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giovedì 7 luglio 2016

Krigere Wolf - Infinite Cosmic Evocation

#PER CHI AMA: Black/Death, Dissection
L'avevo anticipato un mese fa che avremo recensito il nuovo lavoro dei catanesi Krigere Wolf, in occasione dell'analisi di 'Sacrifice to Valaskjàl', il loro album datato 2014. Il nuovo 'Infinite Cosmic Evocation', sempre edito dalla coreana Fallen Angels Productions, riprende là dove ci eravamo lasciati, ossia con un black/death infuocato di estrazione scandinava. L'album apre con il lungo abbrivio ambient di "And the Night Descendes Again-Slaves of the Blazing Cult", a cui seguono dardi infuocati sottoforma di un drumming dirompente, un riffing impetuoso e urla disumane, assestate su una ritmica serrata che non lascia respiro. E questa è soltanto la opening track con le sue chitarre ruggenti e i suoi blast beat infernali. Nessuna pietà, nessuno scampo lasciato all'ascoltatore, solo violentissime scudisciate perpetrate lungo il corso di questa song, ove pochissimo spazio viene concesso alla melodia e dove la componente solistica rimane una entità ahimè sconosciuta. La seconda traccia è la roboante title track, di per sè violenta sin dal suo incipit chitarristico, anche se dotata di un sound un po' monocorde, con le growling vocals in sottofondo e una batteria che frantuma ogni cosa le si frapponga dinanzi. Death, thrash e black collidono in un unico punto, in una song che riesuma lo spirito battagliero dei Dissection, una creatura infernale che emerge dalle acque torbide dello Stige. Con "Unholy Magical Throne" le cose non vanno di certo a migliorare: la violenza sembra addirittura rincarare la dose con un blasting omicida e furiosi vagiti di rabbia. L'odio che trasuda questo pezzo è comparabile poi a lava che trabocca dal cono di un vulcano. I cambi di tempo sono al limite della schizofrenia, cosi repentini da renderne quasi faticoso l'ascolto, denotando tuttavia la capacità dei nostri, nel continuare a cambiare pattern ritmico, addirittura utilizzando inusuali break strumentali. Picchiano, picchiano di brutto i Krigere Wolf, tra urla lancinanti e ritmiche frontali dritte nello stomaco. Quasi insperato poi il finale, fatto di atmosfere sulfuree che ci danno modo di respirare quel puzzo mefitico degli inferi, prima di inoltrarci nella brutalità della successiva song. E "Solar Storms", proprio citando la traduzione del suo titolo, "Tempesta Solare", è un'altra raffica di riff devastanti e velocità al fulmicotone, che ci affidano al ludibrio della tempesta stessa, in un pezzo avvolto da un'insana malvagità. C'è un che di perverso nelle note di questo disco, ma anche di epico che si incarna nelle note delle quinta traccia,"Warriors of the Sun", ove anche forte è il retaggio brutal death dei nostri cavalieri dell'apocalisse. Non c'è pace durante l'ascolto di 'Infinite Cosmic Evocation', grazie alla sua scarica adrenergica allucinante. Jab e montante, un uno due ben assestato sulle nostre mascelle, in grado di metterci definitivamente al tappeto. Finalmente un break acustico quello che ritroviamo in "Ancient Inscriptions of Ancestral Misery" che interrompe questo massacro, grazie a un piglio più onirico, che conferma l'umanità di questa macchina da guerra chiamata Krigere Wolf. In questo modo siamo giunti alla conclusiva "Through the Void and Asters Light", ove un arpeggio ci accompagna nell'ultimo afflato dei catanesi, l'ultima speranza offerta da una traccia che ci conduce alla consapevolezza di avere una band diabolica in casa nostra. (Francesco Scarci)

