Cerca nel blog

venerdì 23 dicembre 2011

(EchO) - Devoid of Illusions

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun, Saturnus
Dopo averli visti un paio di volte live (ora li aspetto con gli Agalloch), averli avuti ospiti nella mia trasmissione radio, non potevo esimermi dal recensire il debut album dei bresciani (EchO), che hanno voluto fare le cose in grande sin da subito: prodotti alla stragrande da Greg Chandler degli Esoteric (che sarà anche guest star in una delle song del cd) e registrati ai Priory Recording Studios, in UK, cover art cd affidata ad Eliran Kantor (Testament, Atheist, Sodom, Xerath tra le sue opere), il sestetto nostrano gioca immediatamente tutte le proprie carte vincenti. Il nome deriva da quello della ninfa delle Oreadi della mitologia greca, famosa per essersi innamorata di Narciso, con le parentesi invece ad indicare l’onda sonora che si propaga. Per quanto riguarda la musica invece, ci troviamo di fronte ad un album che potrebbe essere idealmente suddiviso in due parti: una prima metà che si rifà alle sonorità death doom nordiche (e mi vengono immediatamente in mente Swallow the Sun e Black Sun Aeon), cosi pregne di malinconia e dalle forti tinte invernali, caratterizzata da un’inclinazione post rock; una seconda metà invece un po’ più aggressiva, ma entriamo nel dettaglio, perché dopo la consueta intro, ci tuffiamo all’interno dell’(EchO) sound con “Summoning the Crimson Soul”, una song che mostra subito l’attitudine spinta della band di abbinare riffoni di scuola “Meshugghiana” con una spiccata vena atmosferica, grazie alle ottime tastiere di Simone Mutolo, per poi insabbiarsi nel torpore del doom che caratterizza da sempre le uscite dell’etichetta russa. Con “Unforgiven March” emerge anche una certa disposizione dei nostri ad addentrarsi in territori quasi funeral, con un sound nero come la pece, che comunque si mantiene sempre melodico con la voce di Antonio Cantarin veramente superlativa sia in fase growling che cleaning. Cenni dei primi My Dying Bride si mescolano con “Serenades” degli Anathema e frangenti acustici alla Saturnus, per un risultato finale davvero da paura. Sono rapito dalla scorrevolezza dei pezzi, pur trattandosi di un genere non cosi accessibile a tutti i palati e comunque dallo spessore della musica proposta da una band che esiste solamente da fine 2007 e che già mostra doti da veterana. Si prosegue con “The Coldest Land” e ancora emerge forte l’ecletticità di Antonio alle vocals con una performance che rischia seriamente di coinvolgere non solo gli amanti del genere death doom, ma che può richiamare (anzi deve richiamare) fan da generi decisamente più melodici. Tutto suona alla perfezione grazie alla cristallina produzione ma anche al fatto che i nostri sono ottimi musicisti e lo dimostrano sia nelle fasi più movimentate che in quelle più eteree; i giri strazianti delle chitarre si insinuano nelle nostre orecchie e sono certo che non ci lasceranno più e come con il sottoscritto vi ritroverete a fischiettare alcuni giri di chitarra meravigliosi, prima di abbandonarvi ad un finale contraddistinto da un climax ascendente di emozioni, legato ad un altrettanto eccellente lavoro dei due axemen, Simone Saccheri e Mauro Ragnoli. Sono estasiato, non so che dire, il sound degli (EchO) mi ha conquistato e divorato, per quel suo essere in costante movimento, alla ricerca di continue soluzioni per sorprendere l’ascoltatore (ascoltate l’ipnotica progressiva “Internal Morphosis” con il successivo finale dirompente di scuola djent, fantastica). Ancora un altro pezzo veramente elegante ed intelligente è rappresentato da “Omnivoid”, contraddistinto da quel suo incipit sempre estremamente atmosferico ed onirico, che ben presto lascerà posto alla furia dilagante di una splendida ritmica (sempre controllata e melodica sia ben chiaro), con ancora una volta un lavoro magistrale alle tastiere, soprattutto nella sua parte conclusiva dove ancora le chitarre ultra ribassate danno un contributo eccezionale al brano. Sempre più galvanizzato vado avanti con l’ascolto, abbandonandomi alla disperata “Disclaiming My Faults”, una sorta di semi-ballad, dove accanto a dei suoni forse un po’ troppo ruffiani (all’inizio, prima del selvaggio finale) – lo stesso leggasi per la successiva “Once was a Man” -, vorrei sottolineare nuovamente la perizia vocale del bravissimo Antonio, con un’estensione canora notevole. Menzione finale per “Sounds From Out of Space”, dove il cantato catacombale del bravo Greg aleggia nei primi minuti di questo album che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica metal, dal gothic al death, passando da black e doom. Ottimo debut, senza dubbio; se poi consideriamo che sono italiani, non possiamo che esserne fieri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 85

