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martedì 17 maggio 2016

Skoll - Of Misty Fire We Are

#PER CHI AMA: Black/Pagan
Mi domando per quale motivo nessuno in Italia abbia dato una chance agli Skoll. Stiamo parlando di una band attiva nell'underground italico da più di vent'anni, fautrice di un black pagano che affonda le proprie radici nella tradizione folklorica nostrana. Che esce però per un'etichetta coreana e qui sta l'anomalia. Ci hanno comunque visto bene gli amici della Fallen Angels Productions a prendere sotto la propria egida l'act piemontese, che nella propria line-up vanta peraltro membri ed ex di Opera IX, Huginn e The True Endless, tanto per citare solo alcuni nomi. Il nuovo 'Of Misty Fire We Are' segue a distanza di tre anni 'Grisera', che ben aveva impressionato per il suo epico viking black. La sensazione con il nuovo disco è quella di immergersi nella desolata brughiera e li attendere, anche se non so cosa esattamente. E l'evocazione della opener "La Luna del Lupo", oltre a richiamarmi per mal celati motivi, 'Il Trono di Spade', è alla fine un epico e malinconico inno alla Luna e al suo essere in totale equilibrio con quanto di naturale stia sotto la sua luce. Il sound è quello di sempre, capace di miscelare un po' tutte le componenti black, pagane e vichinghe che da sempre contraddistinguono la band di M. e soci. "Into the Misty Forest I Go" è una tiratissima traccia di black thrash in cui a mettersi in luce è il martellare incessante del drummer Mayhem e a sorprendere invece una seconda parte dai forti connotati folk, sia a livello musicale che vocale. "Teutoburgo" è la narrazione di una battaglia, tra il fragore delle armi e le urla dei guerrieri, il tutto cantato rigorosamente in italiano (ma non è la sola traccia del disco ad utilizzare il nostro divin linguaggio), in un epico sound che può essere facilmente accostabile a quello degli Spite Extreme Wing. "Exercitus Antiquus" presenta invece un'importante componente atmosferica, fin qui tenuta in secondo piano, ma che qui assolve invece il ruolo predominante nell'economia di un brano che probabilmente per intensità emotiva, incedere doom e per il contenuto delle liriche, si conferma la più oscura del lotto. Non la mia preferita però, rappresentata piuttosto dalla successiva "Misty Mountains", con quel suo sound a metà strada tra Primordial e i Dimmu Borgir di 'Enthrone Darkness Triumphant', in cui la voce di M. si diletta tra l'evocativo e un growl sempre facilmente comprensibile. Arriviamo a "La Tempesta degli Elementi", il penultimo pezzo dei disco e non possiamo che rimanere piacevolmente colpiti dal suo incedere minaccioso, sorretto da sprazzi tastieristici che si contrappongono alle possenti trame ritmiche. A metà brano arriva anche il vento a sferzare con potenza l'aria, riuscendo addirittura a suggestionarmi e indurmi brividi di freddo, prima che il pezzo si infuochi nella sua seconda metà tra decadenti melodie e cupi fraseggi. A chiudere il disco ci pensa la breve ma efficace "Eternal Path" che in pochi minuti riassume l'epica e suggestiva strada imboccata dagli Skoll. Dei pagani! (Francesco Scarci)

(Fallen Angels Productions - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/BandSkollIta

