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domenica 20 gennaio 2019

Revolutio - Vagrant

#PER CHI AMA: Thrash/Groove, Nevermore, In Flames
A volte le copertine degli album hanno il potere di invogliarne l'ascolto. Ho provato quest'esperienza con i bolognesi Revolutio: quando ho visto la cover di 'Vagrant' infatti, ne sono rimasto affascinato e cosi mi sono avvicinato alla band. 'Vagrant' rappresenta il debutto sulla lunga distanza per i quattro musicisti nostrani, dopo l'EP d'esordio uscito nel 2013. Dopo un lustro di messa appunto, i nostri tornano con dieci pezzi nuovi di zecca che si aprono con le sirene dall'allarme di quella che immagino essere un'esplosione nucleare. Ciò che successivamente deflagra nei vostri impianti hi-fi con "Meek and the Bold", è una canzone iper pompata all'insegna di un thrash metal ultra carico di groove, che in fatto di sonorità mi ha ricordato un ibrido tra Nevermore, Overkill, In Flames e Gojira, mentre a livello vocale, la voce del frontman, si presenta assai graffiante. Quello che mi prende è comunque la carica energetica che i nostri sanno generare con le loro rincorse metalliche. Bella la cavalcata in "What Breaks Inside", che mette in mostra le abilità nei cambi di tempo del quartetto italico. Meno esagitata invece "The Oracle", ben più ritmata e ricca di cambi di tempo, con la voce di Maurizio Di Timoteo a mostrare le sue molteplici sfaccettature, dall'urlato, all'accenno di un cantato in growl, alle spoken words di inizio brano e molto altro ancora, a ricordarmi peraltro la performance di un vocalist, quello dei Rage, che non sentivo da quasi vent'anni. Insomma c'è un po' di tutto in questa centrifuga sonora, che ha anche il merito di sciorinare un bell'assolo di classica scuola metallica ed un break che evoca un che anche dei Pantera. Si torna a pestare sull'acceleratore con "Ozymandias", una traccia che definirei in classico stile Revolutio, che sfoggia un altro bel solo di scuola rock, con il sound che diviene via via sempre più possente. Più malinconica invece "Eclipse" un pezzo strumentale, dove la chitarra sopperisce adeguatamente all'assenza della voce. Un bel basso metallico apre "Silver Dawn", dove la voce cupa e sofferta di Maurizio, viene accompagnata da ottime percussioni e da un riffing oscuro di chitarra, in quella che è la song più stralunata del lotto che suona come una sorta di semi-ballad. Dall'orrorifico break centrale con tanto di riferimenti ai King Diamond, ad un'ascesa ritmica di matrice Metallica (e questa volta lo scrivo maiuscolo per indicare nei Four Horsemen il chiaro riferimento). Una chitarra acustica apre "Requiem", un pezzo che potrebbe essere accostabile ad una "Nothing Else Matters" o "The Unforgiven", con la voce di Maurizio che ammicca, pur non arrivandoci, a quella di James Hetfield. Ottimo il lavoro del chitarrista solista, che nella successiva "Daydream" sembra lanciarsi in atmosfere di settantiana memoria che si miscelano alla grande con l'irruenza dei nostri. La sensazione che mi ha colpito è però quella di stare ascoltando un album totalmente diverso da quello delle tracce iniziali, e questo assolutamente non è un male, perché alla fine di 'Vagrant' mi ha colpito la sua eterogeneità. Quello che invece ho trovato incomprensibile, più che altro per l'estenuante durata - quasi 15 minuti, è il finale affidato a "The Great Silence", che sembra essere il rumore di fondo che rimane dopo l'esplosione atomica, beh ecco, di una decina di minuti ne avrei fatto volentieri a meno. Ci resta alla fine una buona prova di una band che, pur essendo agli esordi, mostra già una certa maturità tecnico-compositiva. (Francesco Scarci)