giovedì 22 dicembre 2011

Weeping Silence - Promo 2009

#PER CHI AMA: Gothic Symphonic, Nightwish
Female fronted band, come citato nel loro booklet, questa giovane band si occupa prettamente di symphonic/gothic metal, proveniente da Malta e formatasi nel 2008. "Promises Broken", la prima traccia, inizia con un bel riff di chitarra, tastiere e batteria; ascoltando la voce di Rachel Greech, mi vengono in mente le voci di Dolores O' Riordan dei Cranberries e quella di Annette Olzon dei Nightwish. Tutta la canzone ha un ritmo dapprima lento e melodioso, per poi aumentare di poco la velocità e portando all'acuto il cantato. Solo verso la fine, dopo essere ritornati alle atmosfere placate, si avvalgono di cori, dando così una nota più solenne al brano. "Dark Waters" riprende il ritmo veloce di prima, con la stessa nota acuta nel cantato: l'estensione vocale di Rachel è infatti sorprendente, il che contribuisce a rendere ancora più melodico l'album. "Within White Walls" si apre con un nostalgico tocco di chitarra, mentre la voce diventa più dolce che mai: dalla canzone traspare un'aria mesta, pesante, in parte difficile da sopportare. La lentezza del brano fa quasi venire voglia di premere il pulsante “forward” del lettore cd, fortuna che dopo tutti gli acuti il brano arriva alla fine. "Innocent Cries", l'ultima traccia, ripropone i cori orchestrali trovati nella opening track, ma qui si avvale anche di sintetizzatori tra un acuto e l'altro. Più sopportabile della precedente, ricorda vagamente il sound dei Nightwish, anche se sembra più la brutta copia. Questo è uno degli album più brutti che abbia mai sentito, si salva soltanto il fatto di aver inserito note melodiche e orchestrali, benché la voce sia forte ed energica; continuando però a tenerla acuta, porta automaticamente l'ascoltatore ad interrompere l'ascolto dopo i primi minuti della prima traccia. Sperando che l'album uscito dopo, “End of an Era”, sia più carico e ricco di sonorità, non posso che essere lieta di sentire la fine di questo album e metterlo tra i cd nell'angolo dei cd scartati. Più energia negli strumenti, su! (Samantha Pigozzo)