domenica 15 maggio 2016

Дрём - 2

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Bisogna ammettere che il funeral doom ha un fascino eccezionale, riesce a paralizzare ogni momento di ascolto rendendolo immediatamente eterno, divinizzando quel senso di caduta profonda, portando il nostro spazio/tempo in una dimensione astratta e riflessiva, tagliata in due tra romanticismo e malinconia, muovendosi lentamente, costantemente nell'ombra, permettendoci infine di esplorare parti buie e meritevoli oppure malate e dannose del nostro inconscio inesplorato. Il funeral doom lo si ama o lo si odia, nessun compromesso è lasciato al fato. Tutta questa poetica come premessa alla presentazione di un album stupendo uscito lo scorso anno per la solita Solitude Productions, release che non fa altro che confermare l'elevata qualità di produzione dell'etichetta russa. Questa one man band riafferma, qualora fosse stato necessario, la presenza nel mondo del doom e di una scintillante scena russa in grado di soddisfare anche i palati più sopraffini al genere. Pari a tante proposte conterranee, questo artista di nome Дрём (Dryom) sale in cattedra offrendoci un magistrale affresco funeral, dai tratti esasperati e decadenti, pesantissimi, con brani di lunga durata (per una media di 15 minuti), tastiere infinite e una voce sepolcrale ai confini della realtà umana che alla fine risulterà essere il vero protagonista di tutti i pezzi. Dissonanze, suoni atipici e perfino l'utilizzo di un marranzanu - tipico strumento a bocca del sud Italia ma in realtà originario dei paesi del nord Europa, poi importato dai Normanni in seguito alla loro permanenza nel sud del bel paese - una batteria drammatica e ossessiva, una chitarra distorta e tagliente come una frusta, su brani che non si ripetono mai, dotati di una certa propensione verso un suono metal sinfonico che fa da comune denominatore a tutte le quattro lunghe tracce del disco, per un totale di circa sessanta minuti di puro oblio cosmico. L'artwork di copertina è poi cosi affascinante, con immerso nell'oscurità, un paesaggio post atomico invernale carico di suggestione. Ascoltando questo secondo album del mastermind russo si corre seriamente il rischio di perdersi, adorando gli esercizi gutturali di quella magnifica voce spettrale, emarginata, malata e trasudante un senso di vuoto persistente, avvertendo la presenza, anche per soli pochi attimi, di una luce carica di speranza, disseminati tra una composizione e l'altra senza mai cadere nel plagio, e con un'originalità ottenuta scavando nell'anima. Un album da ascoltare con il fiato sospeso! Una vera perla! (Bob Stoner)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 90

