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mercoledì 13 gennaio 2016

Celestial Meisters - S/t

#PER CHI AMA: Post-core/Sludge, The Ocean, Old Man Gloom
La band dei Celestial Meisters, nella sua insolita veste di copertina osannante i poteri dei fumetti e cartoni manga, non si smentisce, usando addirittura la lingua giapponese per il cantato. Costituitisi nel 2012, provenienti da Wuppertal, i nostri presentano un post-core dall'umore molto nero con buone escursioni fuori genere, dai tratti psichedelici e filmici, con innesti di minimale elettronica e campionature, presumo, di provenienza manga, che intensificano l'aspetto debordante dei brani. La lingua giapponese è di sicuro effetto se accostata ad un cantato hardcore con cui si amalgama perfettamente, permettendomi di saltare la difficoltà iniziale assai facilmente ed innamorarmene immediatamente dopo con altrettanta facilità. L'interpretazione drammatica del vocalist poi è una spinta addizionale che fa anche da buon collante con una musica costantemente tenuta in tensione, in un post-core dalle matrici moderne, ipnotiche (ascoltatevi "Graham's Melancholy") e futuristiche, proprio come l'artwork robotico di copertina. I Celestial Meisters suonano con onestà e sapienza, giostrando riff pesanti, potenti e d'impatto, un pugno dritto allo stomaco come potrebbe essere un brano tratto da un album degli Old Man Gloom, con influenze post metal alla The Ocean, e alla fine il quintetto teutonico si fa portavoce di un sentore negativo che viene trasmesso da ogni singola vibrazione sonora. Sarebbe interessante anche intuire le connessioni tra testi e il pianeta manga, ad esempio nell'ottima traccia finale, "Celestial", con quella voce bambina, campionata da qualche film o cartoon, che esce tra urla al limite della disperazione umana, chissà quali le tematiche trattate nel brano. L'EP, uscito nell'autunno del 2015, rappresenta un valido biglietto da visita per il combo germanico: tutti i brani restano in piedi dall'inizio alla fine mostrando forte solidità, in un cd autoprodotto in maniera lodevole, curato e ben suonato. Magari ad una band dalle simili caratteristiche non si apriranno immediatamente le porte dell'Olimpo post-core ma sicuramente un posto d'onore tra le raccolte dei ricercatori di nuove emozioni e particolarità al vetriolo, i ventotto minuti di puro grigio magma energetico di questo EP d'esordio, lo troveranno di certo. Da ascoltare ad alto volume! (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

A Flourishing Scourge – As Beauty Fades Away

#PER CHI AMA: Black Progressive
Affrontare questa band di Seattle è compito arduo: nei ventotto minuti totali del cd infatti si può trovare di tutto e questo complica davvero le cose. Per iniziare dobbiamo riconoscere che i quattro brani sono belli e originali, che i musicisti in questione si distinguono per fantasia e sensibilità musicale, qualità e tecnica, che 'As Beauty Fades Away' suonerà alle vostre orecchie come ostico, atipico ma anche divino se solo riuscirete a carpirne il significato sonoro. Io ci ho provato, ci ho messo un po' e alla fine ho scoperto con piacere che questi A Flourishing Scourge sono una scommessa sul futuro del metal estremo. Quello che si cela tra le quattro lunghe tracce dell'album è un'attitudine progressiva evoluta (stile Hammers of Misfortune), caparbietà da doom metal band, atmosfere di chiara matrice Agalloch, un'anima death metal alla Anterior, voce nervosa e gutturale alla maniera dei Neurosis e la volontà di stupire tecnicamente tanto cara agli Opeth. Sia chiara una cosa però: gli A Flourishing Scourge non imitano nessuno, non ricalcano le impronte dei maestri, anzi, ne fanno ottimo insegnamento creando nuove strade e nuove aperture mentali. Quindi, le parti più dure opteranno per non essere esasperate ma solamente potenti, saranno più scarne, compresse e leggibili, tirate, contorte ma sempre decifrabili, sulla scia dei mitici Disharmonic Orchestra, tutta tecnica da gustare con quella verve retro rock che in alcune band sludge/doom fa davvero la differenza. Ecco degli assoli pirotecnici, le cavalcate e la doppia cassa che vola, il black metal d'atmosfera ma niente suoni glaciali, banditi in toto. Le sonorità si muovono calde, intense, nessuno spazio al freddo dominante, vietato guardare ai ghiacciai del nord. Il suono si scalda come lava colata, il ghiaccio si scioglie in un'iperbole grigia per aumentare quel senso di malinconia autunnale, momenti di vita che bruciano, quel senso di reale caduta, evanescente e inspiegabile che pervade l'intero disco e che raggiunge apici altissimi nei vari pezzi acustici sparsi qua e là nel disco (con "In Continuum" ad essere il mio brano preferito) . Proprio qui, in queste parti delicate e riflessive, i nostri quattro strumentisti americani trovano la loro ideale collocazione con partiture sofisticate e variegate, nate tra i ricordi delle sculture sonore di 'Damnation' degli Opeth, il capolavoro 'Grace' di Jeff Buckley e 'The White' degli Agalloch. L'artwork estratto da 'Il Trionfo della Morte' di Bruegel completa l'opera in bellezza per questo gioiellino underground autoprodotto in maniera lodevole. Album difficile da catalogare, intenso come i lavori dei mitici Agalloch. Una band seria e motivata, con tutte le carte in regola per approdare ad un full length memorabile. Consigliato. (Bob Stoner)