(Alkemis Fanatix)
Voto: 55
 

Deviate Damaen - Religious as Our Methods

#PER CHI AMA: Gothic/Dark
Premetto che a me piacciono particolarmente le band tendenti allo psicotico, folle, assurdo: questa band italiana è una di quelle (oso persino a paragonarla agli inglesi Eibon La Furies: mi elettrizzano allo stesso modo). Formatisi a Roma nel lontano 1992, il loro genere può essere indicato come un gothic metal sperimentale, tendente a parti teatrali. Quello che mi appresto a recensire è la versione decennale rimasterizzata e comprensiva di una traccia inedita (infatti è il loro primo album, uscito nel lontano 1997). La prima traccia, "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia! (N.Anathem / Romanovhimmelfahrt)", si avvale di suoni campionati, chitarra distorta, cori di chiesa e rintocchi di campana; man mano che si prosegue, si può persino udire una specie di esorcismo, ovviamente in italiano: impressionante e coinvolgente, ai limiti della sanità mentale... Assolutamente da ascoltare, anche grazie ai primi 8 minuti (sui 21 della durata del brano) con una “particolare” confessione... altro non voglio dire per non rovinarvi la sorpresa. "Lyturgical Obsession" inizia con un'aria tempestosa, dove vento forte e tuoni vengono seguiti ed accompagnati da note di organo. Verso metà brano si ode un giro di chitarra elettrica: è lì che il brano inizia, con la voce teatrale tendente un po' all'orchestrale e un po' al growl, mentre il sound in sottofondo è molto semplice e campionato (ciò che dà particolarità al brano sono infatti i rumori che si alternano alla voce). Una piccola nota di follia, insomma. Violini e cori maschili aprono la terza traccia, "Under the Elation’s Drape (of my Nobility)": il tono di voce cantato è quasi uguale alla traccia precedente, se non per la decisione di rimanere più sullo stile de “Il Fantasma dell'Opera” (infatti me li immagino di nero vestiti, con una maschera bianca sul volto). Da metà in poi tutto cambia: il canto teatrale viene accompagnato solo da una chitarra acustica, per poi tornare esattamente con la combinazione dell'inizio brano. Altra musica per "I Want Hate!" dal timbro più rock, ma senza mai tralasciare la vena operistica: il sound che ne esce sembra più stile anni '80 (addirittura mi viene in mente Billy Idol!), dove chitarra elettrica, drum machine e tastiere si fondono in un tributo a quel particolare lasso di tempo. "White Venus" è la cover delle Bananarama del 1986 (a loro volta cover degli olandesi Shocking Blue del 1969) in stile più “techno-trance”: ben fatta, a mio giudizio. Torniamo ai monologhi in italiano con "Un Mondo Senza Stelle", quasi ad interpretare una poesia sul connubio stelle/lucciole con note di violoncello e base campionata; con le parole di chiusura della Divina Commedia, si chiude a sua volta questa traccia/monologo. La traccia inedita menzionata all'inizio della recensione è anche l'ultima traccia di quest'opera. "No More" è più uno sfogo sull'attualità, più in stile techno (vedasi “White Venus”) che ricorda gli Scooter: posso solo consigliarne l'ascolto, perché altre parole per descriverla non ne ho. In chiusura, posso dire che questi romani Deviate Damaen sono esattamente come il loro nome: matti, deviati, folli, particolari. Quando sarete alla ricerca di qualcosa di particolare da ascoltare, procuratevi questo cd. (Samantha Pigozzo)

