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sabato 29 aprile 2023

Magnify the Sound - Don’t Give Us that Face

#PER CHI AMA: Suoni Sperimentali
Non certo una passeggiata la recensione del duo norvegese che risponde al nome di Magnify the Sound, una band in giro ormai dal 2010, ma di cui francamente non avevo mai sentito parlare, se non fosse che uno dei membri fondatori è Trond Engum che a suo tempo fondò pure i The 3rd and the Mortal e i The Soundbyte, il che aumenta a dismisura la mia curiosità. Escono con un nuovo album quindi, e ‘Don’t Give Us that Face’ sembra essere di primo acchito un esercizio di improvvisazione musicale che esplode potente nelle nostre orecchie (io l’ho ascoltato con la cuffia ed è stata una figata). Quello che deve essere immediatamente chiaro è che verremo sommersi da 40 minuti di suoni unici, affidati a chitarre, a una batteria pazzesca (a cura del jazzista Carl Haakon Waadeland) e all’elettronica, il tutto ideato come una sorta di jam session catartica proiettata nell’universo, un po’ alla stregua dei suoni della sonda Voyager I che inglobavano quelli naturali (le onde del mare o il vento), quelli prodotti dagli animali, come il canto degli uccelli e le balene, cosi come pure percussioni senegalesi o musiche di Bach, Chuck Berry o Mozart. Ecco, se avete avuto modo di ascoltare quel disco d’oro inserito nella famosissima sonda lanciata nello spazio infinito, e poi vi approccerete a questo 'Don’t Give Us that Face', le sensazioni sovrannaturali che sperimenterete potrebbero essere alquanto similari. Difficile parlarvi quindi di un brano piuttosto che di un altro, il flusso sonoro deve essere gustato tutto d’un fiato dall’inizio alla fine, liberi da ogni pregiudizio di sorta, e poi anche voi sarete pronti a contemplare l’infinito dello spazio profondo, ve lo posso garantire. (Francesco Scarci)

(Crispin Glover Records – 2023)
Voto: 74

https://facebook.com/MagnifyTheSound


The Pit Tips

Francesco Scarci

Dødheimsgard - Black Medium Current
Great Cold Emptiness - Immaculate Hearts Will Triumph
Lost in Kiev - Rupture

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Death8699

Arch Enemy - Deceivers
Megadeth - The Sick...The Dying and the Dead
Metallica - 72 Seasons

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Alain González Artola

Soul Dissolution - SORA
Downfall of Gaia - Silhouettes of Disgust
Vintertodt - Under Endless Invented Night

 

giovedì 27 aprile 2023

Svntax Error - The Vanishing Existence

#PER CHI AMA: Psych/Post Rock
Era da un po’ che non avevo dischi della Bird’s Robe Records da recensire, ci pensavo qualche giorno fa, eccomi accontentato. A giungermi in soccorso in questa mia richiesta, ecco arrivare i Svntax Error, band australiana che rilascia questo ‘The Vanishing Existence’ a distanza di quattro anni dal precedente ‘Message’. La proposta, come potrete intuire dall’etichetta discografica, è un fluido post rock (semi)strumentale come solo la Label di Sydney sa offrire. Dico fluido perché è la prima sensazione che ho fatto mia durante l’ascolto della traccia d’apertura “Radio Silence”, timida, psichedelica, quasi ipnotica, a cui si aggiunge poi quell’ipnotismo claustrofobico intimista della seconda “Broken Nightmares”, che vede peraltro comparire la voce di Ben Aylward in un pezzo dai forti brividi lungo la schiena, un vellutato manto di dolce malinconia che fa allineare i miei chakra a quelli dei musicisti originari di Sydney. “215 Days” è ancora imbevuta di note di velluto, flebili e morbide come la famosa copertina di Linus, un porto sicuro, un abbraccio della persona amata, un posto dove piangere, riflettere o rilassarsi. “Circular Argument” è invece un pezzo più da lounge bar, di quelli dove un riff o un giro di chitarra si fissa nel cervello e da li non si muove; nel medesimo brano ritorna anche la voce del frontman a confortarci con la sua ugola gentile. Esperimento che si ripeterà anche nella percussiva, arrembante e ben riuscita “Relentless”, un brano che mi ha in questo caso richiamato gli Archive più sperimentali, e nella conclusiva “Backwards Through the Storm”, in una sorta di tributo ai Tool. La title track si affida ad un post rock strumentale cupo e dal flavour notturno, che nella sua crescente dinamicità, potrebbe addirittura evocare un che dei Pink Floyd. Ultima menzione per “Kelvin Waves Goodbye”, con i sentori pink floydiani che si coniugano alla perfezione con gli estetismi shoegaze dei Mogwai, ma dove a prendersi tutta la scena, è in realtà lo spettacolare suono del theremin di Matthew Syres. Provare per credere il crescendo di un brano di una portata spettacolare, unico ed epico, che vi invito decisamente a supportare. (Francesco Scarci)

