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mercoledì 20 marzo 2019

Frozen Moon - Legend of East Dan

#PER CHI AMA: Extreme Folk, Skyclad
Ci hanno impiegato quasi vent'anni i cinesi Frozen Moon per rilasciare un lavoro ufficiale. Formatisi infatti nel 2001 a Jinzhou, dopo varie vicissitudini che hanno portato a molteplici split e cambi di line-up all'interno della band, finalmente si arriva alla tanto agognata release, un EP, speriamo come antipasto per un più prelibato lavoro su lunga distanza. La proposta viene erroneamente accreditata come black metal, sappiate che qui siamo al cospetto di qualcosa di ben più ricercato e raffinato. L'opening track, "Abuka I - Sacrifice" mi catapulta infatti in territori mediorientali che mai mi avrebbe lasciato pensare invece ad una band dell'Estremo Oriente. Il sound proposto è un black (ma non credo sia corretta questa definizione) mid-tempo, assai atmosferico corredato da melodie di carattere folklorico e qualche scorribanda estrema a livello ritmico, il che mi fa pensare ai nostri ad una sorta di Skyclad cinesi. "Abuka II - Evocation" sembra invece trascinarmi in Africa centrale, durante un qualche evocativo rito voodoo che peraltro si traduce anche a livello vocale tra grida ed invocazioni ritualistiche, mentre la musica scorre via tribale, affidandosi ad una ritmica serrata dal suono tuttavia scarno. Un peccato perchè un miglior apporto di chitarra e batteria, avrebbe trasformato il lavoro da intrigante a davvero spettacolare. Le melodie di fondo non nascondono le origini orientali dei Frozen Moon e cosi la proposta che inizialmente percepivo calcare terre africane, improvvisamente si sporca di melodie della tradizione cinese. "Invade of Bohai" si riferisce al mare di Bohai sul quale si affaccia la città dell'ensemble di quest'oggi. È ancora una certa tribalità africana però a governare la proposta della band in una sorta di danza attorno alle fiamme di popolazioni indigene. La musica poi prende la sua strada un po' più estrema, ma in realtà solo le vocals gracchianti del frontman costituiscono l'unico punto reale di contatto col black metal, perchè io parlerei di sonorità sperimentali folk pagane tribalistiche. Questo per dire che la compagine della regione del Liaoning propone un qualcosa di davvero originale, forse non suonato in modo impeccabile, ma sicuramente affascinante. La title track chiude il disco tra cavalcate black (qui posso finalmente dare il benestare alla definizione di musica estrema) inframmezzate però dalle immancabili melodie orientali, da partiture di chitarra acustica e classica e ancora da parti folk metal. Insomma pur essendo solo 22 minuti di musica, io li ho trovati francamente molto interessanti. Spero di avere nuove sulla band quanto prima, perchè se queste sono le premesse, credo che i nostri, aggiustando la produzione e limando qualche errore puramente esecutivo, abbiano davvero delle ottime potenzialità. (Francesco Scarci)