(Space 1999)
Voto: 85
 

Panic Room - Equilibrium

#PER CHI AMA: Nu Metal, Korn, Limp Bizkit, Incubus.
Mmmm... Non sapevo nulla di questi parmensi Panic Room e mi sono approcciato al platter in maniera un po’ guardinga ma fiduciosa. I Panic Room, precedentemente Redrum, sono un gruppo di sei ragazzi nato nel 2002 e questo è il loro primo 33 giri. Possiamo ricondurre le undici tracce nel genere new-metal: il suono, gli accordi, il basso, gli innesti elettronici... tutto nella linea del genere. Anche troppo. Dopo un minuto della open track “Dark Angel”, ho pensato: “Oddio, ma questi sono gli Incubus?!”. Non si offenda Francesco Liuzzi, ma davvero il cantato è molto simile. Allo stesso modo mi appaiono lampanti le ispirazioni prese dai grandi del genere. A fronte di una produzione molto buona, di un album ben suonato, mi è sorta una sensazione non del tutto positiva. Mi è parso di avere a che fare con un mosaico di suoni di altre band (Korn, Limp Bizkit, Incubus), di riuscire a vederne solo le tessere singole e perderne la visione d’insieme. Aggiungo di trovare lo stile compositivo prevedibile e le tracce troppo somiglianti; risultato: un filo di noia. È vero che non manca l’energia, è anche vero che l’omogeneità, spesso punto di forza, qui non funziona. Il “già sentito” prevale sulla passione che si può avere per il genere musicale, lasciando un sentimento di troppo sazio. Come dite? Tutto negativo? Be’ no, avete ragione. Sebbene abbia indicato solo difetti, il mio giudizio è positivo. I nostri sanno suonare e direi bene: non è poco. Come detto, il cantante mi ricorda molto Brandon Boyd, anche questo non è male. Mi hanno molto colpito i testi articolati sul tentativo di fuga dalla paranoia, sono curati e non banalotti. Si sente di aver ascoltato gente in gamba, che però pecca troppo di originalità. Una buona dose di creatività per il prossimo album sarebbe salutare e illuminante.(Alberto Merlotti)

