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domenica 7 maggio 2023

Edredon Sensible - Montagne Explosion

#PER CHI AMA: Jazz/Avantgarde/Kraut Rock
Due anni fa presentavamo la band di Tolosa come un tossico mix di Seefeel, Ottone Pesante e Naked City. Oggi siamo qui a riproporveli con la stessa esilarante verve ma con caratteristiche più evolute: detto che squadra che vince non si cambia, l'accoppiata di due percussionisti e due fiati si dimostra tutt'altro che logora di idee e punta dritta al salto di qualità. In effetti il nuovo disco, intitolato 'Montagne Explosion', parte subito a mille all'ora con un brano, "Poulet Gondolé (Chasuble)", accelerato ritmicamente e molto vicino allo Zorn più scanzonato e divertente passando per "Une Bonne Soupe Au Lard" che, tra strampalate grida euforiche, ci espone un tema ipnotico e paranoico. Krautrock per forma e sostanza, un sound compulsivo, sull'orlo di una crisi di nervi, suonato da sax impazziti e una ritmica cara ai Tambours du Bronx (in un numero ristretto di percussionisti) quanto ai giochi percussivi di Byrne in 'Rei Momo'. Il tutto vale anche per "GQ" e "Where Is un Alcool Japonais Qui Aime Se Baigner En Restant à La Même Temperature" . Canoni sonori che si ripercuotono in tutto il disco e lo caratterizzano fortemente. Lungi però dal pensare che gli Edredon Sensible siano ripetitivi anzi, dimostrano infatti in questo secondo full length, di aver raggiunto un consolidamento stitlistico di tutto rispetto ed una fantasia compositiva sopra la media. Di certo usare i concetti compositivi che sono più identificabili con la musica elettronica pulsante ed ossessiva, tanto per fare un nome alla Miss Kittin and the Hacker, in forma sempre progressiva, psichedelica e jazz fuori dagli schemi, non è proprio da tutti, e anche il suo ascolto non è proprio per un vasto pubblico. Il quartetto francese è senza freni e viaggia sulle onde del free jazz più libero permettendosi di mandare più di una volta in orbita l'ascoltatore, come un vero e proprio progetto di musica trance, mantenendo sempre un fortissimo legame con le fondamenta del jazz più d'avanguardia ma anche quel tocco frizzante di certo acid e free rock, come se gli Us3 riprendessero una song per riproporla in chiave psichedelica, dallo sterminato catalogo del maestro Zorn. Titoli di canzoni strani per una musica complessa e carismatica, fatta per essere compresa da una piccola nicchia di veri ascoltatori e adoratori di sperimentazione intelligente, suonata da musicisti con la M maiuscola. Quando "Lo Pastour Bai Amouda" stravolge e silenzia il tutto, passando ad un canto appena sussurrato e folk, rurale e ancestrale, con sperimentazioni vocali nel ricordo delle divine scuole di Meredith Monk, Joan la Barbara e l'ancestrale mistico di Sharron Krauss, rivela un brano assai suggestivo composto in compagnia delle belle voci di Lola Calvet, Lisa Langlois, Noëllie Nioulou, Marthe Tourret, in una traccia molto diversa e inaspettata per lo stile della band, ma davvero intrigante. Come già accennato, l'efficacia percussiva della band, si apprezza alla grande in "Where Is un Alcool Japonais...", che potrebbe rientrare nel catalogo dei Banco de Gaia (stupendi peraltro i momenti in cui la musica sembra incepparsi), mentre nei brani a seguire ci si gioca la carta dell'atmosfera e dell'esotico, ampliando ulteriormente la rosa di sonorità toccate dal quartetto. "Danke Schoen Paul" è il brano più d'impatto e disturbato del lotto, con degli stop musicali interrotti da cori stile festa di capodanno e urla forsennate tra sax impazziti e ritmi trascinanti, mentre "Gros Pinçon" è una spettacolare, straziante e lunghissima marcetta progressiva, in stile no wave, coinvolgente e stralunata, che mi ricorda lo stile dissonante di 'Eine Geschichte' dei Palais Schaumburg, unito a certe atmosfere impossibili di Terry Riley, per una melodia insana, intensa e malata. Questo è un vero disco per appassionati ascoltatori, indifferenti alle etichette di ogni sorta, questa è vera avanguardia sonora. Fatevi avanti gente, qui ce né per tutti i gusti! (Bob Stoner)