T.K. Bollinger - Shy Ghosts

#PER CHI AMA: Rock Blues, Jason Molina
C’è qualcosa di profondo, ancestrale, nella musica di T. K. Bollinger. Come già apprezzato nel suo precedente 'A Catalogue of Woe', del 2014, sembra che l’australiano riesca a canalizzare il proprio dolore in composizioni sofferte, aspre, spesso lunghe, che riescono ad ipnotizzare in modo inesorabile, anche a dispetto di un’apparente uniformità di stile e linguaggio che, in assenza di ispirazione, potrebbe risultare semplicemente noiosa. Rispetto al disco precedente, qui il cantante-chitarrista di Melbourne (che nelle foto appare sempre più una versione minacciosa e solenne di una qualche tipo di mormone) lascia per strada i suoi sodali That Sinking Feeling e fa tutto da solo, amplificando ulteriormente quell’alone magico ed evocativo che la sua musica, e la sua voce, donava al suo ultimo lavoro. Una voce sempre più dolente e peculiare, che ricorda a volte un Antony rurale o addirittura un Morrissey selvaggio, prende il centro della scena, accompagnata da chitarre acustiche, qualche percussione diradata, appoggi di pianoforte e un’elettrica lancinante, sullo stile del Neil Young della colonna sonora di 'Dead Man'. Voce che è assoluta protagonista nei 13 brani, per più di 70 minuti, costruiti a partire da pattern ritmici e armonici semplici e ripetitivi, che Bollinger riesce e declinare di volta in volta in blues straziati, delicate elegie soul e folk gotici caratterizzati da intriganti rimandi ad uno stile quasi gregoriano. I testi, al solito, sembrano voler indagare da più parti la solita vecchia domanda che attanaglia l’uomo nel suo tormento tra fede e ragione, ovvero “perchè la sofferenza esiste?”. La risposta, ovviamente, non è così semplice, e forse va ricercata negli occasionali squarci di speranza che fanno capolino nella cappa plumbea di questo 'Shy Ghosts'. Non è semplice individuare i pezzi migliori, tale è l’equilibrio e il livellamento qualitativo (molto alto) dell’intero disco, ma impossibile non citare almeno il terzetto iniziale composto da “All Seems Lost”, “The Milk of Human Kindness” e “No More”, capace di catturare e trascinare l’ascoltatore nelle profondità degli abissi di un’anima in perenne tormento, o il quasi-dub di “The Limits of What We Can Love”. Difficile dire con precisione cosa sia, ma c’è qualcosa di profondamente magnetico in questo disco, qualcosa che si annida tra le spire e le volute di un’ispirazione assoluta, tra l’oscurità di Jason Molina e l’estatica bellezza dei primi Sigur Ros. Non un album per tutti, e non per tutti i momenti della giornata – o della vita – ma se avete mai fatto conoscenza più o meno diretta con il dolore, in una qualsiasi delle sua forme, non potrete non rimanerne in qualche modo stregati. Minimalista, essenziale, scuro, bellissimo. (Mauro Catena)