(Pest Productions - 2018)
Voto: 76

https://frozenmooncn.bandcamp.com/

martedì 19 marzo 2019

Stormhaven - Liquid Imagery

#PER CHI AMA: Prog Death, primi Opeth
Originari di Tolosa, gli Stormhaven sono un quartetto prog death che non va confuso con l'omonima band americana. I quattro francesi tornano a distanza di un paio d'anni dall'LP di debutto 'Exodus' con questo nuovo 'Liquid Imagery', dieci pezzi per farci capire come il sound dei nostri sia evoluto in questi 24 mesi e quale sia il loro attuale stato di forma. Il lavoro, che dovrebbe essere una sorta di concept album, narra la storia di un uomo in barca pronto ad affrontare la furia della tempesta. Il cd si apre con l'intro "A Wayward Course", che sembra proprio riflettere la narrazione del protagonista mentre si trova in mezzo alle onde del mare. Poi ecco palesarsi la burrasca attraverso il riffing di "The Storm" e la prima associazione mentale che mi viene spontanea è con il sound degli Opeth periodo di mezzo, anche se in questa traccia, le sfuriate ritmiche sfociano in un techno death talvolta parossistico che prende un po' le distanze da Mikael Åkerfeldt e soci. C'è da dire che comunque la proposta del quartetto transalpino è comunque varia in fatto di cambi di tempo, ed un certo cambio stilistico è da denotare anche a livello delle vocals, che si sbrogliano attraverso un growl possente e a delle altre più graffianti ma pulite. Interessante la porzione solistica con un intreccio di chitarre dal forte sapore classic metal. "Tides", il terzo brano per il quale la band ha peraltro rilasciato anche un video (peccato solo che si vedano i quattro musicisti suonare su sfondo nero e non ci sia alcuna attinenza con quanto dovrebbe richiamare il titolo), sottolinea la capacità di ricerca melodica che appartiene alla compagine originaria dell'Occitania. Dopo i suoi quattro minuti, arriva l'apertura acustica di "Starless Night" a narrare come il cielo stellato sia oscurato dall'incessante pioggia, quasi un parallelismo con la vita tormentata del protagonista. La traccia si presenta elegante e raffinata con ottime malinconiche melodie sia a livello vocale che di linee di chitarra. Poi l'esplosione di "Contemplation", l'unica tappa strumentale del disco, robusta ma sicuramente ispirata, pronta ad introdurre la lunga "Sirens", nove minuti in cui il progressive sembra avere la meglio sugli estremismi sonori della band. La song è di certo assai ritmata, qui gli Stormhaven non lesinano sulle rincorse della sei corde, le parti atmosferiche e i chiaroscuri ritmici, in quella che a mio avviso è la mia song preferita del disco. Ferocissima e dal piglio black è invece "Abyss", una scheggia incontrollabile di ritmiche frenetiche e schizoidi. Ancora un'intro acustica per i secondi iniziali di "Aurora", poi la song vira verso un sound atmosferico a cavallo tra death e black, che vede i nostri ammiccare pesantemente, in un altro break centrale acustico, sia a livello vocale che musicale, agli Opeth. Il disco va migliorando con le partiture prog death di "Vesper", una song piacevole e al contempo più ostica da ascoltare per quel suo rifferama destrutturato e contorto che trova un attimo di quiete nella parte centrale dove le clean vocals si affiancano all'acustica in una parte delicata, malinconica e decisamente più accessibile al pubblico. Il momento di quiete non dura però troppo, il growling maligno e il muro ritmico sono pronti a riprendere là dove avevano sospeso, pronti a ripartire con l'ultima "Echoes", dodici minuti in cui la compagine transalpina mette in campo tutto il proprio repertorio, passando più volte dall'acustica al black epico fino al prog death. Insomma, 'Liquid Imagery' è un disco ben architettato, ben concepito ed in ultimo anche ben suonato, che vede gli Stormhaven proseguire il loro percorso ripercorrendo le orme degli Opeth che furono. Speriamo solo non facciano la stessa fine. (Francesco Scarci)