mercoledì 26 aprile 2023

Karnak - Melodies of Sperm Composed

BACK IN TIME: recensione gentilmente concessa da Nihil Zine
#PER CHI AMA: Techno Death
La band in questione nasce come Subtraction nel ’93 con una line-up differente; dopo cambi di formazione, di monicker, correzioni di stile, tre demo tape, un mini cd ed un cd, giungono a questo lavoro intitolato 'Melodies of Sperm Composed'. Non avevo mai ascoltato nulla di questa band e non immaginavo che in Italia esistesse un gruppo del genere! Infatti il sound del gruppo è composto da una personale e strabigliante miscela di death metal ipertecnico dal gran gusto compositivo e dalla grande varietà di idee ove ogni musicista dà l’impossibile ed ogni secondo di ascolto si rivela una sorpresa! Questi quattro matti sono irraggiungibili ma il più malato è probabilmente Gabriele Pala: le sue parti di chitarra sono folli e quelle di tastiera sono macabre, morbose, deviate, allucinanti, squilibrate, originalissime e totalmente fuori dall’ordinario! Questo gruppo insegna qui a come usare la tecnica come mezzo e non come fine, e spaccando pure il culo! Insomma, immaginate un disco che comprenda l’influeza di Meshuggah, Arcturus, Death, Nocturnus, Pestilence, Voivod, Cynic e compagnia bella, non era questo che stavate aspettando? Le liriche di questo disco parlano poi di malatissime perversioni e visioni di assassini ormai completamente estraniati dal mondo e probabilmente lo è anche chi le ha scritte! La stravaganza delle parti musicali calza perfettamente con le incredibli nefandezze raccontate dai testi. L’artwork è curato e a tema. La produzione è buona e il fatto che il disco sia stato registrato in soli quattro giorni, conferma l’eccelsa abilità dei componenti di questo magistrale gruppo. Ottimo lavoro.

(The Twelfth Planet Records - 2001)
Voto: 80

https://www.facebook.com/karnak.death/

Fiesta Alba - S/t

#PER CHI AMA: Alternative/Math Rock
Se cercate qualcosa che possa alterare i vostri sensi con sonorità stravaganti, oggi potreste essere nel posto giusto. Si perché questi Fiesta Alba provano a ridare un po’ di vitalità ad una miscela di suoni stralunati che sembrano pescare qua e là indistintamente da funk (alla Primus), post punk, math rock, alternative e sperimentazioni varie. Tutto chiaro no? Per me francamente non è stato proprio così semplice, visto che ho dovuto ascoltare e riascoltare l'ipnotico trip iniziale affidato a “Laundry” diverse volte. Eppure, ho vinto le mie paure e mi sono lasciato sedurre da quel sound sperimentale, contaminato da un certo percussionismo etnico, dall’elettronica, dal funk e appunto dal post punk (prettamente a livello vocale, ove segnalerei la comparsata del primo ospite dell’album, Nicholas Welle Angeletti). Più si avanza nell’ascolto e più diventa complicato per uno come me abituato a pane e black/death metal. In “Juicy Lips” vengo addirittura inglobato in una spirale dub, in cui i suoni si ripetono in un inquietante moto circolare con un cantato, ad opera della guest The Brooklyn Guy, che sbanda pericolosamente nel rap, mentre quel che rimane delle chitarre (qui sommerse da un massivo lavoro elettronico), vaga per cazzi propri in caleidoscopici universi paralleli, di cui ignoravo l’esistenza. Un turbinio sonoro che evolve in un chitarrismo dissonante nella successiva “Dem Say”, che sembra consengnarci un'altra band, in grado qui di condurci nel cuore dell’Africa nera, grazie ad un’effettistica mai ingombrante, ma che comunque ci distrae da tutto quello di folle che va comunque palesandosi nel corso di questo brano, con una voce (il featuring è qui del nigeriano Kylo Osprey) che narra di favole sulla madre di tutte le terre mentre un virtuosismo chitarristico da paura (in tremolo picking) gioca con le note in sottofondo. “Burkina Phase” combina splendide e ariose chitarre all’elettronica, in un incastro di suoni ricercati, mentre una flebile voce (Thomas Sankara) estratta dal “Summit Panafricano, 1987”, sembra gridare il suo desiderio di libertà verso il neocolonialismo. Il movimento funky richiama anche in questo caso l’estetica freak e zappiana dei Primus, l’elettronica evoca il kraut rock germanico, ma quel sax in bella mostra emana vorticose emozioni jazz. La chiusura del disco è affidata a “Octagon”, un pezzo elettronico, un battito del cuore, un ossessivo agglomerato di suoni che sancisce la genialità di questo misterioso ensemble formato da quattro lottatori mascherati, Octagon, Pyerroth, Fishman e Dos Caras, che sapranno assoldarvi nella loro lotta contro il conformismo della società contemporanea. Io sono pronto ad unirmi alla sommossa popolare dei Fiesta Alba e voi? (Francesco Scarci)