(Les Productions du Vendredi - 2023)
Voto: 84

https://edredonsensible.bandcamp.com/album/montagne-explosion

venerdì 5 maggio 2023

Mushroom Giant - In a Forest

#PER CHI AMA: Post Rock
Li avevo recensiti due anni fa in occasione del decennale dell'etichetta Bird's Robe Records, con l'album 'Painted Mantra', uscito originariamente nel 2014. Li ritrovo oggi con un album nuovo di zecca, 'In a Forest', ed un sound che non si discosta poi di molto da quella che è l'architettura post rock di fondo degli australiani Mushroom Giant. Il "Fungo Gigante" ci offre sette nuove tracce, che si rivelano introspettive nel loro incedere sin dall'iniziale "Owls", che richiama inequivocabilmente in causa i due gufi ritratti in copertina. I suoni dicevo, sono alquanto introversi, ma ci stanno se l'intento è quello di narrare di una foresta e dei suoi misteriosi abitanti. La band di Melbourne è sapiente nel miscelare post rock con una buona dose di dark, progressive e suoni cinematici vari, per quello che è il marchio di fabbrica del quartetto australiano. Poi, chi li conosce, sa perfettamente cosa aspettarsi dall'ascolto di questo nuovo capitolo: le atmosfere spettrali che si respirano nella seconda metà della prima traccia sono un esempio delle caratteristiche dei nostri ma non solo. Io li ricordo anche come abili costruttori di break di pink floydiana memoria e a tal proposito mi viene in soccorso la settantiana e nebulosa "And the Earthly Remains". "Vestige" è caratterizzata da una stratificazione di chitarre che esibisce la tecnica-compositiva dell'ensemble, che necessiterebbe tuttavia di un bravo vocalist per dare una narrazione a quello che la band allestisce in sede musicale, e per tirarci fuori dalle sabbie mobili di un genere, a volte, troppo spesso ingessato nei suoi rigidi paradigmi. "Earthrise", song da cui è stato peraltro estratto un video, parte lenta e malinconica, ma sarà in grado di aumentare i giri del motore grazie a una splendida chitarra solista che si sovrappone a una ritmica più ordinaria. "Aire River Rapids" sembra prendere le distanze dal post rock dei primi pezzi, risultando decisamente la più pesante delle tracce, complice un robustissimo riff e un drumming bello potente. Ah, una voce un po' urlata, come avrebbe fatto comodo nelle insenature di questo pezzo, e forse ancor di più nella successiva e sinistra "Mountain Ash" che sfodera un grande lavoro sia alla chitarra solista, e ancor di più a quella ritmica, che improvvisamente s'interrompe per cedere il passo a "And the Earthly Remains". "The Green Expanse" propone il secondo video di questo lavoro: un'apertura dai tratti ambient e poi i classici suoni dilatati del post rock, per una chiusura che ha il solo difetto di risultare un po' troppo scontata nei suoi contenuti, nonostante l'eccelso lavoro svolto a livello di suoni. Il fatto è che, attenendosi troppo agli standard del genere (e penso anche al tremolo picking proposto qui), il rischio è quello di sapere già cosa ci sarà ad aspettarci nell'evoluzione di un brano, e per questo opterei, anche a piccolissime dosi, all'inserimento di una voce o anche di un parlato, che dia maggiore imprevedibilità ad un disco che ha il solo rischio, di risuonarvi nelle orecchie come già sentito. E sarebbe un peccato. (Francesco Scarci)