sabato 14 maggio 2016

Otus - 7.83 Hz

#PER CHI AMA: Post Metal Esoterico, Isis, Cult of Luna
Pur non capendoci granché, devo ammettere di essere profondamente affascinato dalla simbologia, dai messaggi criptici e da ciò che non si vede eppure sai che è li e vuole dirti qualcosa. Prendere in mano lo splendido digipack dei capitolini Otus (peraltro il nome di un genere d'uccelli che include i gufi, e dietro a questo moniker a mio avviso si cela qualcosa di misterioso) è un viaggio tra gli oscuri anfratti dell'io introspettivo che mostra l'approccio più empirico e scientifico (piuttosto che religioso), volto a mostrare una possibile via per raggiungere le "Porte della Percezione". Ecco, scritto questo, mi sono già perso per il sentiero della conoscenza, sotto l'effetto della mescalina e delle sue susseguenti esperienze mistico-psichedeliche, che verosimilmente vivrete con l'ascolto di questo lungo concept album, diviso in tre capitoli ispirati alle esperienze dello psicologo Timothy Leary, che appunto provò l'effetto di funghi allucinogeni contenenti psilocibina e poi dell'LSD, coniando lo slogan "Turn on, tune in, drop out" ("Accenditi, sintonizzati, abbandonati"). Tralasciando gli ulteriori aspetti che si nascondono tra le tracce di questo '7.83 Hz' (che si rifà alla frequenza di Schumann di 7.83 hertz del campo magnetico terrestre, e in generale anche del "brain entrainment" relativo allo stimolare degli stati emotivi attraverso l'ascolto di alcune vibrazioni specifiche; ma lascio a voi un più dettagliato approfondimento) mi abbandono immediatamente all'ipnosi guidata dal mantra dell'opener "Avidya" e dal suo successivo incedere tra suoni sludge/postcore a la Cult of Luna, corredato da growling vocals e chorus sciamanici, nonché da una certa effettistica che ricorda la psichedelia dei The Doors. Psichedelia che ritrovo anche nell'intro della seconda "Last Of The Four", traccia che si muove lenta e sinuosa grazie al suo riffing possente e alle voci baritonali del vocalist. Quello che colpisce è la veste seventies che si materializza quando le tastiere salgono in cattedra per cui improvvisamente, vedo apparire al mio fianco Jim Morrison a sussurrarmi nelle orecchie cosa scrivere in questa recensione. Già stordito dai suoni ritual-esoterici degli Otus, inizio anche a provare le prime mistiche visioni mentre scorro il booklet del cd, ove mi pare di intuire che la realtà in cui viviamo è una distorsione dell'Universo, per cui non c'è un dritto o un rovescio della medaglia, forse non esiste neppure un bene o un male e tutto va letto in una visione che fino ad oggi mi era completamente sconosciuta. Il suono nepalese della terza "Echoes And Evocations" prova ad aprire i miei chakra e sbloccare il mio terzo occhio. Che diavolo succede, provo a ribellarmi a questa situazione, ma la musica degli Otus prosegue nel suo intento di mettermi in equilibrio con l'Universo sebbene l'utilizzo di un approccio non del tutto convenzionale qual è il post metal, le percussioni tribali di "Phurba" e del mantra che a metà brano prova nuovamente a catalizzare i miei sensi ormai in balia della proposta, corrosiva e mistica allo stesso tempo, del quintetto di Roma. È un viaggio si, lo confermo, a cui vi suggerisco di non sottrarvi, rischiereste di avere dei rimpianti. Meglio lasciarsi traviare allora dalle magnetiche frequenze sonore degli Otus, e dalle onde della meditazione, quelle che emergono dalla corrosiva "Theta Synchrony", che trova il tempo di curvare la sua arcigna proposta per sprazzi di suoni elettro-ambient che mi consentono di entrare quasi in trance spirituale. Ed ecco quelle fantomatiche frequenze irrompere nella title track, quasi a voler penetrare a tutti i costi il mio cervello che continua ad ostacolare gli accadimenti. Non c'è verso però, la musica degli Otus ottunde i miei sensi, attraverso il delicato arpeggio di "Black Lotus", sulla cui eterea melodia si staglia spaventosa la voce del frontman, mentre l'armonia musicale smuove gli spettri di Isis e Cult of Luna, in quella che è la mia traccia preferita dell'intero lavoro, cosi imperniata di sonorità post a me care, ma anche di un certo ipnotico refrain dal vago sapore orientale. Il flusso dinamico degli Otus prosegue attraverso la fase alfa della meditazione, quella della liquida "Alpha Phase". Parlavo in precedenza di percezione della realtà: la lisergica "Res Cogitans, Res Extensa" accorre in mio aiuto, citando il buon Cartesio e la sua distinzione tra realtà psichica, quella che possiede le qualità di inestensione, libertà e consapevolezza, e la realtà fisica, che è estesa, limitata e inconsapevole. Una song lunghissima che avrà modo di risvegliare i vostri sensi intorpiditi, come una gentile carezza sul vostro viso grazie alle sue splendide melodie psych/post rock. La musica degli Otus si ferma qui dopo un viaggio di oltre settanta minuti tra filosofia, misticismo, empirismo ma soprattutto tanta musica post di pregevole fattura. Esoterici. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 85