(UK Division)
Voto: 65

Mr. Death - Descending Through Ashes

#PER CHI AMA: Swedish Death, primi Entombed
Solo, avvolto tra le spire della più fitta ed umida delle nebbie, lungo la più ripida e tortuosa delle mulattiere transilvaniche, avverto impotente quegli ultimi borbottii. Provengono dal cofano dell'auto su cui mi trovo. Decretano l'irreversibile quanto flebile ultimo respiro di questo diabolico congegno meccanico fatto di bielle, valvole e pistoni. Ci vedo una sorta di artificiale forma di vita nei motori e come tali, destinati, ahimè, prima o poi, in questo caso adesso, a spegnersi. Per sempre. E lì mi trovo. Solo. Come sempre. In mezzo al nulla. Incazzato nero, scendo. Mi consolo con l'unica compagna che non ti tradisce mai, ti dà tanto senza pretendere nulla, fatta di note, pause ed accenti, quell'orgasmica espressione del talento umano denominata musica. Con gli auricolari indosso, decido di spararmene un'overdose letale, di quella giusta, quella dei Mr. Death, pentacolare formazione svedese. M'incammino quindi, e sulle note di "To Armageddon" mi accorgo che la via più breve per il più vicino centro abitato consiste nell'attraversare un vecchio cimitero. Il cancello che ancora mi separa dal camposanto, da quella che sarà la mia final destination, è semiscardinato: quasi un invito ad entrare. Mi faccio quindi strada senza ben sapere a cosa vado incontro... non appena ne calpesto il suolo, percepisco fin da subito, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la malvagità di cui è intriso. Dalla suola della mia scarpa sento risalire questa gelida sensazione che mi pervade, mi possiede, mi entra dentro, avvinghiandomi. E' un sound rugginoso, grattugiante. Ti si sferza pian piano nel costato e ci si fa strada, ti rigira le membra, è come se le corde di quelle chitarre fossero arpeggiate da uno dei corpi semidecomposti ivi sepolto, con un plettro ricavato da una scheggia del suo stesso cranio. Sfondato. Ebbene proseguo nel mio cammino, passo dopo passo, con circospezione, addentrandomi sempre più in questo territorio infestato, in questa dantesca selva oscura che ancora non ho del tutto ben identificato. Per condurre un'accurato esame autoptico di questa release, mi lancio nell'ascolto della successiva track "The Plague and the World It Made" concentrandomi stavolta sulla voce. Vediamo se riesco a farvela "sentire" anche se in questo momento non la state ascoltando. Proviamoci, via. Tanto non c'è per me cosa più divertente da farsi: ecco, vi trovate in un cimitero, ricordate? E state passeggiando, ve lo ricordate, vero? D'un tratto, si d'un tratto, notate un rivolo di condensa risalire dalla base di una sgangherata lapide 'si vecchia e logora che non se ne legge più nemmeno l'epitaffio. D'improvviso, un braccio, o meglio quel che ne rimane, si fa strada in quella terra dimenticata da Dio e ne emerge, seguito dall'intero cadavere mezzo decomposto. Intriso di larve. Voi restate lì. Impietriti da quella visione. Spaventati da quella mandibola, con il residuo di quei pochi denti rimasti e con l'orbita sfondata. Impalliditi, vi sentite raggelare il sangue nelle vene, ne sentite la densità aumentare, avvertite le vostre pulsazioni. Vorreste ahimè urlare ma è come se questo comando vi fosse d'improvviso vietato e non riuscisse a raggiungere la vostra mente: dalla bocca non vi esce un fiato. Ve ne restate lì, succubi, ad ascoltarla emettere quello screaming cupo, cavernoso, truce come l'aria asfittica insufflata da logori mantici nelle vetuste canne del più antico degli organi sacri. Una voce che perfettamente si sposa nel contesto di quelle melodie. Ci fa sesso. Un incastro perfetto, dal disegno Escheriano, ingannevole, che non è davvero come appare. Una voce che non ricorda certo l'Ave Maria di Schubert ma che trasuda nella mia mente una lisergica versione del Dies Irae. No, non quella famosa di Mozart. Quella intonata da Satana stesso ogni qual volta, nel suo piccolo, s'incazza. Ebbene, vi ho già raccontato parecchio ma aspettate un momento, concedetemi ancora un istante. Si perchè mica finisce qui. Ancora non vi ho condotti, mano nella mano, nella mia terra promessa. Si ormai la conoscete, l'abbiamo calcata altre volte assieme, è il mio personale Eden fatto di piatti e tamburi. Ve lo faccio ancora una volta, via, proviamoci, "sentire" anche se come prima non lo state ascoltando. Chiudete gli occhi ed immaginate il dio Vulcano, quello impresso sulle vecchie 50 lire, per intendersi, ve lo ricordate? Lo vedete il metallo ardente forgiato colpo su colpo dal suo martello? Osservatene le copiose scintille, percepite le vibrazioni del contraccolpo del martello trasferirsi e risalire lungo il vostro braccio. Ecco, è esattamente questo quello che io stesso provo nel momento in cui per primo, percuoto i miei di piatti ed è la stessa medesima sensazione, che vivo, in questo momento, ascoltando "Descending Through Ashes". Immaginate adesso da voi i tamburi: non posso mica dirvi sempre tutto io. Ancora una volta, adesso, tutti vi starete chiedendo: si ma sta cavolo di storia come andrà a finire? Ebbene, nella verità, la macchina non si era fermata. Si era invece fracassata contro quel cancello. E' il motore della vostra vita, ad essersi spento. E si è portato via la vostra anima, sempre che ne abbiate mai avuta una. Si, se l'è portata via, ma solo per 34 minuti e 14 secondi: l'esatta durata, per intero, di questi dieci comandamenti incisi su lapidi denominati "Descending Through Ashes". Alla fine dell'ascolto sarete ancora vivi e vegeti, non temete. O forse... (Rudi Remelli)