Yattering - Human’s Pain

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Grind/Brutal Death
Fortunatamente la ripubblicazione del primo loro album, che fu apprezzata solo in Polonia, sarebbe stata solo la solita fortissima mazzata sui denti, invece con una cover dei Brutal Truth, una degli Slayer più brutali, e l’inserzione di un’altra bonus track, si rinforza questa dose di violenza. L’album è brutal grind, che aizza anche numerose digressioni di cieca ferocia, ed è in generale schizzato, secco, arido e sgraziato, con una voce straziata ed una cavernosa e profonda, forzata; strilla anche un urlo cupo. Il loro secondo album è più intricato. Questo è una soluzione, senza morbidezze, compatto, di isterie che maneggiano molteplici lame dalla batteria alle chitarre. Gli assoli spezzano la brutalità da riminiscenze thrash, ma più spesso esprimendo senso di disgusto mordace.

(Moonlight Productions/Season of Mist - 1998/2001)
Voto: 70

https://seasonofmistcatalogue.bandcamp.com/album/humans-pain

Nott - XX

#PER CHI AMA: Black Metal
Da non confondere con l'omonima creatura statunitense, i Nott di quest'oggi sono una one-man band italica, dedita a quello che il mastermind H. Archvile definisce "primitive black metal". E non posso che essere d'accordo con tale definizione, laddove "Two Decades of Oblivion" irrompe nel mio stereo con quella sua forma primigenia di black nero come la pece. Sembra un tuffo indietro nel tempo di quasi 30 anni, quando il black metteva a ferro e fuoco la penisola scandinava e avanzava strisciando minaccioso nel resto d'Europa. Ecco dove affonda le sue radici il factotum bresciano che da ben vent'anni ha in mano le redini di questo progetto (ormai al quinto album) ma che compare anche in altre realtà come i Nebrus, i Necrutero e I Sentieri di Staglieno. La proposta del polistrumentista si muove in modo piuttosto omogeneo in tutti e gli otto capitoli di questo lavoro, attraverso un riffing vorticoso e tagliente, screaming vocals che vengono inframmezzate qua e là da un cantato epico e folklorico che sembra stemperare per alcuni secondi, quella furia atavica di darkthroniana memoria messa in musica da Archvile. Se "We Are the Virus" segue pedissequamente le trame chitarristiche dell'opener, con "Naked Apes", il musicista lombardo prova quanto meno ad iniziare con un suono più compassato che da lì a pochi secondi, divamperà comunque in un incendiario attacco black. Fortunatamente la song gode di molteplici cambi di tempo che le permettono di staccarsi dal routinario sound ascoltato sin qui. C'è anche una certa parvenza di thrash metal a permeare il brano, che permette di apprezzare meglio il lavoro. Chitarre (melodiche) e voci al vetriolo contraddistinguono invece la successiva "So Close in the Fog". Il sound è veloce, ha un taglio infernale, le vocals sono oscure e le ambientazioni inquietanti, tanto da evocarmi gli Aborym più feroci degli esordi. Ancora un sound più controllato quello che si respira in "Conclave of Fire", lugubre e atmosferica e per certi versi più vicina alle produzioni passate dei Nott. Il nuovo verbo imposto da Archvile al proprio sound deve essere però quello di un black al fulmicotone, scarno e lineare quanto basta; ecco perchè al quinto minuto, si ritorna su ritmi decisamente più tirati, sebbene un'alternanza tra rasoiate e altre più atmosferiche. E se si parla di atmosfera, anche "Earth’s Black Box" deve essere inclusa tra quelle song che la esibiscono almeno per pochi secondi, per poi dar fuoco all'aria con ritmiche sanguinose (e qui anche più sghembe), per poi ripristinare la famosa quiete prima della tempesta con un cantato epico e maestoso. Il disco continua con il medesimo canovaccio con altri due brani, "Culicidae Cult" e "Twelve". Il primo mette in mostra un ipnotico giro di chitarra come matrice ritmica, pertanto una maggiore ricerca atmosferica, che forse alla fine dei conti, lo renderà il mio brano preferito. La seconda, di burzumiana memoria nella parte più evocativa, riprende con un riffing serrato a base di chitarre zanzarose e blast beat. Forse qui risiedono i limiti di questa release, che poco ha da dare in termini di originalità, ma che magari farà la gioia di tutti gli amanti della prima ondata black metal norvegese. Intriganti si, ma credo che in pochi ascolti si esaurirà l'interesse verso questa release, un po' troppo piattina per i miei gusti, nonostante abbia assistito a fine anni '80, alla nascita del black. (Francesco Scarci)