The Haunting Green - S/t

#PER CHI AMA: Post-core, Neurosis
Li ho visti dal vivo, in compagnia degli Oranssi Pazuzu, mi hanno subito colpito. Sono arrivati dritti allo stomaco i The Haunting Green con il loro sound minimalista, aggrovigliandomi le budella, complici quei suoi umori stranianti e quell'aura sinistra che avvolge questo loro primo EP. Occhio però che il duo friulano non è di certo di primo pelo: Cristiano Perin, il vocalist nonché chitarrista e responsabile delle parti elettroniche del progetto, e l'affascinante Chantal Fresco (a sedere dietro le pelli) sono stati anche membri di uno dei più talentuosi e sfortunati ensemble della penisola italiana, gli A Cold Dead Body, che recensii su queste stesse pagine anni addietro, forse era il 2010, e che dopo quell'eccellente disco, se ne persero le tracce. I due musicisti tornano con un nuovo progetto di doom sperimentale che vanta puntatine nell'ambito del post metal, nell'ambient e nel drone. Quest'ultimo è già testimoniato dall'apertura "dronica" di "The Mournful Sons", traccia che delinea i contorni musicali dei The Haunting Green. La song ha una partenza contraddistinta da cibernetiche e soffuse atmosfere, che vengono mandate in frantumi dall'arcigno screaming di Cris, mentre la brava Chantal tocca sommessamente rullante e crash, in una traccia dai contorni melmosi, al limite dello sludge più ossessivo dei Neurosis. "Our Days in Silence" persiste nell'essere strisciante nel suo incedere, un po' come mettere in musica la classica immagine del serpente a sonagli che col suo movimento a fisarmonica, scivola nel deserto dell'Arizona. Il brano vira poi verso torbide e contratte atmosfere, prima di dipanarsi verso un lungo e acustico finale malinconico. Con "Eradicate" i toni si fanno ancora più caustici e pesanti, pur non essendoci alcuna vera e propria accelerazione a livello ritmico; quel senso di ansia è alla fine dettato da un sound di chitarra che si dirige verso malate spirali di distorsione che nel suo disarmonico suono, mi ha evocato qualcosa degli ultimi Ephel Duath. Un interludio noise drone, per cui sembra addirittura di udire il classico ronzio dei motori dei velivoli che ormai sorvolano comunemente i nostri cieli, ed è il tempo di "V", l'ultimo capitolo, peraltro strumentale, di questo disco. La song sembra però più un esercizio di stile di Cris, che si muove tra riffoni post metal, porzioni progressive (e jazz), per cui mi sento nuovamente in diritto di chiamare in causa gli Ephel Duath, e break acustici che convogliano il tutto verso l'apocalittico finale di questo interessantissimo EP. The Haunting Green: da tenere assolutamente sott'occhio e soprattutto vedere dal vivo. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 75

Warchief - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock/Sludge
Phonosphera Records ci sta viziando non poco: oggi parliamo di un altro interessante Lp dell'etichetta nostrana, il S/t dei finlandesi Warchief. Il 12 pollici è esteticamente una perla, partendo dalla cover art che raffigura un astronauta esausto che si lascia trasportare da un cavallo per una landa deserta dove sullo sfondo si stagliano arcaici edifici. Un'opera in stile sci-fi che ha lo scopo di attirare l'occhio e ammagliarlo con il suo look onirico. Il vinile è poi di un rosso brillante, quasi a raffigurare un sole incandescente che brucia alto nel deserto, in un cielo che potrebbe essere quello terreste in un prossimo futuro oppure quello di un altro mondo. Anche per i Warchief la stampa è stata fatta su 180 gr. di PVC, una garanzia di qualità per la lettura sul nostro fido giradischi. Il quartetto spazia tra sonorità stoner, sludge e rock, che unite alla loro buona attitudine, regalano quattro brani curati e dall'ottimo groove. Il disco inizia a girare, la puntina si abbassa sul fido piatto della Technics e la traccia di apertura, "Give", riempie la stanza. Un mid-tempo dal mood spirituale ed epico, dove i riff di chitarra sono una goduria per le mie orecchie, grazie anche a distorsioni grosse ma non troppo esasperate, il giusto per lasciar trapelare molte armoniche. Tramite il vinile sembra di accarezzare velluto di ottima fattura. Gli intrecci di basso e di batteria rispecchiano quanto di meglio l'hard rock abbia insegnato durante le decadi d'oro e i Warchief sembra ne abbiano fatto buon uso. La classica alternanza strofa-ritornello crea un ottimo equilibrio tra potenza e introspezione. Il cantato ha un ruolo molto importante nella song perché la sua cadenza e la sua timbrica regalano un non so che di epico, simile ad un canto primitivo che si alza per farsi udire da un dio che non ascolta. "Life Went On" è un'opera rock di nove minuti abbondanti, tramite la quale, la band attraversa varie evoluzioni stilistiche. La parte iniziale è caratterizzata da una ritmica lenta e ossessiva, con un soffice riff distorto di chitarra che cerca di ipnotizzarvi per portarvi nelle lande perdute del subconscio. L'esplosione non si fa attendere, con il vocalist che sale di tonalità fino a toccare le stelle, poi la calma torna improvvisa e si ricomincia daccapo con una variazione semplice ma efficace del tema. Mentre il basso tesse una trama di sub frequenze che smuovono il nostro io interiore, l'esplosione torna e ci investe, forse in modo un po' prevedibile. La psichedelia deriva più dalle ritmiche e dai semplici riff che dai classici assoli. L'influenza dei Truckfighters e affini si percepisce facilmente, ma il cantato e gli arrangiamenti aiutano i Warchief a scrollarsi di dosso questa pesante somiglianza. Il disco chiude con "For Heavy Damage" a cui è dedicato l'intera side b, quindi circa ventuno minuti che sembrano riprendere il tema della precedente traccia, quasi ad esserne essa stessa un'evoluzione. I riff si fanno più cadenzati e sporchi di sonorità blues, ma allo stesso tempo si sente parecchia influenza rock anni '70 che tanto sembra cara alla band. Gli stacchi e le riprese compongono i dieci minuti della prima parte e aiutano a non abbassare mai il livello di guardia, grazie ad allunghi che ci lasciano godere con calma ogni singola sfumatura prodotta dalla puntina del giradischi. Un assolo alla Electric Wizard ci dimostra che la sezione delle chitarre se le cava bene anche sotto quest'aspetto, poi il quartetto si fa prendere da un'isteria musicale e continua con la propria evoluzione. Il brano chiude con un campionamento vocale di qualche film di vecchia data, sempre di grande effetto, anche se un po' troppo di moda nell'ultimo periodo. 'Warchief' alla fine è un buon esordio che mette in chiaro le doti della band finnica, sebbene in un panorama musicale, lo stoner rock/sludge, decisamente affollato; credo tuttavia che grazie ad un ottimo cantato e all'ottima capacità compositiva, i Warchief saranno in grado di ritagliarsi la loro fetta di notorietà. Facile intuire, che questa crescerà proporzionalmente con l'impegno e il sacrificio. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 75