Wolf Counsel - Destination Void

#PER CHI AMA: Doom/Sludge, Saint Vitus, The Obsessed, Cathedral, Candlemass
A poco più di un anno di distanza dal terzo full-length 'Age of Madness / Reign of Chaos' (recensito qui sul Pozzo, come il precedente 'Ironclad' del 2016) tornano gli svizzeri Wolf Counsel con un nuovo gioiellino sludge/doom che farà sbavare i fan di Candlemass, Cathedral e Saint Vitus: preparatevi ad un’esondazione di riff, oscurità, esoterismo, metallo e — vi piaccia o no — continui rimandi ai classici del genere. I quattro musicisti sono ormai più che navigati, e si sente: nessuna esitazione, nessun calo di pathos, pochissime falle nel songwriting, il tutto condito da una produzione a cinque stelle — non è un caso che il disco esca per la russa Endless Winter, probabilmente una delle più stimate etichette specializzate in doom metal. L’apertura di 'Destination Void' è affidata ad una citazione evangelica in lingua spagnola (“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno”), che fa da intro all’esplosiva “Nazarene”: un riff a tutta chitarra costruito su una drittissima doppia cassa, su cui una voce alla Wino allestisce un indimenticabile ritornello. Fanno capolino i Black Sabbath in “Nova”, e subito il brano diventa una lentissima e ossessiva preghiera a qualche divinità oscura. C’è una nota epica nella successiva “Mother of All Plagues” che vi costringerà a ondeggiare la testa avanti e indietro, mentre le chitarre orchestrano un perfetto gioco a due voci nel bridge centrale. Sorprende l’intro con un solitario basso in tonalità maggiore di “Men of Iron Men of Smoke”: ma è solo un attimo — l’entrata delle chitarre sposta subito l’asse del brano verso un mood nero e fumoso come l’inferno, dove sono ancora i giochi tra chitarra ritmica e solista a guidare le danze. Silenziatosi l’inquietante organo che apre la title-track, gli Wolf Counsel ci riportano in territori di dannazione e malvagità con le ormai caratteristiche chitarre a battere il quattro (ecco i Candlemass, di nuovo) su un tempo lento e ossessivo, che torna poi epico con il contributo della melodia vocale. Un riff in palm-mute fin troppo citazionista dei Sabbath (cosa non lo è, nel doom metal, dopotutto?) apre “Tomorrow Never Knows”, mentre “Staring Into Oblivion” chiude il disco con i suoi dieci minuti di non originalissime chitarre monolitiche e scariche di doppia cassa, che lasciano poi spazio a quasi quattro minuti di solo ruvido e metallico fino al fade-out finale. Dunque, la domanda finale: il doom ha ancora qualcosa da dire o finirà per ripetere all’infinito i suoi canoni? Questo 'Destination Void' è una risposta: un lavoro che ha il sapore dei classici, ma suona come un disco moderno, peraltro nel solco dei precedenti lavori dei quattro svizzeri. Niente fronzoli, niente editing feroci o effettistica: solo ampli al massimo, passione per l’oscurità (e per la vecchia scuola del doom, chiaramente) e capacità più che rodata negli anni di scrivere pezzi memorabili. Se amate il doom ma non cercate a tutti i costi la sua evoluzione futura, amerete questo disco alla follia. (Stefano Torregrossa)

Membrane - Burn Your Bridges

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Noise, Time To Burn, Today Is The Day
È evidente che ci sia una forte correlazione tra la musica e il contesto sociale di un paese, e se diamo un’occhiata ai gruppi che negli ultimi anni sono venuti alla ribalta nell’underground francese (in precedenza piuttosto snobbato dalle nostre parti) ci accorgiamo di una realtà parecchio incazzata: i vari Celeste, Time To Burn, Birds In Row e Daïtro, hanno iniziato a portare questo disagio sui palchi dell’Europa ben prima che questo diffuso malessere esplodesse nelle tensioni e nelle confuse proteste che oggi dominano la cronaca d’oltralpe.

I Membrane, terzetto nato in una piccola cittadina di provincia, non hanno goduto della visibilità ricevuta invece da molti altri compatrioti delle scene hardcore e metal, cosa che appare strana vista la carriera quasi ventennale caratterizzata da una vivace attività live, puntellata da periodiche release e ora coronata dall’ultima uscita, questo 'Burn Your Bridges' che nulla ha da invidiare agli album di band più blasonate e che già dal primo ascolto ci travolge come un fiume in piena ingrossato dalle acque di tumultuosi affluenti noise rock, post-metal e post-hardcore. Parliamo di sette tracce dense e scurissime, caratterizzate da ritmiche di batteria telluriche e linee di basso feroci a supporto dei soffocanti accordi di chitarra e del cantato rabbioso, perfetta colonna sonora per un viaggio tra le macerie della vita e le perdite che ognuno di noi deve affrontare.