(Agonia Records)
Voto: 75
 

sabato 17 dicembre 2011

Blut Aus Nord - 777 The Desanctification

#PER CHI AMA: Ritualistic Black Avantgarde, Ambient
Devo recensirlo, sento il suo richiamo, è come una droga che si insinua nel cervello, spazzando via ogni brandello di materia cerebrale che popola quanto contenuto all’interno della scatola cranica. I Blut Aus Nord sono dei maestri del male, dei prestigiatori, degli illusionisti, dei pazzi furiosi, abili nell’arte dell’ipnosi con quel loro sound malato, oscuro e magnetico. E “The Desanctification”, come il suo predecessore, in questa psicotica trilogia non è da meno. È un album cervellotico, cerebrale, se volete anche glaciale, che manderà in confusione i vostri centri nervosi, i vostri sensi e tutta un tratto vi troverete catapultati nel peggiore degli incubi. Si perché proprio partendo dalla iniziale “Epitome VII”, che riprende là dove “777 Sect(s)” aveva terminato in modo incompleto, appunto come se lasciasse presagire che qualcosa d’altro sarebbe arrivato, a distanza di sette mesi ecco giungere a sconquassarmi la vita un altro imprevedibile lavoro di black metal d’avanguardia, atmosferico, straniante, tormentato, controverso, alchemico, sperimentale, schizofrenico, onirico, stralunato, dissonante, melodico, e ancora tutto e il contrario di tutto. Un lavoro che ancora una volta mostra tutto il valore di una band che da quasi vent’anni ci stupisce di release in release con lavori disorientanti, bizzarri, strampalati, privi di una logica ben precisa, che spinge anche il sottoscritto ad esprimersi in modo decisamente caotico nella recensione dei loro dischi, il cui unico obbligo alla fine è semplicemente quello di farlo vostro e custodirlo gelosamente nella vostra collezione di cd. Se amate i Blut Aus Nord fidatevi ciecamente delle mie parole, anche se rispetto al passato “The Desanctification” si rivela meno selvaggio e ancora più votato alle sperimentazioni cyber industriali. Chi non li conoscesse, beh vi suggerisco di partire da questo lavoro e andare lentamente in modo retrogrado a scoprire le precedenti uscite di una delle band più entusiasmanti dell’ultimo decennio. Ora attendo il terzo capitolo di questa sorprendente trilogia. Caldamente glaciali! (Francesco Scarci)

(Debemur Morti Prod.)
Voto: 90

The Sullen Route - Apocalyclinic

#PER CHI AMA: Death/Doom/Post Metal
Devo ammettere che non mi avevano fatto impazzire in occasione della loro prima release anche se un 65 se l’erano portato a casa, colpa di un sound un po’ troppo ridondante, fin troppo asfissiante e privo di una certa personalità. Il quartetto russo (orfano della bella bassista che aveva popolato i miei sogni in occasione della prima release) ci riprova e devo confessare che un bel balzo in avanti i nostri l’hanno fatto, forse seguendo anche le indicazioni che da più parti erano arrivate dagli addetti ai lavori, e che quanto contestavo nel precedente “Madness of my Own Design”, in questo nuovo capitolo è stato definitivamente limato e sistemato. Partendo comunque da una base death doom, ecco che la band di Volgograd ha seguito qualche piccolo accorgimento: migliorato sensibilmente il songwriting e lo si evince fin dall’iniziale “Hysteria”; abbandonate le divagazioni pachidermiche, conferendo una maggiore ariosità e dinamicità alla proposta anche nelle parti più strettamente doom come nella seconda “Selfish I”; migliorata decisamente la performance vocale, con Elijah molto più sicuro nella sua veste non growl (non posso parlare di clean perché non sarebbe corretto). Ciò che di buono c’era nel debut è rimasto invariato e sto parlando di quelle atmosfere malinconiche/autunnali che qui sono state riprese e curate maggiormente nei dettagli (splendida “Burial Ground”) dove addirittura il doom sembra voler lasciare posto a delle divagazioni post rock, con parti arpeggiate che contribuiscono nel permeare il tutto di una velata vena nostalgica. L’album trasuda di calde emozioni: “Cynoptic” è una song dal mood quasi trip hop spezzata solo dal growling profondo di Elijah e da un riffing a tratti possente. L’apice lo si raggiunge però con “Dune”, song che miscela un southern metal con il death, questo a dimostrare che i The Sullen Route questa volta devono essere presi decisamente sul serio, perché le idee ci sono e sono anche estremamente interessanti, come dimostrato dal finale goticheggiante affidato a “Tonight’s Avenue” e alla roboante “All in October” (che mi ha ricordato qualcosa dei Rapture). Bel disco, ne sono lieto. Ora mi aspetto il capolavoro con la prossima release. Avanti tutta! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75