(Schierling Klangkunst - 2022)
Voto: 66

https://schierlingklangkunst.bandcamp.com/album/nott-xx

lunedì 1 maggio 2023

Stormhaven - Blindsight

#PER CHI AMA: Prog Death
Per i fedelissimi del Pozzo dei Dannati, il nome Stormhaven dovrebbe richiamare qualcosa nella vostra memoria. Recensii infatti nel 2019 il precedente lavoro della band francese, 'Liquid Imagery'. Il quartetto di Tolosa torna ora con questo nuovo 'Blindsight', una mazzata in pieno stomaco e una carezza in pieno volto, attraverso sei sole tracce (per oltre un'ora di musica). Il disco si apre con la dirompente "Fracture", e le sue fragorose ritmiche che chiamano in causa ancora una volta i vecchi Opeth in quelle cascate di riff e bordate alla batteria. Lo stesso dicasi del buon Zachary Nadal alla voce, bravo a districarsi tra un growling purulento e clean vocals che evocano anche qui il frontman degli svedesi, Mikael Åkerfeldt. Se ad una prima lettura, quello degli Stormhaven sembra più un "copia-incolla" degli Opeth, beh vorrei dirvi che la struttura dei brani, i cambi di tempo, la tecnica sopraffina, gli assoli, le parti acustiche, le trovate geniali, i cori e molto altro, sparigliano invece le carte, mettendoci in mano un lavoro solidissimo e assai figo. Questo per dire, che alla fine non me ne frega un cazzo se i nostri possono ammiccare più e più volte a quelli che per me un tempo (prima della famigerata sterzata stilistica) erano i maestri del prog death, quanto contenuto in 'Blindsight' infatti sembra raccogliere definitivamente il testimone dai master scandinavi, aggiungerci un tocco dei Ne Obliviscaris, a cui poi aggiungere una buona dose di personalità. Certo, al pari dei colleghi più famosi, anche in questo album troveremo lunghe partiture dissonanti di chitarra (quasi un tributo a 'My Arms, Your Hearse') come potreste ascoltare per lunghi tratti nella più sghemba "Vision", ma poi i nostri sembrano raccappezzarsi in lunghi e splendidi assoli melodici (scuola classic metal) e ottimi cori che rendono il tutto più fruibile anche in quegli spaventosi attacchi al fulmicotone; si ascolti il finale della stessa "Vision" per credere. Più lineare e ritmata "Shadow Walker", che per almeno i primi 120 secondi sembra rispettare i paradigmi del genere, per poi prendere la tangente e dar sfogo alla propria visione di death progressivo che noi non possiamo far altro che apprezzare, ascoltandolo in rigoroso silenzio, fino al nuovo inebriante assolo da urlo che chiude il brano (ma che lavoro stratosferico è stato fatto qui alle sei corde?). In successione arrivano poi "Hellion" e "Salvation", per altri 17 minuti di sonorità in cui gli Stormhaven si muovono in bilico tra prog, death, suoni sperimentali, classic rock, parti acustiche, e che vedono la band dare il meglio di sè, per un'esibizione davvero coinvolgente e avvolgente. Rimane ancora il classico mostro finale da affrontare, ossia gli oltre 24 interminabili minuti di "Dominion", ma chi glielo ha fatto fare a mettere in piedi un tessuto cosi complesso, mi domando? Comunque mi dò in pasto all'ultimo brano (ora capite anche perchè il disco dura 64 minuti), che sin dall'apertura si dimostra ubriacante a livello ritmico con cambi ritmici vertiginosi, sorretti da uno splendida, quanto inatteso, arpeggio di chitarra, mentre un saliscendi chitarristico ci porta diretti sulle montagne russe, con il vocalist che peraltro assume qui contorni più blackish, e i synth sembrano dare un taglio più sinfonico al tutto. Ma il brano è in continua evoluzione, dal black al prog death, a raffinate sonorità più dark rock oriented. Insomma, la tipica ciliegina sulla torta, che porta con sè nuovi suoni, nuove idee, granitici muri sonori, break atmosferici, un'alternanza vocale da paura e molto molto altro, segno dell'enorme maturità tecnico-compositiva raggiunta da questi straordinari musicisti francesi, di cui l'invito a dargli una chance, è ben qualcosa di più che un semplice consiglio. (Francesco Scarci)