(Inverse Records - 2018)
Voto: 70

https://revolutio.bandcamp.com/

sabato 19 gennaio 2019

Voidhaven - S/t

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, My Dying Bride
In Germania la corrente death doom sta prendendo una piega interessante: dopo Ophis e Doomed, ecco arrivare anche i Voidhaven, con il loro EP omonimo di debutto. E dove il doom è di casa, c'è sempre lo zampino dietro della Solitude Productions, abile a mettere sotto la propria ala protettiva, anche questo quintetto di Amburgo. Solo due i pezzi a disposizione dei nostri amici teutonici, che in poco più di diciotto minuti ci fanno comunque capire di che pasta sono fatti. L'opener, "The Floating Grave" è una song lenta, dai tratti malinconici, con un basso a metà brano che mi ha rievocato, ovviamente con le dovute proporzioni, "A Kiss to Remember" dei My Dying Bride. La song affonda le sue radici quindi in quel death doom di metà anni '90, affidando a ritmiche lente e profonde growling vocals, tutto il suo armamentario, senza dimenticarsi comunque di parti arpeggiate e clean vocals che rendono il tutto atmosfericamente più morbido e accessibile ad un più ampio pubblico. "Beyond The Bounds Of Sleep" apre con un altro arpeggio e delle voci sussurrate che si tramutano ben presto in un rifferama di scuola Anathema, quelli dei tempi di 'The Silent Enigma', combinandosi poi in parti più ariose (con voce pulita annessa) che chiamano in causa gli Swallow the Sun. Insomma 'Voidhaven' è un bel biglietto da visita per i nostri, in attesa di un album di durata più corposa. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 70

https://voidhaven.bandcamp.com/releases

Pensées Nocturnes - Grand Guignol Orchestra

#PER CHI AMA: Avantgarde Orchestral Black Metal
Nel Pozzo dei Dannati, ci eravamo fermati alla recensione di 'Nom D’Une Pipe!', quarto disco uscito per la Les Acteurs de l'Ombre Productions, poi il successivo 'À Boire et à Manger' fu autoprodotto e finalmente oggi il ritorno per l'etichetta francese, con il nuovissimo 'Grand Guignol Orchestra'. I Pensées Nocturnes sono tornati, con altre dieci tracce all'insegna di una follia avanguardistica grottesco musicale. Non sbagliano un colpo i nostri trapezzisti parigini, con un lavoro che fin dall'artwork e il booklet interno, colpisce per fantasia e originalità. Li ho definiti dei trapezzisti, ma potrei aggiungere clown, giocolieri, funamboli, mangiafuoco, ammaestratori di pulci o addestratori di serpenti, il risultato non cambierebbe. La band nelle dieci tracce qui contenute ne combina, come sempre, di tutti i colori, dal black orchestrale con tanto di fisarmoniche incorporate di "Deux Bals Dans la Tête" alla tanghera "Poil de Lune", cosi ricca di una serie di citazioni musicali e letterarie al suo interno, da far impallidire un candidato al premio Nobel. Pura follia musicale, lo dicevo all'inizio, delizia per il mio palato e per i miei sempre più delicati timpani, che ringraziano solennemente. Ovviamente intersecato a questo delirio musicale, ci ritroviamo sempre il personalissimo black pomposo dei nostri, che talvolta dirotta nel swing ("L'Alpha Mal"), non dimenticandosi tuttavia come creare atmosfere orrorifiche da Luna Park del terrore. I Pensées Nocturnes sono dei fottuti geni, che tuttavia non potranno piacere a tutti, data la complessità estrema della loro musica, che trova riferimenti ancora con la lirica, il jazz, musica etnica e classica, avendo cosi modo di completare un quadro musicale che potrebbe avere le fattezze della 'Guernica' di Picasso, il tutto poi cantato in lingua madre, giusto per non rinunciare alla grandeur francese. La violenza prevale in "Les Valseuses", ma si sa quanto possa essere passeggera nella musica del quintetto transalpino, che tra controtempi ultra-tecnici, stop & go, inserti di musica anni '30, stralunatissime vocals e sax (che torneranno anche nella successiva, inizialmente oscura, ma poi dai profumi quasi caraibico-balcanici, "Gauloises ou Gitanes?"), c'è da divertirsi non poco. L'improvvisazione è la parola d'ordine per questi mattacchioni francesi, con cui francamente mi piacerebbe fare due chiacchiere per capire realmente quanto la loro psiche sia veramente deviata. Da colonna sonora "Comptine à Boire", una song forse leggermente meno fuori dagli schemi, che evoca un che degli Arcturus, ma che evidenzia sempre una certa abilità negli arrangiamenti, nella composizione e qui anche nei solismi, con una fuga di sax nel finale, davvero incredibile. C'è ancora tempo per gli ultimi minuti di follia con le rimanenti "Anis Maudit" e "Triste Sade". La prima ci conduce in un qualche nobile salotto dove tra lirica e jazz, c'è spazio anche per devastanti incursioni black. La seconda chiude invece, con una certa vena malinconica, quest'ennesimo e folle piccolo gioiellino targato Pensées Nocturnes. (Francesco Scarci)

