giovedì 18 dicembre 2025

Dusk - Repoka

Ascolta "Dusk_Repoka_Industrial_Metal_Breakdown" su Spreaker.
#PER CHI AMA: EBM/Industrial/Black
Costa Rica "Pura Vida": questo era il mantra che i costaricensi continuavano a pronunciare durante il mio soggiorno in quel paese meraviglioso, un luogo fatto di sole, mare e natura sconfinata. E da un posto cosi assolato, mai mi sarei aspettato di ritrovarmi un lavoro come il qui presente 'Repoka', un emblematico esempio di industrial black a dir poco disturbante. I Dusk non sono certo dei pivelli, avendo alle spalle ben cinque full length e tre EP, tra cui il dischetto di oggi. La proposta dei nostri è un furibondo esempio di fredda estetica cibernetica nichilista che evoca i fasti dei Mysticum, miscelati alla pesantezza dei Godflesh. Al pari del sound sparatoci in pieno volto, un iceberg frantumaossa, la produzione è un monolite di freddezza chirurgica, costituita da un'indiavolata drum machine su cui si stagliano effetti sintetici ubriacanti, beat meccanici e spietati, con suoni in bassa frequenza. Dall'iniziale "Dark Shaman .2.25" alla conclusiva, e qui sta la sorpresa, "Raining Blood .2.25" (cover degli Slayer), il quartetto di Heredia, ci spiattella uno sciame di effetti alienanti, accompagnati da uno screaming de-umanizzato che resta sepolto nel sottosopra, come un rantolo proveniente da un mainframe impazzito. L'effetto finale è quello di un'atmosfera sospesa (special modo in "Directive7 .2.25") in cui la componente elettronica unita a quella estrema, collidono con violenza inaudita. La scelta di coverizzare "Raining Blood" degli Slayer poi non credo sia un omaggio alla band californiana, piuttosto una radicale operazione di rielaborazione. L'aggressione primordiale e viscerale del classico thrash viene qui trasmutata in un terrore freddo, psicologico e meccanico: il brano è quasi irriconoscibile, se non per il riff portante che emerge a fatica da un inedito e terrificante turbinio musicale in cui convogliano EBM, interferenze industrial noise, voci che sembrano uscite direttamente da 'Stranger Things', elettronica e tanta malvagità. ‘Repoka’ è un'opera di una coerenza feroce. Dall'inizio alla fine, i Dusk perseguono la loro visione estrema senza il minimo compromesso, costruendo un'esperienza sonora che non cerca di piacere, ma di sopraffare. Il risultato è un disco volutamente ostico, un assalto sensoriale che definisce con precisione chirurgica il proprio pubblico di riferimento. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 70

mercoledì 17 dicembre 2025

Cathedral - Society’s Pact With Satan

#PER CHI AMA: Psych/Doom/Stoner
'Society’s Pact With Satan' è un pezzo inedito che risale all'ultima incisione dei Cathedral in studio, prima del loro scioglimento, un pezzo che era andato perduto ma ritrovato dal produttore dell'ultimo 'The Last Spire', che con la band ne ha concordato la sua pubblicazione. Il degno atto conclusivo della loro metamorfosi stilistica? Come sempre, ai posteri l'ardua sentenza. Questa song, di quasi 30 minuti, sigilla la transizione magmatica che ha condotto la band dal doom metal più asfissiante e primigenio degli esordi, a una matura e complessa psichedelia occulta di inequivocabile matrice settantiana. Il DNA musicale del quartetto di Coventry è quello di sempre, ancorato quindi a un patto oscuro siglato tra la pesantezza monolitica dei Black Sabbath e l'estetica gotico-orrorifica di una certa cinematografia anni '70. A livello prettamente musicale, non si può certo rimanere delusi dalle chitarre di Gaz Jennings, che impartiscono una lezione di abrasività controllata, con la sua sei corde che gratta l'aria come carta vetrata su un muro di cemento grezzo, scolpendo riff che sono al contempo primitivi nella loro essenza e diabolicamente efficaci nel definire il mood opprimente del disco. Il basso di Scott Carlson è un'àncora che impedisce ai riff psichedelici di Jennings di dissolversi nell'etere, mentre la performance alle pelli è una scossa tellurica, che detta la cadenza di una marcia funebre inesorabile (i primi sette minuti) ma anche quella delle sfuriate che imperversano verso il dodicesimo e ventiduesimo minuto. Su questo fondale strumentale, si erge la performance vocale di Lee Dorrian che oscilla costantemente tra le urla acide quasi hardcore (sentitevela tra l'ottavo e il decimo minuto, sembra quasi il vocalist degli Entombed), il lamento e l'evocazione teatrale, a veicolare l'immaginario occulto che permea la traccia. Una song che si muove da un incedere lento, quasi liturgico, prima di virare improvvisamente verso sonorità più grooveggianti, dove a mettersi in mostra sarà sempre la chitarra ispirata del buon Gaz, sia a livello solistico che di costrutto melodico, per poi trascinare l'ascoltatore verso un abisso inevitabile. Voci da più parti aprono alla possibilità che i nostri possano ritornare, sarebbe un bel colpo per i maestri del psych doom. (Francesco Scarci)