Atsuko Chiba - Water, It Feels Like It's Growing

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Con un moniker fantastico, mi avvicino con una certa curiosità agli Atsuko Chiba, band originaria del Canada il cui nome sembra derivare dal protagonista di un anime giapponese. ‘Water, It Feels Like It's Growing’ è il loro terzo lavoro che ci delizia con un post rock ritualistico, sperimentale e riflessivo. Almeno questo è quanto testimoniato nella splendida traccia d’apertura, “Sunbath”, che si muove tra atmosfere ipnotiche guidate da un eccellente lavoro di basso e chitarre e dalla gentile ugola del frontman. Echi di Tool, Lingua e A Perfect Circle si coniugano in questo primo splendido pezzo che ci accompagna a “So Much For”, song alquanto imprevedibile per quel che concerne una musicalità in bilico tra prog rock, alternative, math e suoni sperimentali che sembrano scomodare addirittura i The Mars Volta, mentre la voce sembra aver perso qui quella morbidezza che avevo apprezzato nell’opener, per una versione più in linea con la band australiana e anche con Mike Patton. La traccia, per quanto dotata di una certa dose di originalità, devo ammettere non mi faccia del tutto impazzire. Molto meglio la successiva “Shook (I’m Often)”, più dotati di ritmi compassati e di una buona base melodica su cui poggia la meritevole voce del cantante canadese che si conferma ad altissimi livelli anche nella successiva “Seeds”, meravigliosa, con quei suoi ritmi pulsanti e synth che donano al pezzo un certo spessore, complice peraltro l’utilizzo di violino e violoncello nel break centrale del brano. Quando gli Atsuko Chiba provano a uscire dagli schemi per voler strafare, perdono un po’ della loro magia, leggasi la prova di “Link”, un pezzo che risente di una certa vena post punk sperimentale che tuttavia non riesce a sfondare, complice ancora una volta un utilizzo più alternativo e meno suadente del cantato che sembra snaturare il sound dei nostri. In chiusura, ecco la title track, un connubio tra psych blues post rock dalla verve pink floydiana che ci lascia con uno splendido assolo che sottolinea, ancora una volta, la classe e l’eleganza che permea questi straordinari musicisti. (Francesco Scarci)