(Neontoaster Multimedia Dept – 2023)
Voto: 75

https://fiestaalba.bandcamp.com/album/fiesta-alba

martedì 25 aprile 2023

Wintarnaht - Anþjaz

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Formatisi originariamente col moniker Winternight e come one man band capitanata dal bardo Grimwald (che sta dietro anche a band quali Dauþuz e Isgalder, oltre ad essere un ex di molte altre), il buon mastermind ha poi tradotto il proprio nome nella forma germanica più arcaica, ossia Wintarnaht, proponendo una commistione di suoni epic black pagani in questo lavoro intitolato ‘Anþjaz’. La classica intro atmosferica e poi via alle epiche battaglie già dalla title track di questo quinto album della band della Turingia. Se la copertina del cd lasciava presagire un prodotto scarno e forse mal registrato, in realtà ho trovato i contenuti di ‘Anþjaz’ al pari dei primi brillanti lavori dei Menhir (fatalità anche loro della Turingia, quasi ci fosse un magico sottobosco in quella zona di foreste della Germania) in grado di quindi di sciorinare un pomposo concentrato di black ispiratissimo che si muove tra arcaiche melodie, cori folklorici e galoppate di black furente, che trova però spesso e volentieri rallentamenti atmosferici che rendono il tutto decisamente più gustoso e appetibile (ascoltatevi “Wint Zuo Storm” per meglio comprendere il flusso musicale del factotum teutonico). “Regangrâo” è un bell’intermezzo acustico che ci conduce alla devastante “Haimaerþa”, una scheggia impazzita di black grondante odio nelle sue ritmiche infuocate e nel growling/screaming efferato del frontman. Grimwald picchia sicuramente come un fabbro, ma stempera l’irruenza del black con i suoi intermezzi folk con tanto di cori, che per certi versi mi hanno evocato gli Isengard. Nella lunga e tenebrosa “Untar þe Germinâri Mâno”, il black si sporca di sonorità doom che vedono in splendide aperture chitarristiche, tiepidi squarci di luce, cosi come pure il cantato pulito rende tutto evocativo, al pari di un basso che macina lugubri suoni in sottofondo. Ancora un break strumentale e poi arrivano le ultime due tracce, di cui vorrei sottolineare la vivacità di “Staingrab in þe Morganbrâdam”, ove ho la sensazione di captare tracce di Absu nelle sue linee di chitarra che nel finale, si sbizzarriscono in una ritmica impetuosa e devastante, diluita solo dal lavoro delle tastiere e dai molteplici cambi di tempo e coro. In chiusura, “Ûzfaran” sembra nascere dalla chitarra di un impavido menestrello, per poi evolvere in una sorta di rituale sciamanico che chiude alla grande un lavoro a cui francamente non avrei dato un euro e che invece ha saputo conquistarmi per i suoi interessanti contenuti. Ben fatto. (Francesco Scarci)