Broken Down - Drop Dead Entertainer

#PER CHI AMA: Industrial/Electro, Ministry
Da Bordeaux ci arriva il nuovo lavoro dei Broken Down, un miscuglio musicale non del tutto originale ma funzionale e ben fatto. Racchiuso in un album di ben diciotto tracce tutte di breve durata che strizzano l'occhiolino all'industrial metal dei Ministry e al punk/hardcore vecchia maniera, confezionato con un artwork che potrebbe essere tranquillamente l'immagine ideale per un disco shoegaze. A detta dell'artista, questo cd sarebbe l'apice di una ricerca sonora intrapresa qualche anno fa dall'autore, un viaggio di scoperta sonica, libera da ogni convenzione che dovrebbe portare effetti innovativi sull'uso di suoni ritmici e inventiva elettronica originale e assai personale. Il risultato è 'Drop Dead Entertainer', un buon disco giocato sul tiro dell'industrial rock ed un'elettronica old school (Nitzer Ebb), dotato di una gran fantasia nel creare vocals e cori ad effetto, con richiami agli inni migliori degli anthems dei Misfits. Le canzoni sono tutte carine e piacevolmente orecchiabili, buona la composizione che tocca stili particolari come in "Balance" dove il canto richiama persino lo spettro degli straordinari The Stranglers! Il cantato si alterna tra toni irriverenti che calcano anche i passi dei The Damned di metà anni ottanta e le liriche vengono spesso intervallate da chitarre e growl in odor di electro metal teutonico in stile Atrocity (ricordate 'Werk 80'?). Colpisce la volontà di comporre musica ad effetto che per quanto dura sia, mantiene una sorta di contatto con l'art rock ed anche con una certa veste glam digitale e sarcastica ("Raging Inside") che fa di questo disco un catino di tanti rimandi musicali per intenditori e nostalgici di generi alternativi in voga qualche decennio fa, un modo di fare musica per certi aspetti vintage, anche se rimodernato e rimodellato con passione. La produzione è ben curata ed il suono è volutamente reso sporco, acido e alternativo; canzoni come "You Turn Now" ricordano il suono più cavernoso di certo death rock, oppure un primordiale gothic metal lastricato di ricercate soluzioni radiofoniche che si rendono sempre efficaci e mai banali, coinvolgenti come pochi riescono ancora a fare oggi. Così potrei accusare questo lavoro di rifarsi ai miti citati prima ma non potrei mai sbagliarmi nell'affermare, che questo è un buon disco, sicuramente interessante a suo modo, una raccolta di brani che lasciano l'ascoltatore con la drammatica scelta di dover decidere se odiarli od amarli... ma la vera domanda è: come resistere ad un brano come "Down the Stairs"? (Bob Stoner)

(Altsphere - 2018)
Voto: 70

https://broken-down.bandcamp.com/

Moss Upon the Skull - In Vengeful Reverence

#FOR FANS OF: Prog Death, Gorguts
The way a band presents itself can sometimes be a perfect prelude for how it will sound. Inky details across a blank canvass show Belgium's Moss Upon the Skull as a band elaborating on a sound as filled in by the noise of generations as it is emblazoning itself on a new fiber. Moss Upon the Skull does its death metal well, not brilliantly with the frills that many a band may use to seem out of the norm and stretch its streaks across the death metal soundscape, but this band brings more a methodical and appropriately concocted conclusion able to burn slower and baste in its ideas. Smooth brilliance striped through simple motions make for calligraphy upon this tapestry of guitars that is seldom seen in a world of jagged edges and sharp poignant pieces. This band's jazz is as potent as its catastrophe and both work beautifully, intermixing each to form a disillusioning and disorienting world as seen through lucid eyes the burdens of horrific fate.