L’ipnotico arpeggio di chitarra e le due voci supplicanti che ci accolgono nella prima traccia “Stand in the Rain” ci ingannano con la loro sacralità: l’apparente catarsi termina dopo un minuto e mezzo, spezzata da un riff tonante che possiamo tranquillamente accostare a quelli dei Neurosis più indiavolati: dei Membrane colpisce proprio la disinvoltura nell’accostarsi ad alcuni mostri sacri e la capacità di combinare diverse influenze in modo omogeneo e dare spazio ad elementi che coprono un ampio spettro musicale, dal furioso hardcore di “Childhood Innocence” agli isterismi ritmici di “Battlefield”, brano a cavallo tra noise e sludge, lanciato all’inseguimento dei Today Is The Day e dei Breach.

Ritroviamo una chiara ispirazione a Scott Kelly e compagni in “Burn Your Bridges”, breve traccia che funge da spartiacque dell’album a cui dà peraltro il nome, con i tristi accordi di chitarra pulita e le voci ora sussurrate, ora lancinanti nell’esprimere il bisogno di “bruciare i ponti” con un passato doloroso o forse con un presente alienante. Scendiamo la china, o meglio, precipitiamo a folle velocità durante “Fragile Things”, dove fanno capolino influenze post black metal e crust, e affrontiamo la tempesta di “Windblown”, altro pezzo di pura disperazione da percorrere tra grida strazianti, percussioni implacabili e le dure sferzate di chitarra e basso. In chiusura troviamo “At Long Least”, che si apre con un angoscioso giro di basso prima di consumare l’ultimo e più pesante carico di rabbia, che al minuto 3.20 raggiunge il limite del sopportabile.

Efficace, diretto e ben prodotto, 'Burn Your Bridges' è un disco che colpisce subito al cuore, in cui dominano le fiamme della ribellione in contrapposizione alla dilagante oscurità del disagio esistenziale e della depressione: difficile dire quale dei due elementi alla fine trionfi, ma l’energia trasmessa dai Membrane va letta come un invito a reagire anche nei momenti più bui. Insomma, i ponti da bruciare e le paure da sconfiggere sono prima di tutto dentro di noi. (Shadowsofthesun)


domenica 17 marzo 2019

Allegiance - Beyond the Black Wave

#PER CHI AMA: Symph Black, primi Emperor, Limbonic Art
In arrivo dalla Francia una colata di black metal infernale. Causa di tutto questo male è attribuibile agli Allegiance, al debutto con 'Beyond the Black Wave'. I cinque musicisti di Tolosa, da non confondere con gli omonimi svedesi, si lanciano all'assalto con otto tracce votate alla fiamma nera, quella che strizza l'occhiolino alle lande scandinave, e che vedono negli Emperor e nei primissimi Dimmu Borgir, la loro principale influenza. Un tuffo negli anni '90 dunque a ripescare suoni che credevo ormai persi ma che ultimamente stanno tornando sempre più alla ribalta. Dicevamo delle otto song che si aprono con la classica intro che lascia il posto alle luciferine ritmiche di "The Fall of Black Heroes" e alle partiture atmosferiche che chiamano in causa gli Emperor dei primi due album, non rinunciando quindi alle fantomatiche e rabbiose accelerazioni black thrash. Anche le grim vocals di Asgorn sono in linea con quelle dell'esimio collega norvegese e il disco non può che beneficiarne. Chiaro che la proposta del quintetto transalpino è quanto mai derivativa, anche quando in "I Wrath I Death" vengono fuori le cleaning vocals del frontman a palesare del tutto l'amore verso la scena nordica. Bombastiche anche le keys di Delok, in pieno stile black metal sinfonico, ideali per non snaturare un sound che seguendo i propri dettami, certamente farà la gioia dei fan più accaniti di questo genere, compreso il sottoscritto. Alla fine però bisogna essere degli imparziali valutatori e fare le dovute precisazioni in merito: se il disco da un lato mi esalta proprio per la sua capacità di ricondurmi indietro nel tempo, a quando mi avvicinai al black nei primi anni '90, e brani come l'epica (quasi viking) "The Entity Behind the Wall of Flames" o la conclusiva "The Phantom Coach", incarnano alla perfezione il mio mood dell'epoca, devo anche ammettere che di dischi di simile o miglior entità, nell'ambito di questo genere, nel corso di questi ultimi 25/30 anni, ne sono usciti davvero parecchi. Diamo però a Cesare quel che è di Cesare e gustiamoci senza troppe pretese e ricerca di similitudini, un lavoro che suona genuino, melodico al punto giusto, senza essere eccessivamente pomposo, ma risultando ben suonato e con qualche idea neppure da scartare. Ascoltando il cd poi ecco affiorare altre influenze inevitabili per l'act francese: penso ad un pizzico dei primi Limbonic Art in "Soreceress Queen", la cui magia sembra in realtà ammantare l'intero album degli Allegiance. Un lavoro la cui unica pecca potrebbe essere forse una produzione alquanto freddina, che non inficia però la riuscita complessiva del disco. In definitiva, se avete amato alla follia 'In the Nightside Eclipse' degli Imperatori, beh 'Beyond the Black Wave' potrebbe essere la soluzione alternativa che vada a tamponare la vostra sete cronica di black sinfonico anni '90. (Francesco Scarci)