(Yippie Bean - 2016)
Voto: 80

https://tkbollinger.bandcamp.com/

mercoledì 6 luglio 2016

The Drowning - Senescent Signs

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, My Dying Bride
Cardiff non è solo la capitale di quel Galles che tanto bene sta facendo in questo incredibile Euro 2016, ma anche la città che ha dato i natali ai The Drowning. Con un moniker del genere poi (la parola sta per annegamento) e una cover cd in bianco e nero, che genere mai potevamo aspettarci? Death doom ovviamente e arrivando i nostri dal Regno Unito, quali vi aspettate possano essere le loro influenze? Io direi primi My Dying Bride, Paradise Lost e Anathema, ho forse vinto qualche cosa? Se anche voi, tramite deduzioni logiche in stile Sherlock Holmes e il fido Watson, siete giunti a queste conclusioni, beh allora potrete proseguire nella lettura della recensione e sapere che 'Senescent Signs' è addirittura il quarto disco per il quintetto gallese, uscito a inizio giugno di quest'anno per la Casket Music. I brani inclusi in questo lunghissimo cd (66 minuti) sono otto più una breve intro, che nel loro pattern musicale ripercorrono quei sentieri tracciati in passato dal trittico di band menzionato poco sopra, tra le realtà musicali più famose della terra d'Albione. Aspettatevi pertanto oscure atmosfere e riffoni pesanti ("Broken Before the Throne"), talvolta anche veloci ("Betrayed by God"), corredati da vocals prettamente growl (anche se qualche urletto in scream ci scappa al nuovo vocalist Matt Small), ma ciò che non vi deluderà saranno piuttosto quelle aperture di desolata malinconia che corredano un po' tutte le song, squarci di raffinata melodia che rievocano lo spirito straziato e decadente di 'The Silent Enigma', 'Shades of Gods' o 'As the Flower Withers', veri capisaldi di un genere per me immortale. Se i The Drowning fossero usciti vent'anni orsono, probabilmente potrebbero sedere accanto o poco sotto i mostri sacri, autori di quei tre immensi album. Invece, uscire nel 2016 con 'Senescent Signs', potrebbe risultare ai più obsoleto, sebbene il disco riesca a mettere in fila dei pezzi interessanti: gli undici minuti di "Never Rest" sono riusciti a richiamare nella mia memoria le ariose orchestrazioni di 'Clouds' dei Tiamat, con le sue parti atmosferiche davvero niente male e gli arpeggi che popolano questo brano che si muovono tra death, doom e dark, e dove i gorgheggi di Matt, sfiorano un'inattesa delicatezza. Non mancano poi parti più dritte e death old school oriented ("Dawn of Sorrow", che si lascia ricordare almeno per un'ottima parte solistica), che francamente mi fanno un po' storcere il naso, così come pezzi un po' più carichi di groove ("At One With the Dead") che scomodano un altro ensemble inglese, i The Blood Divine. I toni si fanno ancora più cupi nella tormentata e lenta "House of the Tragic Poet", in cui compaiono anche lontane voci angeliche, che ritorneranno anche nel corso della conclusiva "The Lament of Faustus". 'Senescent Signs' è in ultima analisi un discreto album di death doom malinconico che certamente accontenterà i nostalgici fan di quelle sonorità di metà anni '90. Se potessi dare un personale suggerimento alla band, ridurrei le parti più death oriented del disco, andando ad esplorare piuttosto territori molto più vicini ai Tiamat del già citato 'Clouds' o ancor meglio dello splendido ma sottovalutato 'Wildhoney'. Osare per credere. (Francesco Scarci)

martedì 5 luglio 2016

Dew-Scented - Issue VI

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer
'Issue VI' è stato il sesto lavoro ufficiale per la band teutonica, esponente di punta dell'ondata di death/thrash band provenienti dalla Germania a inizio anni 2000. Attivi dal 1992, i Dew-Scented uscirono nel 2005 con questo album scavezzacollo, un disco prepotente, prodotto egregiamente da Andy Classen (Die Apokalyptischen Reiter, Disbelief). Da sempre la band palesa il proprio amore smisurato per 'Reign in Blood' degli Slayer e così, mixando il death a elementi thrash metal, granitici riffoni ed aperture melodiche, il quartetto tedesco ha così partorito questo lavoro. Album che, come sempre, mostra un’ottima tecnica individuale (secondo me, è spaventoso il lavoro dietro le pelli di Uwe Werning). I dodici pezzi (46 minuti) sono ideali per una serata in compagnia, all'insegna del pogo più massacrante. Il cd non dà tregua: ritmiche incalzanti, un mosh continuo a sfiancarci e poi assoli taglienti in puro stile Slayer, sebbene vi siano anche reminiscenze di scuola Over Kill. L’unica cosa che stento a soffrire dell'act della Bassa Sassonia, è la voce di Leif Jensen, troppo alta per essere gutturale, e troppo rauca per essere pulita, pertanto quello che ne viene fuori è alla fine un ibrido poco convincente. 'Issue VI' è il tipico album da headbanging, super tirato, adrenalinico, che lì per lì è anche piacevole, ma che alla fine può risultare anche abbastanza monotono, a causa della ripetitività del proprio sound. D’altro canto 'Reign in Blood', in 29 minuti se l'è cavata con una certa classe. (Francesco Scarci)