giovedì 12 maggio 2016

Malevolentia - Répvbliqve


#PER CHI AMA: Black Symph, Fleshgod Apocalypse, Dimmu Borgir, Xerath
Rappresenta la normalità per il terzetto di Belfort prendersi lunghi periodi di pausa tra un disco e il successivo: era successo con il debut album nel 2005, per cui dopo sei anni uscì 'Ex Oblivion' (recensito dal sottoscritto su queste stesse pagine nel novembre 2011) e finalmente dopo altri cinque anni di silenzio, ecco giungermi tra le mani 'Répvbliqve', sempre edito dalla Epictural Production. Che dire di nuovo dei nostri sinfonici blacksters? In realtà non molto, visto che la proposta dei transalpini riprende là dove si era interrotto con 'Ex Oblivion'. Probabilmente l'unica novità sostanziale è l'aver enfatizzato la componente orchestrale, mantenendo comunque inalterata la ferocia di fondo. Lo dimostrano i fatti: "Annuit Cœptis" è la prima selvaggia traccia che irrompe nel disco dopo la classica intro. Sicuramente da più parti si dirà che i Malevolentia vogliano emulare i maestri Dimmu Borgir (o i nostrani Fleshgod Apocalypse), e in parte potrebbe anche essere vero. Tuttavia quello che colpisce maggiormente nella nuova fatica di Spleen e soci, è la carica cinematografica che intride ciascun singolo brano di 'Répvbliqve', che lo rendono cosi maestoso e ricco di contenuti. E cosi in "Völuspá", accanto alle torve e malvagie vocals di Spleen, ecco accostarsi il cantato operistico di una gentil donzella (la si ritroverà lungo tutto l'album), con la musica che comunque prosegue la sua corsa sui binari di magniloquenti orchestrazioni che ben si sovrappongono a sinistre sfuriate black. Chiaramente le tastiere e le orchestrazioni assumono il ruolo cardine nella matrice sonora dei Malevolentia, ma il risultato è sicuramente di rilievo, che mi rincuora del fatto che il black sinfonico ha ancora ragione di vivere e di dire la sua. Cosi "Etemenanki", lungo il suo imperioso scorrere, mi fa venire i brividi per le sue straordinarie orchestrazioni (fortissimo qui l'influsso dei Dimmu Borgir, devo ammetterlo) e mi fa arricciare i baffi per la maligna aura che possiede. Un epico bagno di sangue che avrà modo di esaltare i vostri sensi anche attraverso la pomposità dell'intermezzo "Virtù & Fortuna", che prepara la strada alla maestosità di "Magnus Frater Spectat Te", un brano che mette in evidenza anche alcune linee di scuola death metal, su cui si stagliano cori ritualistici. Splendido poi il break centrale, che ha il ruolo di generare una fortissima suspence. Questa sembra infatti essere la ricetta dei nostri nel loro flusso sonico: creare una certa tensione emotiva, da cui scatenare poi la propria tempesta ritmica. Ovviamente non è tutto oro quel che luccica, e se dovessi cercare un difetto a 'Répvbliqve', lo andrei a identificare nell'eccessivo numero di brani, ben 14, che alla lunga potrebbe distogliere anche l'attenzione di chi ascolta con piacere questa monumentale opera di black sinfonico, che a livello lirico chiama in causa il clima di autoritarismo e oppressione descritto da Orwell, ma anche una certa occulta simbologia massonica, che si ritrova nella grafica del digicd, il tutto poi cantato rigorosamente in lingua francese. Che altro aggiungere se non invitarvi caldamente all'ascolto di 'Répvbliqve', nuova maestosa opera dei Malevolentia. Prossimo appuntamento? Speriamo un po' meno dei canonici cinque anni, mi raccomando, ci tengo! (Francesco Scarci)