(Mothland – 2023)
Voto: 75
 

sabato 29 aprile 2023

Blind Ride - Paranoid-Critical Method

#PER CHI AMA: Garage Rock/Post Punk
Per Dalí, la rielaborazione razionale delle conseguenze della paranoia, ovvero le delusioni, le allucinazioni e il delirio, rappresentano il processo critico, concetto sul quale poggia la nascita del disco di debutto dei molisani Blind Ride, ‘Paranoid-Critical Method’, che esce tre anni dopo l’EP ‘Too Fast for a Sick Dog’ che ci aveva fatto conoscere la band italica. Ora il terzetto torna più in forma che mai con un sound scontroso ma atmosferico, pesante ma vellutato, il tutto certificato dall’apertura affidata a “Surrogate of a Dream” che mi conquista immediatamente con quella sua matrice ossessiva che sembra coniugare dissonante post punk e garage rock. Il post punk esplode forte anche nella successiva distorsiva “Relationship Goals”, un pezzo che per certi versi mi ha evocato lo spettro dei Fountains D.C. che vanta peraltro un fantastico lavoro alle chitarre nel finale. “For You” ci prende a schiaffi con un groviglio di riff marci quanto basta per catapultarci indietro nel tempo di una trentina d’anni (chi ha detto Sonic Youth?), con la voce di Marco Franceschelli a mandare a fare in culo il mondo intero. “Holy Arrogance” è un manifesto contro le guerre fatte in nome della religione, che si muove su una ritmica piuttosto lineare e che mostra un buon lavoro alle percussioni, al pari di quello delle chitarre. Con “Numbers” ci si muove nei paraggi di uno psych rock compassato, melodico ed ispirato, tale da renderla anche la mia traccia preferita del disco. È decisamente in questa veste più raffinata ed elegante che preferisco infatti i Blind Ride, anche se devo ammettere che il loro fare “arrogante” non mi dispiaccia affatto, come testimoniato nelle chitarre sghembe di “Corporate Rock” e nelle sue lugubri atmosfere dark punk di primi anni ’80. Una modalità che sembra ripetersi anche nella tribalità stoner psych rock di “Stranger to My Eyes”. A decretare la fine dei giochi ci pensa la frenesia pulsante acid rock della strumentale “A Song Without Words”, che sottolinea la capacità dei Blind Ride nel districarsi positivamente in territori musicali battuti e strabattuti. Bravi! (Francesco Scarci)

Khanate - S/t

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Doom/Drone
Ammetto di non sapere assolutamente nulla riguardo questa band newyorkese, cosi come devo ammettere che la copertina non mi ispirasse molto, ed invece mi sono ricreduto dopo aver ascoltato almeno quattro o cinque minuti della prima lunghissima song, "Pieces of Quiet". Mi ci sono voluti almeno cinque minuti di ascolto perché non sapevo se la band stesse scherzando oppure no, visto l'ultra slow doom proposto, cosi come tradizione vuole. Chitarre distorte e pesanti, tempi al limite dell’ossessione, a tratti sembra anche molto stoner, ma questo è doom metal, e poi, la cosa che mi ha colpito di più, la voce, stridula e gracchiante, sembra che gli stessero strappando le corde vocali. Questi erano i Khanate (oggi ormai scioltisi), che si pronuncia CON-EIGHT, che erano formati da membri di OLD e BURNING WITCH, e cosa volete di più.