(Self - 2015)
Voto: 75

martedì 12 gennaio 2016

Dawn of a Dark Age - The Six Elements, Vol.4 Air

#PER CHI AMA: Black Mediterraneo, In Tormentata Quiete, Windir
Puntuale come un orologio svizzero, chirurgico nelle durate dei suoi album (36 min), matematico nel numero dei pezzi inclusi, Vittorio 'Vk' Sabelli torna con il quarto capitolo della sua personale esologia dedicata agli elementi. Dopo Terra, Acqua e Fuoco, è il turno ovviamente dell'Aria. Innanzitutto, con somma gioia, in 'The Six Elements, Vol.4 Air' registriamo la presenza di un batterista in carne ed ossa, nella fattispecie Diego 'Aeternus' Tasciotti, noto per la sua militanza, tra gli altri, negli Handful of Hate e nei Lord Vampyr. Dietro al microfono questa volta, a prestare la propria voce, l'ottimo ed eclettico Lys degli Enisum. Con questa nuova line-up, il buon VK si lancia in altri sei brani di musica estrema, etnica, folkish, a sorprendere ancora con il suo sound votato allo sperimentalismo "mediterraneo". Direi che non molte sono le differenze con i precedenti lavori, se non una maggiore organicità e un impatto sonoro decisamente meno freddo rispetto al passato, legato alla presenza di un vero batterista dietro le pelli. Esclusa l'intro, i veri brani esordiscono con "Argon Van Beethoven (1%)" - che razza di titolo è mai questo - song in cui vediamo nuovamente la band miscelare il proprio estremismo musicale (di scuola nordica) con i classici frangenti acustici dedicati all'esplorazione di sonorità dal sempre più forte sapore mediterraneo, condite dall'utilizzo di splendidi strumenti, sax e clarinetto su tutti, che arricchiscono le tracce del mastermind molisano. "Children of the Wind" è un pezzo black mid-tempo che vede i nostri sciorinare sinistre melodie di chitarra, arrangiate da un infervorato clarinetto che sembra ripercorrere le melodie di uno stralunato Sergej Rachmaninov. Qui musica classica e black metal si incontrano e convivono in pace, dimostrando quanto la musica possa compenetrarsi tra i generi più disparati, cosi come la voce (in scream e growl) del bravo Lys riesce a convivere con il vocalizzo improvvisato di un'eterea donzella. Un arpeggio basico apre "Darkthrone in the Sky", song che verosimilmente vuole essere un tributo nei confronti dell'act norvegese, citato da VK come influenza per il proprio sound. La song è abbastanza semplice ma nella sua essenzialità risiede un'altra verità: si può fare ottima musica mettendo insieme anche pochi accordi. Se temete di annoiarvi, non ce ne sarà il tempo perché il terzetto architetta una traccia nebulosa, atmosferica e dal mood malefico, soprattutto nelle sfuriate conclusive, dove tra i blast beat impazziti, s'insinua diabolico più che mai, il verso del sax. La quinta "Jukai" è suddivisa in due sottotracce che si muovono a cavallo tra un black mid-tempo e feroci sgroppate condite da chitarre zanzarose, con gli ormai immancabili arrangiamenti a base di pianoforti, tastiere, flauti e chi più ne ha più ne metta, in una traccia che risente addirittura di un lontano ed epico richiamo ai Bathory. Che altro dire, se non invitarvi all'ascolto di questo stravagante artista che da sempre ha il merito di sperimentare lungo i sentieri oscuri del metallo nero. (Francesco Scarci)