(Nuclear Blast - 2005)
Voto: 65

https://www.facebook.com/dewscented

Funeral Mantra - Afterglow

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Black Label Society, Spiritual Beggars
Alla fine del 2015 è uscito per la Sliptrick Records il primo lavoro su lunga distanza di questa heavy stoner band romana, i Funeral Mantra. L'album è molto lungo, supera i cinquanta minuti per un totale di dieci brani assai ragionati e fatti su misura per piacere ai tanti ammiratori del genere. La timbrica possente del vocalist Dude caratterizza non poco l'incedere dei brani, donando quel tocco necessario per avvicinarli ai maestri Spiritual Beggars, mentre lo stile più vintage a livello solistico e in certi riff di chitarra fanno scivolare inevitabilmente il sound verso le oscure terre dei gloriosi Candlemass. I Funeral Mantra si fanno notare per la classica devozione al Black Sabbath sound, qui più epico e per le escursioni in territorio Orange Goblin, sia per la potenza che per i giochi magnetici di alcune parti psichedeliche. Effettivamente il confine tra stoner ed heavy metal molto spesso si confonde nelle composizioni dei Funeral Mantra, che già dal nome e dall'artwork di copertina, tra l'altro molto bello, lasciano trasparire una doppia personalità insita nella loro musica. Provate ad ascoltare attentamente l'iniziale "Dimensions Onward" o la quarta "Brainlost" e troverete rimandi abrasivi che avvicinano la band capitolina anche alla particolare forma death metal dei mitici Gorefest. 'Afterglow' sebbene la durata decisamente impegnativa, si fa ascoltare volentieri perchè gioca su di un turbine di riff e una manciata di cantati veramente godibili e di sicura presa, prova che il gruppo romano, pur mantenendo un suono robusto, compatto e molto hard, non rinuncia, con motivata ragione, a costruire brani ascoltabili e memorabili, carichi di forza e che si possono ricordare, vedi "Gravestone Reveries" con il passo e le aperture da grande classico del rock. Forza, tecnica ed energia mescolate con sapiente intuizione per ottenere il giusto impatto granitico, fatto di rock pesante e acciaio, tra Black Label Society e Grand Magus ma anche tanta ammirazione verso la band di Michael Amott & soci e le sue gesta più progressive e complicate. Nel brano "In This Eyes", il quintetto italico diventa addirittura macabro, rallentando la velocità e adottando un'esecuzione al limite del doom, esasperando poi il proprio sound nella seguente omonima "Funeral Mantra", per poi scatenarsi in un monolitico anthem sludge come il brano "Parsec". Registrato e mixato egregiamente da Luciano Chessa al Moon Voice studio de L'Aquila, l'intero disco gode di un'ispirazione particolare e radiosa, messa in risalto da una produzione più che buona, da una scelta di suoni avvincente e da un'esecuzione dei brani ottima, fatta da musicisti navigati ed esperti. Sludge, heavy stoner, metal, prog rock, di tutto un po' in un disco di potente retro rock da far invidia a tanti se non a tutti, un lavoro raffinato e pregno di qualità, un macigno sonoro da ascoltare a tutto volume! Grande sorpresa! (Bob Stoner)