Technical, intricate, and intoxicating in its disorientation, Moss Upon the Skull festers and grows as harmonic leads are entangled and choked by an imposition of malignant bass, contorting each pleasant moment into an impending horror. Relentless rhythmic interchanges and an everflowing river of creativity ensure a consistent tension accompanies this bewildering Lethean journey as progressions meet ruination, animation is governed by decay, and each new structure builds off the last while simultaneously denoting the large swaths of time that elegantly acknowledge crumbling old pillars and the rises of new monuments sprouting up like mushrooms on the rotting carcasses of fallen giants. True to its name and album title, Moss Upon the Skull shows in its genetic coding the filth of the past generations of the metal milieu, playing 'In Vengeful Reverence' many terrifying twists on the harmonies of old to shore up a new technical monument to the past decades of abnormal progress.

Gritty and chewy guitars in “Disintegrated” masticate a rhythm, like a toothless hunger gumming down on a steak with sinew slowly dissolving in a wave of saliva, each enzyme breaking down molecules and reconstituting them in squalid squelching strings. However, that gushing sound is not an uncommon rejoinder to these unusual structures but a consistent foil to the burgeoning beauty behind these laborious deconstructions. Compelling harmonies and riffing in “Impending Evil”, searing guitar chords with prickly sprays of black metal sleet employed in an almost grunge fashion through “Lair of the Hypocrite” before a dingy disorienting harmonic breakdown, and, in an interlude as funky as it is contorted by the preeminence of evil in this band's sound, gorgeous riffing at the end of “Serving the Elite” show that these scraping riffs are the estuary from which spout intricate tributaries culminating in swamps of filth from elaborate contortions through rich mindful landscapes.

Unlikely to longingly linger on a nostalgic note or allow a breakdown to fester in its deterioration, the title track ensures that its fury retains an amorphous structure as it engineers a guitar bridge while under fire from volleys of blast beats. “In Vengeful Reverence” molds a monstrous amalgamation of prominent death metal structures while laying bare their bones as though witnessing the construction of Parisian catacombs. Throughout this album is an ever-focused timeless eye, one that utilizes its alchemy to piece together these contorted monuments and finally, by the time of reaching “Unseen, Yet Allseeing”, arrives with such fanfare akin to the metal standard that it sounds like a renaissance movement unearthed while exploring underground.

Homage finds itself imbued in the details among these intricate abnormalities. It comes through well in the end of “Peristalith” with the accursed Demilich round as it awkwardly walks through a storm of blast beating reminiscent of “The Echo”. This filthy and elaborate delivery expounds upon the technical squeals of a caged race enduring the bidding of its captors as songs flow with impressionistic fluidity underscoring the roles of numerous notes added to each flowing sound and the sharp grotesquerie of a structure when stripped down to its most basic components. Through a calculated mid-paced punch accentuated by a dragging lead guitar, “The Serpent Scepter” shows these swaths coming through in delirious distortions of chords and scrambles the harmony with scratchy technicality as it increases in intensity backed up by long drumming fills and crafty changeups. The anarchical desire to punch through these riffs with such funky drumming ensures that even the most rote moments of rise and drop smoothly worm their ways into impactful routines of technical exercise.

Gritty, cavernous, and intricate Moss Upon the Skull intermixes fierce technicality with gorgeous harmony to journey through its awkward and inverted 'In Vengeful Reverence'. Laying a groundwork of horror from which harmony must claw makes this inversion of every modern musical sensibility come through with elaborate and slyly perverse enjoyability. Esoteric curling harmonies and aggressive amorphous drumming show off a band unable to find contentment in sitting on a structure for too long while the decaying delay on the guitars works well to sharpen the impact of each note and also ensures a simultaneously dreary and dreamlike delivery. A flow that is as debilitating as the jarring madness of traversing the Leth river and humbling in its simultaneously haunting and enchanting, familiar and esoteric offerings, the cleanliness of the band's production compliments the relentless interchanges and ever-flowing creativity typifying an album that shows death metal remaining ripe in 2018. (Five_Nails)