(Rise Above Records - 2025)
Voto: 74

martedì 16 dicembre 2025

Belnejoum - Dark Tales of Zarathustra

Ascolta "Dark Tales of Zarathustra" su Spreaker.
#PER CHI AMA: Symph Black
I Belnejoum nascono dalla mente di Mohamed Baligh "Qaswad", che con questo 'Dark Tales of Zarathustra', vorrebbe imporsi nel vasto e competitivo panorama del symphonic black/death metal, con un'opera dall'ambizione parecchio evidente, forse troppo. L’album attinge a piene mani dall’eredità di giganti come Nile e Fleshgod Apocalypse, due influenze non proprio messe qui a caso, che emergono chiaramente sia nell'approccio tematico, sia nell'opulenza degli arrangiamenti orchestrali, accompagnati a una marcata vena mediorientale che ne fanno un prodotto alquanto originale, capace di distinguersi in un genere spesso affollato da imitazioni. La produzione, elemento fondamentale per una proposta così articolata, si presenta tuttavia come una lama a doppio taglio. Da una parte, gli arrangiamenti sinfonici, impreziositi da strumenti tradizionali orientali come il ney, sono curati nei minimi dettagli. Dall'altra, la sezione ritmica, nonostante la presenza di musicisti del calibro di George Kollias (Nile), Fabio Bartoletti e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalypse), sembra mancare di quella potenza necessaria per rendere l'esperienza d'ascolto memorabile. Eppure, le chitarre spiccano con un sound incisivo e affilato come ci si aspetta nel black metal, mentre le harsh vocals si alternano a growl profondi, calandosi alla perfezione nella narrazione drammatica dell'opera. L'aspetto lirico è sicuramente uno dei punti di forza del disco, con i testi che scavano nella figura e nella filosofia di Zarathustra, esplorando la sua progressiva corruzione con un viaggio tra desolazione, insanità e discesa spirituale. A livello musicale invece, tra i brani più rappresentativi, citerei la lunga opener, "Prophet of Desolation", che emerge come un manifesto della ferocia sinfonica dell’album, abbinando maestosità orchestrale a martellanti blast-beat. "Tower of Silence", aperto dalla dolcezza del ney (il flauto tradizionale della musica mediorientale), combina aggressività e momenti più atmosferici, con tanto di vocals femminili, a celebrare l’essenza orientaleggiante del concept. "Elegie" è un interludio caratterizzato da un pianoforte e dal raro (fato da tal Rugieri a Cremona nel 1695) violoncello di Jeremy Garbarg che stempera la poetica (per la presenza dello splendido violino di Mohamed Medhat) irruenza di "On Aeshma's Wings", sigillando uno dei brani più brutali dell’album. "In Their Darkest Aquarium", con la sua melodia cinematica, sembra condurre l'ascoltatore in un film di fantasmi, sebbene poi le liriche narrino la storia di un bambino intrappolato in un acquario oscuro. L'arrangiamento alterna momenti eterei con esplosioni di blast-beat e cori spettrali, creando un'atmosfera sinistra che lo distingue come uno dei momenti più evocativi e disturbanti del disco. In sintesi, 'Dark Tales of Zarathustra' è un’opera che merita l'attenzione di chi cerca nel metal estremo non solo velocità e violenza bruta, ma anche profondità narrativa e costruzioni sonore intricate e suggestive, un disco che potrà essere una tappa obbligata per chi è appassionato di sonorità sinfoniche, dal sapore esotico. Un debutto che fa ben sperare per il futuro. (Francesco Scarci)