(Southern Lord Recordings - 2001)
Voto: 70

https://www.metal-archives.com/bands/Khanate/


Les Dunes - S/t

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
Come evolvono a volte le cose. La Norvegia, patria natia del black metal, ora è fucina infinita di talenti che si muovono in un sottobosco brulicante di eleganti sonorità post, prog e symph rock che ci hanno permesso ultimamente di perlustrare in lungo e in largo il territorio scandinavo. Oggi mi fermo a Haugesund, piccolo paesino nella contea di Rogaland, luogo da cui provengono questi Les Dunes. Anche qui, che cambiamento: una volta s’incensava la lingua degli antenati vichinghi, oggi si utilizza addirittura la lingua di altre nazioni. I Les Dunes non sono poi gli ultimi arrivati, visto che tra le proprie fila, inglobano membri di The Low Frequency in Stereo, Lumen Drones, Helldorado, Undergrunnen e Action & Tension & Space, che in questo album autointitolato, sciorinano otto pezzi strumentali condensanti post rock dai tratti dilatati, malinconici e meditabondi, che potrebbero evocare le sonorità intimiste di act quali Explosions in the Sky o addirittura Sigur Rós, laddove il trio si lancia in partiture più ambient (“Keisarholi”). Un approccio cosi tranquillo, che sfiora lo slowcore degli anni ’90, fatto di chitarre in tremolo picking, melodie soffuse (“Spectral Lanes”) e suoni minimalisti, ha però pregi e tanti difetti: nei primi collocherei una sana voglia di abbandonarsi ad un mondo sognante, tra i difetti, il fatto che dopo sole quattro canzoni non ne posso davvero più di andar oltre, inducendomi a slittare la finalizzazione della mia recensione il giorno seguente. L’effetto però si è rivelato il medesimo, con quello stesso desiderio di skippare al brano successivo e poi ancora avanti, perché dopo un po’, l’ascolto diventa dilaniante, noioso (“Zosima”), nonostante la band sia comunque composta da ottimi musicisti. Il fatto che rimane è che dopo un po’ non se ne può più, sebbene qualche buon spunto sia anche riscontrabile nel disco, ma forse qui più che altrove, l’assenza di un vocalist si fa sentire più che mai. In definitiva, ‘Les Dunes’ è un disco che mi sento di consigliare a chi non può proprio fare a meno della dose quotidiana di post rock strumentale, tutti gli altri si astengano se non vogliono ritrovarsi con un cappio al collo dopo pochi minuti. (Francesco Scarci)

(Kapitän Platte – 2023)
Voto: 60

https://lesdunes.bandcamp.com/album/les-dunes

Suffocation - Blood Oath

#FOR FANS OF: Brutal Death
Downright abrasive to the ear lobes! What a masterpiece, I cannot say what a riff that's been played on here that was in an ill place or poorly played. All seemed to fall into place perfectly. Vocals are top-notch as well! They're compliment the dark death metal that goes alongside it. The leads were immaculate, too. I believe this was one of the last LP's that's with Frank Mullen on vocals. I think he did a couple more until he hung it up with Suffocation. What a tragedy, as well. He was one of the driving forces for the band and always had been. Well, hold on tight to these vocals here and embrace the music!

The majority of the music on here is downright brutal riffs. Along with Frank's vocals the music just tears it up. Tempos vary from a blitzkrieg of fury to moderate to slower, but technical riffs. All in all, this is an abomination of soul in the dark feeling of despair. Their earlier material shows more disruption into faster flowing riffs. On here, they pretty much shoot on all fronts of metal. That's what makes this release so likable. You'll find that they flow more freely in the realm of slower riffs with the drums backing up the guitars gruntingly. And the lead guitars are all so very technical in flowing.

Frank leads the way though on this album, he belts out his grunting and the music follows his lead quite solemnly. The band does a great job collectively. Again, it's a slower paced Suffocation release, but it's still magnificent in composition. The sound quality is top notch and you can hear everything pieced together. That's what lacked in their earlier recordings...the production was lacking in good sound but on here it's top notch. Everything seems to flow together and all instruments/vocals share triumphant bits of music throughout. I think this is one of my favorite ones ABSOLUTELY!

I heard this on Spotify first off and decided that I needed the CD itself. That's how highly I esteem this release. It goes from death metal to brutal death metal to doom metal all in one release. There just is a lot of fluctuation on here which makes it so versatile! It's a bit under an hour of great metal! If you think otherwise when you hear this, I would be appalled. This album just dominates through and through. It's a somewhat different Suffocation release in that the production is better but the music is more chargingly dismantled. From every avenue this release topples it all! Check it out! (Death8699)