(Epictural Productions - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MalevolentiaBM

mercoledì 11 maggio 2016

Funeral - In Fields Of Pestilent Grief

REISSUE:
#PER CHI AMA: Death/Doom
Ho avuto il piacere di ascoltare una recente ristampa di 'In Fields Of Pestilent Grief', album del noto gruppo norvegese Funeral, risalente all'anno 2001. Si tratta del secondo full-length per i nordici veterani del doom metal, che negli anni hanno spaziato e sperimentato all'interno di diversi generi, perseguendo differenti strade stilistiche nel corso della loro carriera. Il disco in questione, appartiene alla fase doom melodica della band, che si era già assestata con il debut 'Tragedies'. La peculiarità di questo periodo è la presenza dietro al microfono di una voce femminile, Hanne Hukkelberg, che senza dubbio contribuisce enormemente a forgiare lo stile caratteristico dei Funeral. Voci acute e spettrali apportano infatti quel giusto tocco gotico al doom pesante dei norvegesi, che tuttavia mantiene anche ricchi passaggi e linee vocali (quasi) melodiche. Il muro sonoro creato da chitarre e basso pesantemente distorti pare infatti impenetrabile, salvo poi aprirsi in fraseggi e passaggi in cui aleggiano melodie taglienti, come nello stacco chitarristico dell'opener “Yeld To Me”, o addirittura sezioni acustiche e pulite. Fanno la loro comparsa persino degli intermezzi strumentali (la title-track e la chiusura "Epilogue"), completamente pianistico il primo, mentre nell'atto conclusivo si articolano orchestrazioni tastieristiche, che terminano l'opera con una leggera sfumatura, in un'atmosfera da brivido. Le ritmiche vengono mantenute lentissime ed inesorabili e il loro incedere straziante è ciò che origina la mesta atmosfera di decadimento e tristezza che pervade l'intero album. Questo trascinarsi di cupe emozioni è acuito anche dalle vocals acutissime e tetre, che sovrastano l'energia e la potenza dell'impianto “Funeraliano”: queste rappresentano il tocco finale, la ciliegina su quest'ottimo lavoro compositivo. Nonostante la monoliticità del genere esplicata attraverso tempi estremamente lenti possa indurre a una certa ripetitività, le notevoli abilità compositive della band fanno si che ciò non accada. Anche nelle situazioni che possono sembrare più monotone e scarne, si avverte come i Funeral riescano a garantire fantasia e varietà ad ogni passaggio, pure con estrema semplicità. Ricche variazioni sul tema sono apportate da molteplici elementi, dalle orchestrazioni cupe delle tastiere, dagli assoli melodici di chitarra, o dai fraseggi mistici ripetuti fino allo sfinimento, senza tuttavia mai annoiare. Basti ascoltare “The Stings I Carry“, in cui il tema chitarristico viene instancabilmente trascinato dall'inizio alla fine, come l'eco di un perpetuo lamento. Altro pezzo notevole è “When Lights Will Dawn” che ci dimostra appieno quanto appena detto: il suo tema onnipresente seguito dai chorus e dagli acuti della Hukkelberg, le ritmiche inesorabili, gli assoli conclusivi e quella costante atmosfera quasi epica, sospesa a metà, contribuiscono a donare una sensazione di ascensione dall'oscurità opprimente. Si tratta del brano più lungo del disco e sicuramente anche del più impegnativo e riuscito dal lato musicale-compositivo. Un brano un po' diverso dagli altri è invece la nona traccia, “Vile Are The Pains”. La definisco differente perché è l'unica dell'album a non essere cantata dalla brava Hanne, ma è eseguita interamente dal tastierista Ottersen. Al termine di questa special edition, si trovano due tracce bonus, altro non sono che le vecchie demo version dei pezzi “When Lights Will Dawn” e “The Stings I Carry”, anch'essi cantati da voce maschile in una versione alternativa davvero pregevole. Penso non serva aggiungere altro per descrivere un disco del genere, che sicuramente ha rappresentato un capitolo estremamente significativo nella storia dei Funeral, band simbolo per tutta la scena doom da vent'anni e più a questa parte. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