(Antiq Records - 2025)
Voto: 73

Sickle of Dust - Across the Vultures Trail

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Da Mosca si fa strada il progetto solista dei Sickle of Dust, guidato dal talentuoso e visionario Ash, che con le sue cinque nuove tracce, crea un tappeto sonoro capace di trasportare chi ascolta, in un universo fatto di desolazione e gloria. L’album, intitolato 'Across the Vultures Trail', originariamente rilasciato in formato digitale all’inizio 2025, trova ora spazio anche in versione fisica, grazie all’etichetta italiana Flowing Downward, sempre attenta alle produzioni più oscure e affascinanti dell’underground musicale. Questo lavoro rappresenta il quinto capitolo di una saga che ha consolidato i Sickle of Dust come un punto di riferimento nell’atmospheric black metal. Con uno stile che richiama l’epicità dei Summoning e la capacità narrativa degli Eldamar, Ash eleva il proprio approccio compositivo, intrecciando maestose melodie sinfoniche a riff taglienti e potenti, offrendo un’esperienza sonora che si colloca tra intensità e sogno. L’album prende il via con "Brothers of the Storm", una vera e propria porta verso l’ignoto. Con un’introduzione trionfale e atmosferica, arricchita da trombe e percussioni folk/marziali, il brano cresce attraverso una combinazione di riff black e voci graffianti. L’effetto è quello di evocare vividi paesaggi fantasy, un tema ricorrente che accompagnerà l’ascoltatore nei 40 minuti di questa affascinante opera. "On the Battlefield" cattura subito l’attenzione grazie alla presenza del talentuoso mandolino di Ilya Lipkin, uno strumento che arricchisce l’arrangiamento iniziale del pezzo con un tocco delicato e originale. Ritroveremo la sua maestria anche nella quinta traccia, "The Black Stones Inn", stavolta alla chitarra acustica. Qui il viaggio musicale si fa più compassato con melodie evocative e momenti di calma meditativa quasi surreali, offrendo un suggestivo equilibrio tra intensità e fragilità. La title track rappresenta il cuore pulsante dell’album. Le melodie della tromba scorrono centrali accanto a una meticolosa trama di chitarre orchestrate, mentre lo scream di Ash, aggiunge profondità al brano. Segue "Wizards Don’t Dance", che conserva un’atmosfera soffusa e affascinante con una narrazione musicale coinvolgente. Tuttavia, qualche accelerazione più audace avrebbe potuto dare maggiore dinamismo alla struttura complessiva, evitando una certa ripetitività nella formula stilistica. Chiude l’album la già citata "The Black Stones Inn", che si apre con una malinconica sezione acustica nuovamente impreziosita da Ilya. Il brano regala un finale intenso e contemplativo caratterizzato da vocalizzi puliti e profonde incursioni folkloriche, lasciando l’ascoltatore sospeso in un’atmosfera intrisa di poesia sonora. In sintesi, 'Across the Vultures Trail' si erge come una gemma nell’universo underground del 2025, un lavoro ideale per chi ama avventurarsi tra paesaggi sonori ricchi di ombre e mistero. I Sickle of Dust dimostrano di essere ancora una volta dei narratori musicali straordinari, capaci di rendere ogni brano parte di un viaggio indimenticabile. (Francesco Scarci)

(Flowing Downward - 2025)
Voto: 75

Starlit Pyre - Veins of Sulfur

#PER CHI AMA: Melo Death
Il debut EP dei francesi Starlit Pyre, 'Veinsof Sulfur', si colloca con una certa prepotenza nel panorama del melo-death con qualche robusta iniezione di metalcore, per un sound che evoca tanto la potenza degli Arch Enemy, quanto la vena melodica degli In Flames, pur mantenendo un'identità fresca e contemporanea. La produzione è pulita, quasi chirurgica: le chitarre sono affilate e tridimensionali, con un croccantezza ben definita che non sovrasta mai il basso, presente e roccioso; la batteria poi è dinamica e potente. La voce di Nicolas Potiez infine, è una buona amalgama di growl e scream più ruvidi che aggiungono uno strato di aggressività ben calibrata. Il dischetto si apre con la marcia inarrestabile di "Empire's Downfall", che s'impone come un inno di battaglia, caratterizzato da riff cadenzati e un coro che è pura adrenalina, un vero manifesto della loro miscela melo-death di scuola svedese, che si confermerà anche attraverso la ritmica, forse ancor più incisiva, della successiva "Solar Rays". La title track, "Veins of Sulfur", è un altro pezzo roccioso che si dipana tra sassate di grancassa e ringhiate di chitarra, in un viaggio sonoro che non rinuncia neppure a momenti tecnici, a un bridge di grande impatto e a un assolo da urlo. "On My Own" si affaccia, almeno inizialmente, sul lato più melodico e orecchiabile della band, con un'architettura più aperta, che ben presto si trasformerà, attraverso incisive dinamiche compositive, in un'arma tagliente e letale che chiude alla grande un lavoro convincente e da ascoltare obbligatoriamente. (Francesco Scarci)