Suum - Buried Into the Grave

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Saint Vitus
La scena italiana brulica in tutte le sue forme e manifestazione, ma è solo grazie ad etichette come la russa Endless Winter che le band nostrane riescono a rilasciare i loro lavori. Non siamo infatti dietro a nessuno nel mondo in alcun genere, e i romani Suum lo dimostrano con una prova convincente che avvicina il sound dell'act italico a band quali Candlemass, Solitude Aeternus o Cathedral. Fatta questa premessa, addentriamoci un pochino di più nel debut 'Buried Into the Grave', un disco che inizia con "Tower of Oblivion" che al di là della classica ritmica doom alquanto ficcante, mi colpisce per una prova vocale che mi porta addirittura agli Heroes del Silencio, un gruppo rock spagnolo degli anni '80/90. Gli ingredienti per fare bene ci sono tutti, dal songwriting ineccepibile agli ottimi suoni messi in pista dal quartetto capitolino, passando attraverso una prova convincente di sette capitoli, mai troppo lunghi di durata, a dire il vero. I quasi cinque minuti di "Black Mist" mostrano più di una affinità con i Candlemass, soprattutto a livello vocale, mentre la musica lenta e sinuosa si affida ad un comparto ritmico formato da Marcas al basso, Rick alla batteria e Painkiller alla chitarra che con la sua sei corde sciorina una serie di ottimi spettrali assoli (notevole quello della title track), mentre il bravo Mark Wolf alla voce, continua ad offrire un'ottima performance, come già ci aveva abituato nei Bretus, o in passato, nelle altre innumerevoli band a cui aveva prestato la sua voce. Questo per dire che per quanto 'Buried Into the Grave' risulti a tutti gli effetti un debut album, abbiamo in realtà a che fare con musicisti alquanto navigati. Certo, sia ben chiaro che i Suum non reinventano il genere, però ne offrono la loro quanto meno personale visione e reinterpretazione, sfoggiando qua e là qualche brano davvero azzeccato. Personalmente oltre alla title track, ho apprezzato sicuramente la malinconica verve di "Last Sacrifice", che pur essendo meno tecnica rispetto alle altre, ha invece un quid melodico, che mi ha colpito più delle altre. Più monolitica ed orientata al versante doom dei primi Cathedral invece "Seeds of Decay"; poi la band ha ancora modo di offrire una traccia strumentale ("The Woods Are Waiting"), che funge più che altro da ponte d'interconnessione con l'ultima "Shadows Haunt the Night", ove le chitarre continuano a regalare riffoni old-school che ci portano indietro di quasi trent'anni, a farci capire che il doom è ancora vivo e vegeto e che forse mai morirà fintanto che nell'aria risuoneranno i riff che gli immortali Black Sabbath iniziarono a suonare ormai cinquant'anni fa e di cui ora si va in cerca solo dei degni eredi. (Francesco Scarci)