(Nemeton Records - 2016)
Voto: 75

Les Lekin - All Black Rainbow Moon

#PER CHI AMA: Psychedelic Stoner, Pelican
Sei tracce per quasi 50 minuti di viaggio in questo debut album del trio austriaco Les Lekin. Dalla breve "Intro" (quasi 2 minuti, costruita su un ruvido ma inquietante arpeggio di chitarra) alla lunghissima "Loom" (oltre 13 minuti – che, con la straordinaria "Solum", è il capolavoro del disco), questo 'All Black Rainbow Moon' è un piccolo capolavoro sotto ogni punto di vista. La sezione ritmica costruisce un tessuto solido e groovy: su una batteria minimale ma fantasiosa quando serve (splendido il pattern delle rullate nei main riff di ‘Solum’), un basso ruvido, pieno e pesante, fa da architettura per vere e proprie cattedrali di psichedelia oscura e riff tossici. È la chitarra a farla da padrone: il talentuoso Peter G. si muove senza sosta tra riverberi, delay, distorsioni sludge, arpeggi e feedback, trascinando l’ascoltatore in una giostra multicolore di suoni angelici e atmosfere diaboliche, melodie indimenticabili (fischietterete "Allblack" per giorni interi, ve lo garantisco) e granitici riff stoner. Quasi tutti i brani sono legati tra loro da un feedback di chitarra che, idealmente, trasforma 'All Black Rainbow Moon' in un unico, lunghissimo trip psichedelico strumentale, perfettamente bilanciato nelle dinamiche e nell’equilibrio tra poesia e pesantezza, e perfettamente registrato e prodotto. Spero di poterli vedere dal vivo: sono certo che questi stessi brani, suonati live, diventino palco per splendide improvvisazioni. Indimenticabili. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2015)
Voto: 80

domenica 10 gennaio 2016

Stories From the Lost - Impairment

#PER CHI AMA: Alternative Elettronica
SoMnius deve essere un'anima inquieta che rifiuta di stare con le mani in mano e sente la necessità di dar sfogo di continuo alla propria creatività. Nel 2013 con la sua band omonima, nel 2015 con i Varen; doveva in un qualche modo colmare il gap temporale fra questi 2 anni e cosi nel 2014 è uscito con il quartetto degli Stories From the Lost, e quello che è il secondo album per la band belga, dopo 'For Clouds' uscito nel 2012. 'Impairment' è peraltro un doppio cd, contenente ben 15 brani strumentali che strizzano l'occhiolino a un alternative post metal dotato di forti venature elettroniche. Il disco si muove tra possenti riff di chitarra, frammenti parlati ("The Haze II"), estrapolati magari da qualche film (questo non mi è dato saperlo), breaks elettronici e bombastici arrangiamenti orchestrali. Ecco, se pensavate che anche in questo disco potesse apparire lo spettro black di SoMnius, state pure tranquilli, perchè qui avrete di che divertirvi con le splendide melodie post- dei quattro di Zottegem. L'album è lungo (oltre 75 minuti), quindi mettetevi comodi, spegnete le luci e rilassatevi, potrete immergervi in un lungo e fruttuoso viaggio, a tratti spensierato, a tratti malinconico e in alcuni momenti quasi danzereccio ("Impulsion"). La bellezza di 'Impairment' alla fine risiede nella sua eccletticità, nel suo passare da oscuri frangenti, ad altri più meditabondi, passando da intensi attimi di malinconia fino ad arrivare ad abbracciare l'elettronica tout court, le colonne sonore ("Mighty Nobody"), l'ambient ("Benefits") e il cinematico ("Complex #"), mantenendo comunque intatto lo spirito post incarnato dalla band fiamminga. Mancano le vocals lo so, ma la loro assenza è supplita dalla presenza di quel parlato campionato di cui facevo menzione inizialmente, ma anche da tutto l'apparato musicale che contraddistingue la musica degli Stories From the Lost. Il secondo cd mostra un approccio pesantemente più votato alla elettronica e questo sinceramente non mi turba più di tanto: "Black" è una breve intro quasi techno, mentre in "Duosign" i nostri sperimentano un noise cibernetico. Le atmosfere si fanno ancor più cupe e surreali, e sembra addirittura di essere finiti nel set cinematografico di 'Blade Runner' dove "ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire". Gli Stories From the Lost mi hanno conquistato con il loro sound inedito che necessita però di grandi aperture mentali. (Francesco Scarci)