(Nuclear Blast - 2009)
Score: 85

https://www.facebook.com/suffocation/

Magnify the Sound - Don’t Give Us that Face

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali
Non certo una passeggiata la recensione del duo norvegese che risponde al nome di Magnify the Sound, una band in giro ormai dal 2010, ma di cui francamente non avevo mai sentito parlare, se non fosse che uno dei membri fondatori è Trond Engum che a suo tempo fondò pure i The 3rd and the Mortal e i The Soundbyte, il che aumenta a dismisura la mia curiosità. Escono con un nuovo album quindi, e ‘Don’t Give Us that Face’ sembra essere di primo acchito un esercizio di improvvisazione musicale che esplode potente nelle nostre orecchie (io l’ho ascoltato con la cuffia ed è stata una figata). Quello che deve essere immediatamente chiaro è che verremo sommersi da 40 minuti di suoni unici, affidati a chitarre, a una batteria pazzesca (a cura del jazzista Carl Haakon Waadeland) e all’elettronica, il tutto ideato come una sorta di jam session catartica proiettata nell’universo, un po’ alla stregua dei suoni della sonda Voyager I che inglobavano quelli naturali (le onde del mare o il vento), quelli prodotti dagli animali, come il canto degli uccelli e le balene, cosi come pure percussioni senegalesi o musiche di Bach, Chuck Berry o Mozart. Ecco, se avete avuto modo di ascoltare quel disco d’oro inserito nella famosissima sonda lanciata nello spazio infinito, e poi vi approccerete a questo 'Don’t Give Us that Face', le sensazioni sovrannaturali che sperimenterete potrebbero essere alquanto similari. Difficile parlarvi quindi di un brano piuttosto che di un altro, il flusso sonoro deve essere gustato tutto d’un fiato dall’inizio alla fine, liberi da ogni pregiudizio di sorta, e poi anche voi sarete pronti a contemplare l’infinito dello spazio profondo, ve lo posso garantire. (Francesco Scarci)

(Crispin Glover Records – 2023)
Voto: 74

https://facebook.com/MagnifyTheSound


The Pit Tips

Francesco Scarci

Dødheimsgard - Black Medium Current
Great Cold Emptiness - Immaculate Hearts Will Triumph
Lost in Kiev - Rupture

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Death8699

Arch Enemy - Deceivers
Megadeth - The Sick...The Dying and the Dead
Metallica - 72 Seasons

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Alain González Artola

Soul Dissolution - SORA
Downfall of Gaia - Silhouettes of Disgust
Vintertodt - Under Endless Invented Night

 

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 26 aprile 2023

Karnak - Melodies of Sperm Composed

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Techno Death
La band in questione nasce come Subtraction nel ’93 con una line-up differente; dopo cambi di formazione, di monicker, correzioni di stile, tre demo tape, un mini cd ed un cd, giungono a questo lavoro intitolato 'Melodies of Sperm Composed'. Non avevo mai ascoltato nulla di questa band e non immaginavo che in Italia esistesse un gruppo del genere! Infatti il sound del gruppo è composto da una personale e strabigliante miscela di death metal ipertecnico dal gran gusto compositivo e dalla grande varietà di idee ove ogni musicista dà l’impossibile ed ogni secondo di ascolto si rivela una sorpresa! Questi quattro matti sono irraggiungibili ma il più malato è probabilmente Gabriele Pala: le sue parti di chitarra sono folli e quelle di tastiera sono macabre, morbose, deviate, allucinanti, squilibrate, originalissime e totalmente fuori dall’ordinario! Questo gruppo insegna qui a come usare la tecnica come mezzo e non come fine, e spaccando pure il culo! Insomma, immaginate un disco che comprenda l’influeza di Meshuggah, Arcturus, Death, Nocturnus, Pestilence, Voivod, Cynic e compagnia bella, non era questo che stavate aspettando? Le liriche di questo disco parlano poi di malatissime perversioni e visioni di assassini ormai completamente estraniati dal mondo e probabilmente lo è anche chi le ha scritte! La stravaganza delle parti musicali calza perfettamente con le incredibli nefandezze raccontate dai testi. L’artwork è curato e a tema. La produzione è buona e il fatto che il disco sia stato registrato in soli quattro giorni, conferma l’eccelsa abilità dei componenti di questo magistrale gruppo. Ottimo lavoro.

(The Twelfth Planet Records - 2001)
Voto: 80

https://www.facebook.com/karnak.death/