Black Yen - Lure

#PER CHI AMA: Instrumental Post-Rock/Doom
Il bassista dei deathsters austriaci Nekrodeus, nonchè musicista live dei post black metallers Ellende, Sebastian Lackner, ha cambiato mestiere, dando vita al proprio progetto solista, i Black Yen. Coadiuvato alla batteria da Paul Färber, il buon Seb rilascia tre brani strumentali che poco hanno a che fare con la violenza tritaossa della sua band madre o con l'irrequieta emotività degli Ellende. Partendo con l'ascolto di "Lure", la title track dell'album, è evidente che i propositi del buon factotum austriaco siano, almeno in apparenza, quelli di rilasciare una musica che spazi tra la pesantezza del doom e l'eteree atmosfere del post-rock. Il risultato sembra dar ragione a Seb, che si lancia in lunghe fughe sognanti, chitarre in tremolo picking, qualche cruda accelerazione post black (retaggio degli Ellende, ma anche un qualche ammiccamento ai Deafheaven) che prova a non farmi soffrire troppo per l'assenza di un vocalist. Decisamente diverso l'approccio della seconda traccia, "Drag", molto più morbida rispetto all'irruenza sprigionata dall'opening track di questo 'Lure'. Il sound è ritmato, forse un po' troppo minimalista per i miei gusti e che nei quasi otto minuti della song, fatica a decollare, almeno fino a quando, a due minuti e mezzo dalla fine, sembra scaldare i motori per un finale più dirompente, che tarda a venire e comunque a soddisfare appieno le mie aspettative. Con una voce a ricamo, probabilmente avrei sofferto meno questa frustrante attesa. Arriviamo alla lunga canzone conclusiva, i dodici minuti di "Throat Pain" e sono le plettrate di chitarra ad aprire, in un frangente acustico a tratti suggestivo. Il clima è rarefatto, spoglio, malinconico, qui le influenze post-rock di Sebastian convergono a creare un'attesa per un qualcosa che non tarderà a venire ossia l'esplosione di un cangiante rifferama che ancora si muove tra dilatazioni post, qualche sporadica accelerazione black e delicati arpeggi acustici. Interessante la scoperta dei Black Yen, sicuramente c'è ancora da lavorarci per definire una propria personalità, ma le premesse sono positive, se poi ci fosse una vocina qua e là... (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 68

https://black-yen.bandcamp.com/

giovedì 14 marzo 2019

Vorga - Radiant Gloom

#PER CHI AMA: Cosmic Black
Non ho idea del come e del perchè mi sia ritrovato nella posta l'EP di questa band di stanza tedesca (nelle sue fila sono inclusi infatti anche membri bulgari e inglesi) a nome Vorga. Non li ho mai sentiti nominare eppure l'ensemble di Karlsruhe sembra avere qualcosa nei propri tratti somatici che mi ricorda qualcuno, la classica persona che incontri per strada ma di cui non ricordi il nome eppure quella faccia la conosci eccome. La band sembra essersi formata davvero da pochissimo ed è già pronta per esordire con questo 'Radiant Gloom', un EP della durata di 22 minuti, all'insegna di un black metal dai tratti nordici, melodico e tagliente. Lo dimostra "The Black Age", song posta in apertura che risuona minacciosa nel suo incedere oscuro, nella sua veste che richiama inequivocabilmente i paladini del black svedese. Niente di particolarmente innovativo, le solite sfuriate al limite tra black e death, lo screaming caustico di Petar Yordanov, qualche rallentamento atmosferico e poc'altro. Troppo poco per differenziare la proposta di questa band internazionale dalle mille altre che escono ogni santo giorno. "Argil" aggiunge poco di sostanzioso a quanto ascoltato sin qui, se non che sia più orientata al mid-tempo e contenga una buona dose di melodia, soprattutto nella sua epica cavalcata finale. "Divine" ci riprova, correndo veloce sui binari, nelle sue chitarre ci sento addirittura un retaggio punk che ben presto si tramuta in piacevoli melodie che evocano addirittura un che dei Catamenia; la produzione è piena, pomposa e ne esalta i suoni che divengono lentamente più ariosi e dilatati, pur nella loro componente estrema. Si arriva all'apice finale con "Hunger", un brano in cui il quartetto sembra aver già imparato la lezione dai propri errori, che appare per la prima volta realmente matura nella gestione di violenza e melodia. Una band oscura, evocativa, dalle grandi potenzialità di crescita, che andrà sicuramente seguita con una sola unica raccomandazione: inserire qualcosa di più personale nel proprio sound per essere realmente riconoscibili all'interno di una scena che più satura non si può. (Francesco Scarci)