(Dunk! Records - 2014)
Voto: 75 

Rusty Pacemaker – Ruins

#PER CHI AMA: Gothic/Dark/Alternative
Uscito per la Solanum Records nel 2015, l'ultima fatica della one man band austriaca, Rusty Pacemaker, si muove tra l'alternative e il gothic rock irrorato d'atmosfere dark decadenti. Impressionante il secondo brano "Made of Lies" che a livello sonoro sembra un brano dei The 69 Eyes epoca Brandon Lee, con un cantato che emula come per incanto, la rimpianta ugula punk del Joy Ramone ai tempi di 'Pet Cemetery'. Passando alle vellutate "Ocean of Life" e "Night Angel" (un brano delizioso!) dove il buon Rusty è affiancato in duetto da Lady K si cambia registro, ampliando lo spettro romantico del brano, e configurandolo in una parentesi storica appartenuta gloriosamente ai Theatre of Tragedy. Musica dal potere oscuro e trasversale che usa atmosfere alla Der Blutharsch, una forma di recente punk minimale e alternativo di stanza tra i Mission of Burma e Death of Samantha, mescolandola con la vena buia dei seminali Crisis, pre Death in June e i Damned del periodo gotico. Troviamo un certo gusto per l'oscuro e l'intromissione sovente di interventi dal sapore goth alla Sanguis et Cinis ultimo periodo, tutto prodotto in salsa moderna e dai tratti metal alla A Pale Horse Named Death. Ottima la forma acustica di "Forever" dove il fantasma di Wayne Hussey, orfano dei The Mission, si mette in mostra, poi di corsa verso la fine, continuando a rimescolare le suddette coordinate sonore per un totale di quasi un'ora di onorato gothic rock metal con qualche caduta di stile e balzi in avanti, notevoli ed interessanti. In verità tutto l'album risulta stimolante ma leggermente fuori tempo massimo per il periodo metal attuale, perfetto per chi ha vissuto qualche anno fa il risveglio del rock gotico. In generale 'Ruins' rimane un buon lavoro con alcuni punti al di sopra della media, vedi "Matter Over Mind". Piacevolissimo, completo, lungo ed efficace il'ipnotico brano "Pillow of Silence" posto in chiusura del cd. Infine, ottimo l'artwork di copertina e la produzione. Album dalle qualità tutte da scoprire, destinato ad un pubblico amante di romanticismo e notturni territori gothic rock. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

(Solanum Records - 2015)
Voto: 70

sabato 9 gennaio 2016

Somali Yacht Club - The Sun

#PER CHI AMA: Post/Stoner/Shoegaze
Se parli di Ucraina e stoner viene subito da pensare agli Stoned Jesus, band rivelazione che imperversa già da qualche anno e che sta riscuotendo sempre maggior successo tra il pubblico amante del genere. I Somali Yacht Club hanno in comune poco altro con la band sopracitata, in realtà il loro genere si discosta e si riempie di influenze shoegaze e post rock che rendono il loro sound più etereo e meno ruvido. Una sorta di Mars Red Sky ma con una voce meno fastidiosa per intenderci. In generale alla band Ucraina (per la precisione di Lviv) piace sperimentare, per cui troverete un intermezzo in levare (!!) come in “Sightwaster”, una suite che nasce come brano post rock, diventa stoner a circa metà brano senza disdegnare infine innesti di altro tipo. Il tutto fatto in modo molto naturale e semplice, puro istinto, ma con cognizione di causa. In totale l’album contiene cinque brani che vanno dai sette ai dieci minuti di durata, questo a sottolineare anche la complessità compositiva a cui la band sembra tenere particolarmente. Attivi nella scena da più di cinque anni, il trio ha all’attivo un precedente EP che gli ha permesso di riscuotere un discreto successo, confermato anche dagli innumerevoli live in patria e in giro per l'Europa. “Up in the Sky” è probabilmente il brano che rappresenta meglio l’album e l’essenza della band: un inizio lento dove il riff desertico di chitarra conduce l’ascoltatore verso l’assolo psichedelico, mentre la voce eterea chiude il cerchio in modo impeccabile. Un brano emotivo e colmo di atmosfera, ricco di diverse linee melodiche che viaggiano a livelli di ascolto diversi. Quando a circa metà sembra che il brano stia per concludersi, i Somali Yacht Club ne approfittano per velocizzare il ritmo e fuggire verso la cavalcata finale che si potrebbe considerare una traccia a sé stante. “Signals” , dopo l’intro di basso a cui si uniscono progressivamente gli altri strumenti, parte in modo sommesso, con un riff liquido di chitarra che conduce verso l’esplosione di fuzz, potente, ma non dirompente come prevede il genere. Il basso ha il suo momento di gloria e i suoi intrecci, al limite del prog, trascinano gran parte del brano mentre il cantato è sempre sporadico, quasi un orpello stilistico da aggiungere qua e là al bisogno. In conclusione la band ha fatto un discreto lavoro con questo album, ci sono buoni spunti (vedi gli intermezzi fusion), anche se in certi passaggi si sente la forzatura di aver voluto a tutti i costi un brano di lunga durata. Ancora qualche tempo per la maturazione artistica e poi il trio potrò dire la sua in maniera più incisiva. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