(Self - 2025)
Voto: 73

venerdì 12 dicembre 2025

The Rootworkers - Don't Beat a Dead Horse

#PER CHI AMA: Garage/Desert Rock
L'ultima fatica discografica, in realtà il primo full length della band marchigiana The Rootsworkers, è alquanto interessante, non per lo stile scelto ma per il tipo di registrazione che lo caratterizza e lo identifica nell'atlante geografico musicale mondiale. D'altronde, come sempre dichiarato, le radici della musica di questa band sono radicate sulle rive del delta blues americano delle origini. Quindi, è un suono caldo e umido quello che ci attende, ma anche corposo che richiama i classici ritmi e stereotipi del genere, e li rivive anche con un sound granuloso, ruvido e psichedelico, che sta a metà strada tra il garage e il desert rock. La cosa strana è che alla fine questa soluzione non soddisfa né uno né l'altro stile, perché il risultato, sarà per l'effettistica usata sulla voce e quei bei riverberi vintage, li fa assomigliare più ai nipotini (anche se meno sperimentali), del mitico Captain Beefheart nel disco 'Clear Spot', che cercano di risuonare questo album alla maniera dei Mother Superior, non la band americana che collaborò con Henry Rollins, ma quella svedese di 'The Mothership Movement', splendido esempio di garage rock del 1999. 'Don't Beat a Dead Horse' è un album molto bello, giocato su suoni retrò, distorsioni e sonorità che si srotolano tra un rock aspro e un vellutato blues d'altri tempi, come nel caso di "Desert", mentre in "Unstoppable Pleasure", la mente torna ai primi anni 2000 e al modo ruffiano di fare indie rock degli EELS in 'Soul Jacker', anche se in questo disco, e va sottolineato, il classic rock blues è sempre e comunque predominante. Molto interessante "It's Gone (and Its Allright)", song dal piglio cool e suoni dilatati, una voce graffiante alla Tom Waits, un pathos che mette in risalto una ricerca sonora bella e certosina, a forza inseguita dalla band, che immerge le canzoni in un misto di suono lo-fi, ronzii e suoni rudi annessi, per una cavalcata verso il mitico "Rancho de la Luna", quel posto che ha dato vita a suoni e album dal sound immenso. I The Rootworkers lavorano sulla personalità, sfornando suoni veri, reali, fatti di sudore e polvere, che provano di continuo a ritagliarsi uno spazio sonoro proprio, cosa non certo facile in questo ambito musicale, ma la qualità compositiva e il buon gusto verso certe sonorità, li aiutano a non farli cadere nel mai così scontato baratro della deriva stilistica. Per concludere, possiamo definitivamente approvare questa nuova fatica dei The Rootworkers e catalogarla tra gli album doverosi di un ascolto a tutti i costi. Lasciatevi trasportare dal calore liquido di "Dead Flower Blues", per una fuga psichedelica di tutto rispetto. Un disco da ascoltare a tutti i costi, dove la mia preferita è l'acida e irriverente "Not My Cup of Tea". (Bob Stoner)

(Bloos Records - 2025)
Voto: 70

mercoledì 10 dicembre 2025

Nimbifer – Vom Gipfel

#PER CHI AMA: Raw Black
L'ultimo assalto sonoro dei tedeschi Nimbifer, l'EP 'Vom Gipfel', è una nuova incursione in quel black metal crudo e ferale, che li ha resi uno dei nomi caldi della scena underground dopo l'ottimo 'Der Böse Geist' dello scorso anno. Un nuovo trittico di tracce a incarnare il nucleo più gelido e battagliero del black teutonico, che potrebbe riecheggiare nella potenza grezza e nello spirito nichilista dei primi Darkthrone, con una vena epica che non disdegna neppure l'influenza di certe atmosfere dei Bathory più ancestrali. La produzione sembra volutamente lo-fi, funzionale e in linea col genere, un muro sonoro dove il tremolo picking delle asce, affilate come lame di ghiaccio, si fonde in un impasto sonoro che lascia poco spazio a pulizia e modernismi, mentre il basso si muove in sottofondo come un'ombra minacciosa e la batteria, martellante e primordiale, suona secca e distorta. Il cantato di Windkelch è poi un urlaccio disperato, che squarcia il magma sonoro con urgenza quasi ritualistica. "Der Berg" spicca per la sua marcia inesorabile e le sue algide melodie ossessive, un'esemplificazione perfetta della loro miscela tra furia ed epicità, mentre il lancinante cantato del frontman, fa sgorgare sgraziatamente dalla propria gola tutto il proprio dissapore. Subito dopo, "Das Ende" s'introduce più compassata, ma non temete perché il ritmo sfocerà ben presto in un blast beat corrosivo con una qualche venatura folk in sottofondo a evocarmi un che dei Windir, soprattutto nella parte conclusiva. La chiusura "–Rückkehr–" è ahimè un inutile brano ambient che nei suoi quattro minuti scombina tutto quanto ascoltato sin qui. In conclusione, 'Vom Gipfel' è un lavoro di raw black metal, essenziale, onesto e brutale, caldamente consigliato a chiunque sia devoto al suono dei primi anni '90, ma soprattutto a chi non cerca produzioni patinate o elementi progressivi. (Francesco Scarci)

(Vendetta Records - 2025)
Voto: 66