Laetitia in Holocaust - Rotten Light

#PER CHI AMA: Black/Avantgarde, Blut Aus Nord
Molto più facile recensire una band dopo che l’hai intervistata e ne hai capito le intenzioni malvagie o misantropiche, tuttavia per i Laetitia in Holocaust non è stato decisamente il caso. La band di Modena che ho avuto modo di conoscere e con cui ho avuto modo di approfondire le tematiche contenute in questo disco, “Rotten Light”, mi ha immediatamente colpito per il suo essere fuori dal comune, anticonformisti al massimo e la cosa si riflette anche nella loro musica, che ha l’immenso pregio di non essere accostabile a nessun’altra band in circolazione. E come ben sapete, quando mi ritrovo al cospetto di tale originalità, la mia attenzione ne è catalizzata al massimo. Ma partiamo con la recensione e lo facciamo da un fermo caposaldo: “Rotten Light” non è un album semplice, anzi: bisogna avere una grande apertura mentale per affrontarlo anche a livello di liriche, costantemente relegate nel filosofico, ma il fatto di essere scritte in italiano all’interno del booklet, agevola non poco la possibilità di entrare nelle menti deviate di questi ragazzi. Il cd si apre con la cerebrale “Dialogue with the Sun”, canzone assai ipnotica, che nei testi riprende il tema della cover cd, ossia delle locuste che divorano il sole, ma non voglio entrare in maggior dettaglio nei testi, in quanto rischierei di dare una errata interpretazione del significato che l’act di S. e soci vuole trasmettere. Ciò che conta è la musica, ma per una volta nella vita, mi trovo veramente in difficoltà nel dovere affibbiare un’etichetta ad una band; mi limiterò col dire che sperimentale o d’avanguardia, sia la soluzione più semplice per definire il sound dei nostri. Abbandonati infatti gli estremismi sonori del precedente lavoro, “The Tortoise Boat”, “Rotten Light” si presenta come un viaggio angosciante nei meandri più reconditi della psiche umana e lo fa attraverso dei brani che sembrano collegati fra loro, partendo dalla già menzionata “Dialogue with the Sun”, passando attraverso la furente (solo per il drumming incessante che si interseca a delle splendide chitarre acustiche) “Black Ashen Aurora” (dove non riesco a capire se i colpi dati sulle pelli siano umani – ma in tal caso sarebbero disumani - o creati da una drum machine); la straniante, allucinante e malinconica “Le Perdu de Novembre”, dove il cervello va completamente in pappa per dei suoni allucinanti che si incuneano nelle nostre reti neuronali, disorientandoci completamente. Non c’è uno schema ben preciso nelle note dei nostri, è improvvisazione allo stato puro; la band si diletta a mettere in musica ciò che più gli piace senza rispettare un ordine naturale delle cose. Ancora suoni inquietanti aprono “Ascension to Cursed Waters” e se volete nei nostri si può ritrovare un’attitudine disarmonica/avanguardistica simile a quella dei francesi Blut Aus Nord, anche se poi ben poco la musica ha a che fare con quella dei blacksters francesi. La cosa incredibile che contraddistingue il trademark dei nostri è creare il chaos con delle semplici parti arpeggiate, bellissime vocals (la cui fonte di ispirazione potrebbe essere Attila Csihar) e ambientazioni orrorifiche, come nel caso di “Sulla Soglia dell’Eternità”, una sorta di mini suite per un film dell’horror, con spettrali giri di chitarra e vocals sussurrate… mortale e affascinante. Questi signori, sono i tormentati Laetitia in Holocaust, una delle realtà più interessanti che mi sia capitato di ascoltare in questo noioso e tormentato 2011. Creatività e morbosità allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90