(Sliptrick Records - 2015)
Voto: 85

https://funeral-mantra.bandcamp.com/album/afterglow

lunedì 4 luglio 2016

Cosmic Letdown – In The Caves

#PER CHI AMA: Psych/Space Rock/Shoegaze
Secondo album per questi alfieri russi della psichedelia: si stenta a credere che sia passato solo un anno, tanta e tale sembra essere l’evoluzione nel suono, ma anche nell’artwork e nell’immagine, dall’esordio autoprodotto 'Venera', risalente al 2015. Se il primo disco era un’interessante quanto straniante declinazione space-shoegaze del verbo psichedelico, in 'In the Caves' questi cinque ragazzi sembrano aver percorso davvero tanta strada. Abbandonato il cantato in lingua madre, il nuovo lavoro mette in fila cinque composizioni per lo piú strumentali nel segno del miglior psych rock disponibile su piazza. Un suono chitarristico stratificato e avvolgente, steso su un drumming potente, vario e mai banale, il tutto innervato da strumenti a corda indiani e una voce femminile che fa capolino qua e là per innalzare il livello di coinvolgimento che arriva facilmente a toccare vette di rapimento estatico. Laddove l’esordio aveva una struttura più convenzionale e rimandava in maniere piuttosto esplicita a band quali Warlocks o Black Angels, per questo 'In the Caves' provate a pensare agli Spacemen 3 o ai primi Spiritualized alle prese con lunghe improvvisazioni ispirate alla musica mediorientale e avrete solo una vaga idea di questo meraviglioso dischetto, destinato a fondere la vostra mente nello spazio di una quarantina di minuti. La struttura di questi brani è decisamente piú libera ma non per questo la musica appare sfilacciata o poco coesa, al contrario il risultato è quello di un corpo unico, un fluire continuo e coerente di pura ispirazione – ecco perchè appare superfluo indicare una o più tracce come migliori rispetto ad altre - ben supportata da capacità tecniche e inventiva al di sopra della media. Può sembrare abusato, ma un termine come “viaggio” è in casi come questo perfettamente calzante per descrivere l’esperienza sonora mesmerizzante prodotta dai Cosmic Letdown. Se avete anche solo una minima dimestichezza con il genere, o se volete semplicemente abbandonarvi ad un’esperienza totalizzante, non dovete farvi sfuggire questo autentico gioiello. (Mauro Catena)

After All - The Vermin Breed

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Thrash Metal, Exodus, Xentrix
Tra le storiche formazioni belghe ci sono gli After All, band la cui fondazione risale al lontano 1992. 'The Vermin Breed', vecchio disco del 2005 è stato prodotto dal mitico Harris Johns (Helloween, Kreator e Sepultura). Sebbene la presenza di Mr. Harris alla consolle e uan certa esperienza della visto che stiamo parlando del loro quinto album, uscito per la semisconosciuta etichetta Dockyard 1 Records, 'The Vermin Breed' mi catapultò, grazie al suo sound, alla fine degli stupendi anni ’80, quando ero un ragazzino che si stava timidamente avvicinando a questo genere musicale. Avrete intuito che tale lavoro è fortemente influenzato dal thrash della Bay Area, zona che diede i natali a Metallica, Megadeth e Testament (tanto per citarne alcuni), ma quelli erano altri tempi. I cinque ragazzi belgi tentano di ripetere la lezione impartitagli dai maestri di sempre, andando a pescare però tra i passaggi dei meno noti Xentrix e Anacrusis, coniugando il tutto, ad un thrash più moderno. Il risultato che ne viene fuori? Mah, forse una sufficienza risicata i nostri la potrebbero anche raggiungere, ma proprio perchè a forza di ascoltare e riascoltare questo cd, si possono cogliere, oltre alle influenze succitate, altri interessanti elementi: uno speed metal analogo a quello degli Agent Steel, una rabbia degna dei mitici Anthrax o dei Nuclear Assault, ma anche un timido tentativo di conferire al sound proposto, quel minimo indispensabile spruzzo di originalità, necessario ad emergere dal calderone di band più o meno tutte identiche che imperversano la scena thrash. Tuttavia il compito non è stato superato: è arduo ascoltare album di tale fattura, fatti con estrema fretta senza la benché minima cura dei particolari. Il suono della batteria è quanto mai pessimo, lo stile del cantante è a dir poco fastidioso (talvolta stonato) e poco si amalgama col contesto generale; gli assoli non sarebbero neppure malaccio, ma non sono adeguatamente sorretti dalla base ritmica, tremendamente scontata. Il desiderio poi di conferire quell’aura eighties all’intero lavoro, con riffoni di chitarra anacronistici e coretti alla Exodus, penalizza ulteriormente un album che non brilla sicuramente di luce propria e assomiglia più ad un demo che ad una release ufficiale. Rimandati. (Francesco Scarci)

