazione fuori dal tempo, tra armonici di chitarra e un basso carico di atmosfera, orgoglioso del suo sound anni '80, con una batteria minimal ad effetto psichedelico che li fa entrare di diritto nell'olimpo del drone/depressive/metal pur non sfoderando mai una chitarra distorta. In realtà l'insieme dei pezzi ha una forma di romanticismo decadente, quasi occulto che si avvicina al misticismo sonoro di Ion (vedi Duncan Patterson) in "Madre, Protègenos" e richiama le sospensioni temporali soventi nella musica dei Sigur Ros e il concetto mistico uomo/natura perfettamente espresso dagli Agalloch in 'The White', anche se poi qui il risultato definitivo è un ambient folk metal dalle caratteristiche schive e riservate. Da ascoltare almeno una volta nella vita per cercare di capire il significato della propria esistenza! (Bob Stoner)

The Pit Tips

Roberto Alba

Lychgate - An Antidote for the Glass Pill
Mgla - Exercises in Futility
Lycia - A Line that Connects

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Francesco Scarci

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Shepherds of Cassini - Helios Forsaken

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Don Anelli

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Symbolical - Collapse in Agony
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Mauro Catena

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