Caustic Vomit - Festering Odes to Deformity

#FOR FANS OF: Death/Doom, Disembowelment
Toning down what has already been a commonly slow pace in much of the early days of death metal, Caustic Vomit finds its sputum splattered all over the scene with an agonizing pace that finds its girth heaved around in short frenzied rushes throughout the three tracks comprising an exhaustive half hour in 'Festering Odes to Deformity'.

As putrid resonance pools around ears, the fumes of doom transfix a listener intoxicated by thunderous tuning that grimly grumbles in the bubbling mire. Then, without warning, the despondent desperation shakes itself out with roiling double bass and clanging cymbals, the grim filthy riff explodes after a shrill moment of feedback, and blasting begins. The song finds its swing in time for shrieking Slayer soloing to begin its rampage and the rancid glory, the fruit of this disgusting labor, is finally savored. Suddenly, we're back in the swamp again. However, the cycle has slightly sped up and “Immured in Devouring Rot” has its microbial movements multiplied, rolling around its raucous rhythm in slightly quicker fashion while still slogging back into its agonizing pace. Issuing forth another shrill riffing rejoinder to the bassy advance leaves the listener knowing that this cycle will continue, a horrific deterioration that exemplifies these 'Festering Odes to Deformity'.

What Caustic Vomit shows is an involvement in accenting its decrepit doom pace with the malodorous machinations of old school death metal crushes that lash out at the mushy meter like an unborn child writhing away at the confines of its amniotic sac. In this vein, “Churning Bowel Tunnels” carves caverns with the meaty relentlessness of Coffins in swings and stomps that made “Slaughter of Gods” crush as well as play with the disjointed filthy sound of chaos in it. The extra torsion of blasting helps to propel this machine's bore deeper into the depravity of these songs of sickness and drowns falling treble tremolos in an acidic soup of digestive putridity. The snare and cymbal combination cracks like an anvil, molding disfigurement from the guitars as they cry to escape the mutant tendrils of this deadly orgiastic ooze, but instead cell division ends up spurred by the secretions of the filth pit, a sludge pregnant with hate and spawning disgust.

Finally, after the infectious scourge erupts from the colonic cavern, comes “Once Coffined Malformities” with the excitement of an undead uprising and the contorted gait best adopted by decomposing hungries. Foreboding harmony flourishes in searing strings as this song illustrates the prowess of its creators in concocting an achingly sadistic structure on which to flay its prisoners. From its uncomfortably slow starts comes a strikingly sweet scent of decay as each song festers and mutates into its most monstrous form. The blasting segments are the energy fed from such morsels of flesh and horrific churns of digestion to become an all-too-graphic examination of the inner working of a death metal mutant, cross sectioned and framed behind plexiglass for the world to see, like the digestion machine offering art and eccentricity in its rawest form to the bewilderment of its unsuspecting audience. (Five_Nails)


(Redefining Darkness Records - 2018)
Score: 82

https://causticvomit.bandcamp.com/album/festering-odes-to-deformity