venerdì 18 gennaio 2019

Anna Sage - Downward Motion

#PER CHI AMA: Hardcore, Converge
Grazie a Wikipedia, oggi ho scoperto che Ana Cumpănaș o Anna Sage era il nome di una prostituta austro-ungarica di origine rumena, soprannominata "la donna in rosso", che si rese famosa, non solo per aver aperto un bordello a Chicago, ma anche per aver aiutato l'FBI nel beccare il gangster John Dillinger. Forse affascinati da questa storia, i quattro ragazzi di Parigi devono aver scelto questo monicker per dare vita alla loro band che con l'EP 'Downward Motion', arrivano al loro secondo atto dopo l'EP del 2014 intitolato 'The Fourth Wall'. La band propone un feroce concentrato di hardcore sparato a tutta forza già dall'iniziale "Last Dose", una song che non lascia molto spazio alla melodia ma che anzi si diletta con un sound all'insegna della distruzione più totale. Due minuti e venti di ritmiche tese, voci rabbiose al vetriolo e rallentamenti apocalittici, che disorientano non poco l'ascoltatore. Con "Goddess", le cose non cambiano più di tanto: vi troviamo suoni dissonanti, vocals che tra urla varie, si danno una ripulita e trovano modo di fare l'occhiolino al post-hardcore, con un approccio più ruffiano. Non fatevi ingannare però, i nostri non devono essere proprio dei gentiluomini, anzi mi verrebbe da dire che sono crudeli violentatori della loro strumentazione che solo in un'apertura atmosferica, sembrano riuscire ad essere più avvicinabili. Per il resto, quelle che ascoltiamo, sono ritmiche di difficile digestione, che si muovono tra rallentamenti sludge e sfuriate metalcore. Ancor più fangosa la terza "When Prophecy Fails", che nella melodia di chitarra posta in sottofondo, sembra evidenziare un briciolo di umanità che pensavo non esistesse nelle corde dei nostri. Ma ripeto, non fatevi fregare, il quartetto transalpino ha un che di malvagio nel proprio sound, il che lo reputo estremamente seducente e caratterizzante. Non è però la solita solfa distruttiva quella che ascoltiamo nelle note nude e crude di questo 'Downward Emotion', la band infatti, nel suo rabbioso incedere, ha la capacità di catalizzare la nostra attenzione con un sound che vanta contenuti interessanti. L'incalzante interludio in posizione quattro del cd, fa da ponte con le ultime due canzoni del dischetto, gli ultimi sette minuti e qualcosa fatti di riffoni controllati, cattivi abbastanza per suggerirmi che ci sono punti di contatto tra gli Anna Sage ed i Converge ad esempio, e che "Missing One" è forse il pezzo più martellante, seppur più cadenzato, del disco. "Rope", l'ultima scheggia impazzita di questo 'Downward Emotion', è invece la song più incazzata delle sei qui contenute, sebbene a metà brano, i nostri espongano un vertiginoso cambio di ritmo, una tirata di freno a mano che provoca il più classico dei testa a coda in tangenziale, per gli ultimi novanta vertiginosi secondi di questo EP, che delineano la grande capacità dei nostri a muoversi sia su tempi serratissimi che su mid-tempo più ragionati. Sicuramente dei tipi da cui diffidare. (Francesco Scarci)