martedì 10 maggio 2016

Terrorfront - We Don't Come in Peace

#PER CHI AMA: Black/Thrash Old School, primi Bathory, Possessed
Con una cover cd che richiama inequivocabilmente 'Panzer Division Marduk' dei Marduk (l'affinità con la band svedese rimarrà limitata al solo artwork), andiamo a conoscere i Terrorfront, band nostrana proveniente dalle pendici del Vesuvio, Napoli. 'We Don't Come in Peace' dichiara apertamente la natura guerrafondaia del quartetto partenopeo, che in questa prima loro fatica, ci aggredisce con soli cinque pezzi (che includono l'intro e la feroce cover dei Bestial Mockery, "Necroslut"), dediti a un sound sporco e primitivo. "Human Decline", oltre ad evidenziare la natura decadente della nostra società e a presagire l'arrivo di una nuova apocalisse, mette in mostra la brutalità della proposta old school del combo italico, anche a livello di una produzione casereccia, di quelle che nascevano in una session con amici, registrata nello scantinato di casa. Se vogliamo anche la musica dei quattro teppisti campani scava nelle viscere del metal, scomodando mostri sacri del black thrash primordiale, come Possessed o i Bathory del primo lp omonimo, che si rintraccia nel riffing abrasivo di "The Sons of Radiations". Per chi è nato sotto il segno di queste sonorità scarne e corrosive, a cui aggiungerei anche i Kreator degli esordi e gli Aura Noir, non sarà certo difficile dare un ascolto a questo disco, sarà come un tuffo nel passato, avere l'impressione che gli anni '80 non siano mai conclusi, che 'Morbid Visions' dei Sepultura o 'Hell Awaits' degli Slayer girino ancora come tapes, nel vostro rude impianto hi-fi, privo mi raccomando, di un lettore cd. Per chi invece è abituato a produzioni cristalline, pompose e magniloquenti, nonchè di sonorità contaminate, all'insegna del post-qualcosa, avantgarde o similia, l'EP dei Terrorfront rappresenterà soltanto un'anarchia musicale da cui fuggire. Per pochi nostalgici. (Francesco Scarci)

(Lupus Niger - 2015)
Voto: 60

https://www.facebook.com/terrorfront666