Forbidden Planet - From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity

#PER CHI AMA: Instrumental Prog Rock/Art Rock
Adam, Laurence, The Freq e Dave sono i 4 musicisti di Singapore che compongono i Forbidden Planet che debuttano nel 2015 con l’album 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity'. Mi immagino un gruppo di 4 ragazzi che vogliono divertirsi seguendo la loro passione. Suonare quello che viene fuori da una delle loro mille jam session. Da queste scartano poco o niente e prendono per buona una, due, undici canzoni, decidendo quindi di confezionare un bel regalo. Il loro regalo. Un cd autoprodotto. A loro va il mio rispetto. Tutto il loro viaggio è un'esperienza magnifica che ogni ragazzino, che prende in mano uno strumento, prima o poi percorrerà. Lo deve fare. Una volta concluso questo periodo perfetto, che rimarrà come pilastro formativo della sua vita, è giusto lavarsi la faccia, magari fare colazione e cominciare a riguardare a quanto prodotto. Dico questo perché l'album dei nostri sembra ideato, registrato e masterizzato con la "pancia". L'album è infatti decisamente penalizzato dalla qualità di registrazione, che penalizzerà anche la mia valutazione finale. La batteria in primis è inscatolata, spesso la grancassa si percepisce solo perché convenzionalmente in un 4/4 cade almeno sulla prima battuta. Considerato il genere, non credo sia una scelta ragionata, ma semplicemente un errore da principianti. È poi un peccato sentire questa equalizzazione fai-da-te, facendo arrivare la chitarra solista e poi, a scendere, seconda chitarra, basso e batteria; la sola eccezione è "Yoko", dove insieme alle chitarre "pulite" si sentono bene anche gli altri strumenti. Questi "inconvenienti" purtroppo rovinano l'ascolto. Non c'è molto da aggiungere. L'album è composto da canzoni che spaziano dal prog rock leggero al funky rock, con incisi thrash e math metal ("I Know What it Takes"), anche se a farla da padrone è il virtuosismo degli axemen. Sono chiare le capacità tecniche e gli studi fatti, al punto di fare una cover di Bach ("Cello suite n.1 Prelude in G Minor"), ma il risultato, a mio avviso, è un insieme di esercizi combinati che cercano di spiazzare l'ascoltatore con cambi di genere: un metodo inflazionato per chi vuol fare un album prog. Se l'intento è il caos, ma suonato bene, è fallimentare perché confuso e da l'impressione di non sapere cosa si stia facendo. Forse sono io a non capire il loro genio. "Hands Around the Throat" è già più pop, e considerato il titolo della canzone è chiaro l'intento della band ad unire gli opposti. Adam, nella seconda di copertina, ringrazia tutte le persone e gli artisti che lo hanno ispirato, affermando di esser stati parte integrante di questo progetto. Infatti mi sembrava di ricordare l'andazzo di Satriani e Steve Vai in "Can I Borrow Your Bass" e "Put On The Suit". Funky rock virtuoso, tuttavia, sempre con la contaminazione per uscire dal coro. Carina la citazione (nell'intento almeno) a "The Audience is Listening" di Steve Vai al minuto 2:24 di “Put On The Suit”. Tutto sommato, al netto dei problemi espressi, le canzoni sono piacevoli, ma visto che 'From Bedroom to Oblivion: Two Decades of Obscurity' è stato mixato e masterizzato da un componente del gruppo (The Freq), mi auguro che, in futuro, i Forbidden Planet facciano mixare il prossimo lavoro da qualcuno proveniente da un Allowed Planet. (Alessio Perro)

(Self - 2015)
Voto: 55