(Dockyard 1 Records - 2005)
Voto: 50

https://www.facebook.com/afterallmetal

domenica 3 luglio 2016

Ragin' Madness - Anatomy Of A Freaky Party

#PER CHI AMA: Southern Hard Rock
Farsi rapire da una band al loro primo live senza averli mai sentiti, non è una cosa scontata, ma per i Ragin' Madness (RM) è stato sin troppo semplice. Ma andiamo con ordine. Il quintetto nasce nelle terre padovane attorno al 2014 e raccoglie musicisti che hanno militato in varie band della zona. I RM si buttano a capofitto nella composizione di brani propri e dopo neppure un anno, danno alla luce il loro EP di debutto. Visto che il feeling era tanto e il riscontro del pubblico è stato immediato, in poco tempo arriva anche il full length 'Anatomy Of A Freaky Party', quattordici brani di ottimo hard rock misto ad un southern/metal che rappresentano appieno il modo di essere della band. Infatti, durante il loro concerto all'Isola Rock Winter Edition 2016, complice anche la location, il live set dei nostri ha letteralmente infuocato il pubblico, soprattutto grazie alla loro presenza scenica su di un palco parecchio figo. L'energia scorre a fiumi quando sono on stage, in parte grazie alla vocalist che sembra una scheggia impazzita, salta e balla come non ci fosse un domani, ma anche il resto della band non è certo da meno. Ma parliamo della loro musica, altrimenti rischio di fare un live report piuttosto che una recensione. Il CD apre con "The Guys are in Da Club", un pezzone classic hard rock con le chitarre solide e pregne di groove, e una batteria che conduce con linearità, ma si tratta puramente di una questione stilistica. Fin da subito spicca la gran voce della cantante, Giulia Rubino, dotata di una timbrica potente e modulata che certe colleghe si sognano solo di notte. Cosciente di questo, la cantante gioca letteralmente con i vocalizzi e le linee melodiche, facendo capire che ritmiche veloci sono il suo pane quotidiano. Le due chitarre se la spassano come due compagni di giochi che condividono una giornata insieme, il tutto condito da un basso pulsante e arrogante quanto basta. Un perfetto equilibrio di carezze e schiaffoni, ecco come potrei riassumere questi duecento secondi di rock, un'alternanza di melodie e ritmiche facilmente individuabile, la colonna sonora perfetta per una personalità bipolare. "Never Say no to Manta" la ricordo chiaramente durante il live, in quanto la band ha inscenato una sorta di siparietto dove appunto Manta (il bassista) veniva adorato per placare la sua collera. Un'altra calvacata rock dove basso (5 o 6 corde, non ricordo) in compagnia del bravissimo batterista, hanno srotolato BPM come se i cavalieri dell'apocalisse avessero finalmente dato fiato alle trombe. Di pari livello i due chitarristi che si alternano tra sezioni ritmiche e assoli degni del buon vecchio Slash. "Down in the Hole" è una song fortemente nu metal che vede la collaborazione di un secondo vocalist che duetta alla grande con la nostra beniamina, il tutto sempre condito dall'autoironia dei RM che avrete ben modo di apprezzare ben presto. L'intervento del sax sdogana un altro strumento non propriamente rock, anche se band come gli Shining (norvegesi) ne hanno fatto il simbolo della propria musica. Parecchi altri pezzi sono inclusi in questo 'Anatomy Of A Freaky Party', tutti veloci e potenti, tranne "We Can be Heroes", una straziante ballad ove pianoforte e voce, duettano come fossero un'unica entità. Questo a dimostrare che la band si diverte un sacco, ma sa anche concedersi i giusti momenti di raccoglimento ed introspezione. Bell'album, forse non sarà una produzione che brilla in fatto di sperimentazione e creatività, ma qui abbiamo cinque musicisti di alto livello che hanno sicuramente capito che il pubblico vuole sia un bello spettacolo che della gran musica, senza tralasciare il puro divertimento rilasciato dai Ragin' Madness. E noi non possiamo far altro che apprezzare e portare a casa. (Michele Montanari)