Doomed - 6 Anti-Odes to Life

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost e My Dying Bride
'6 Anti-Odes to Life' è il sesto album per l'artista teutonico Pierre Laube, il quarto recensito sulle pagine del Pozzo. Da sempre tessiamo le lodi del mastermind sassone, non possiamo pertanto esimerci dall'elogiare anche questo nuovo lavoro, che forse rappresenta la summa della discografia dei Doomed. Il sound del factotum tedesco, qui aiutato alle chitarre da quello che ipotizzo essere il fratello, Yves Laube, da Ina Lüdtke al basso e da tutta una serie di guest star (Willian Nijhof dei Faal, Andreas Kaufmann dei Charon e Uwe Reinholz), prosegue con quel suo flusso sonico dedito ad un death doom atmosferico che s'incanala fin da subito nelle note della lunga "The Doors": nove minuti di melodie dal forte sapore malinconico che evocano gli esordi di My Dying Bride e Paradise Lost, senza dimenticare le strazianti linee di chitarra di un altro grande gruppo nell'ambito, i Saturnus. I Doomed però hanno carattere a sufficienza per divenire ben presto un altro pilastro per questo genere, coniugando delle ottime sonorità con un impianto vocale che si muove altrettanto bene tra un growling profondo ed un pulito assai convincente. La chitarra acustica di Uwe in apertura di "Aura" chiama in causa gli Anathema di 'The Silent Enigma', cosi come pure la ritmica che s'innesca dopo il delicato pizzicare della 6-corde. Ampio spazio poi è affidato alla musica, sempre sognante, delicata e nostalgica, che vede la componente melodica accrescersi ulteriormente rispetto alle ultime release, anche grazie ad una proposta musicale che non esce mai dal seminato e si mantiene su un mid-tempo sempre ottimamente bilanciato. La musica si fa più minacciosa con "Touched", una traccia dal piglio iniziale vagamente post-black e da una ritmica potente definitivamente death; ottime anche le spettrali melodie di tastiera e le spoken word, cosi come il fluttuante ed ipnotico incedere della song che in undici minuti ne combina un po' di tutti i colori, visti i vari cambi di tempo, di cantato o un assolo virante al progressive, che sancisce l'accresciuta autostima della band. Un'inquietante base percussiva apre "Our Gifts": qui il pianoforte accompagna con raffinatezza, i tamburi ed una calda voce, mentre progressivamente entrano in scena anche le chitarre, in un brano che sa molto dei primi Riverside (fatto salvo quando riappare il cantato growl). Prova notevole, che merita qualche ascolto in più per essere capito nella sua interezza, visto che rimangono ancora da ascoltare la liturgica "Reason", lenta ma avvolgente nel suo solenne avanzare, con le vocals pulite che emulano quelle del mastermind dei Septicflesh e le chitarre che si confermano ancora una volta ispirate dal prog. "Insignificant" è un'altra perla di oltre 10 minuti di death doom di stampo '90s come i primi Anathema erano soliti fare. Diciamo che rispetto alle precedenti song, questa, più legata alla tradizione, rimane un gradino sotto le altre, tuttavia è innegabile la classe del combo germanico, soprattutto per la scelta di accompagnare la ritmica pesante con quella splendida chitarra acustica in background in un finale arrembante davvero violento (ancora al limite del post-black). A chiudere il disco, ci pensa l'ambient di "Layers (Ode to Life)", che sebbene i suoi sette minuti, funge fondamentalmente da outro del cd, uscito sia in formato digipack che standard. Insomma, altro gioiellino rilasciato dal buon Pierre, che a questo punto non dovete farvi assolutamente scappare. (Francesco Scarci)

lunedì 14 gennaio 2019

Miles Oliver – Color Me

#PER CHI AMA: Folk/Alternative/Indie Rock
La nuova fatica del compositore parigino Miles Oliver è da considerarsi la vetta di un iceberg, il punto più alto di una ricerca artistica molto personale e intima. Miles suona chitarra acustica ed elettrica, campiona loop e suona il piano, suona in solitudine, offre sempre performance altamente emotive, niente è lasciato al caso, nulla è banale, solo canzoni che aprono il cuore e dilatano le pupille, c'è sempre un misto di malinconia e speranza nel suo canto, una forma canzone fatta per raggiungere sentimenti nascosti e scavare nei meandri complicati dell'animo umano. Lo stile si alterna tra un osannato e acustico Bonnie Prince Billy di periferia ed una certa vena romantica tra dark rock ed elettrico, estraneante, astratto, acido, immediato e psichedelico post rock stradaiolo, carico di chiaroscuri e luminosità come nella bellissima "Saturdaze", una canzone geniale che fa trattenere il fiato. Il disco è in un continuo contrasto logico tra un brano acustico e distorto, un percorso raccontato a piene mani con una scrittura musicale d'alto livello e di godibile ascolto, una produzione più che ottima dove lo stile del cantautore trova la giusta via di espressione. Oliver non si scosta molto stilisticamente dai suoi lavori precedenti, rivisita e riordina il suo stesso modo di far musica, le sue azioni sonore, i rintocchi ritmici minimali vengono affilati, il tono della voce più maturo e le canzoni mirano dritte al cuore, colpendo e ferendo chi le ascolta. Un cantautorato alternativo che guarda al classico alternative country e al folk come all'indie noise con una profondità piena di pathos e un sound pieno di umanità, credibile, vivo ed interessante, un suono che non annoia mai e che al contrario stupisce e fa tanto riflettere. Spezzo una lancia per i tre brani più importanti, secondo me, di questa bellissima raccolta: la già citata "Saturdaze", "Synth Mary" e "Black Fence" con una coda nel finale che gode di un tocco di genio. 'Color Me' è un album curato nei particolari, alimentato da una vera anima artistica, ispirato e autentico, un'ottima prova, un disco consigliato per anime inquiete e sognanti. (Bob Stoner)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 80

https://milesoliver.bandcamp.com/