Zagara - Duat

#PER CHI AMA: Alternative Rock
L'ascolto di questo album mi lascia più di un punto di domanda. La band torinese, alla sua seconda uscita discografica, parte molto bene, e fino al quarto brano, "Apophis", strumentale e sperimentale in senso electro ambient rumorista, si comporta in modo degno di lode, curando testi e artwork in maniera ottimale. Le idee su cui imbastiscono il loro scopo sonoro sono attraenti, tra cantato e sfumature melodiche che raccolgono frammenti di prog rock italico dei mitici anni '70 miscelato a un alternative sound capitanato da una distorsione zanzarosa, esplosiva e accattivante, che espande l'idea di trovarsi di fronte ad una band assai originale, con richiami alla new wave degli '80 di Faust'o e Denovo, cosi come pure trapela una dose di passione per l'electro rock e l'elettronica nazionale moderna. Il tutto lascia sperare in un piccolo miracolo dei giorni nostri, visto come ce la passiamo per via di musica cantata in lingua madre in Italia. "Maat", "Quello che ha un Peso", "Se ha Fame" e appunto "Apophis", hanno questo sentore, se poi ci si aggiunge quel giusto pizzico di alternative rock emotivo, di vecchia scuola Afterhours o Verdena, senza difficoltà, ci si rende subito conto che i primi quattro brani diventano molto piacevoli. Questa sensazione purtroppo, viene a decadere nei successivi brani, dove l'ispirazione sembra attenuarsi per aprirsi a strade, per così dire più consone allo standard commerciale italico. Intendiamoci, l'album è ben fatto e ben prodotto, la band suona bene e quello che fa, lo fa bene, ma quando cade la tensione e si opta per aperture pop rock, dalla dubbia intuizione compositiva, sulla falsariga dei Coldplay di recente ascolto ("Pezzi di Ossa"), oppure, si crolla crudelmente in uno stile sanremese ("lluminami"), che crea una voragine tra i primi quattro brani e i successivi tre, bisogna prendere atto di un certo sconforto musicale. E se "Illuminami" dicevo potrebbe partecipare e vincere tranquillamente la kermesse ligure, "Amnesia", finalmente, risolleva la verve dei Zagara e si riappropria un po' di quel coraggio sperimentale presente all'inizio del disco. "Sole e Limo" parte un po' in sordina, ma ha un bellissimo finale, estremamente distorto, che compensa un'evoluzione abbastanza piatta. La chiusura è affidata a quello che probabilmente è il brano più intenso del disco, "Lago", che con coraggio, unisce ritmica post rock ad un cantato/recitato ad effetto, in un'atmosfera surreale e drammatica, con delle sospensioni temporali di scuola floydiana, miste ad aperture ed evoluzioni teatrali veramente intriganti. Un brano, a mio avviso, che può, e deve dare, la direzione artistica futura di questa band, che sembra non aver ancora trovato la sua vera identità, ma che ha tutte le carte in regola per divenire un qualcosa di veramente originale nel panorama italiano. Rimaniamo in paziente attesa. (Bob Stoner)

(Overdub Recordings - 2022)
Voto: 69

https://zagara.bandcamp.com/album/duat

Drakon - П​р​о​б​у​ж​д​е​н​и​е (Awakening)

#PER CHI AMA: Atmospheric Black
Mi fa piacere poter constatare che nonostante gli strascichi della guerra, arrivino nella mia cassetta della posta, ancora cd dalla Russia. Sapete come la penso, per me la musica non ha confini, non ha colori, nè bandiere. Quindi il mio giudizio sui Drakon e sul loro lavoro ‘П​р​о​б​у​ж​д​е​н​и​е’ (‘Awakening’ in inglese) è libero da ogni forma di pregiudizio. Concentriamoci quindi su quello che è a tutti gli effetti il disco di debutto del duo di Chelyabinsk (che conta anche tre EP all’attivo) e su sonorità che sin dall’iniziale “Closedness of Forest Darkness” mi hanno evocato i fasti degli Emperor. Ecco, avrete già inquadrato la musica dei nostri che peraltro includono in formazione anche il vocalist Demether Grail, un vagabondo del metal che abbiamo già incontrato nei Lunae Ortus, negli Shallow Rivers, negli Skylord e negli Arcanorum Astrum, giusto per citare le esperienze più significative. Tornando alla musica, il disco include sette song che sono fondamentalmente un inno al black metal old fashion di metà anni ’90, “sporcato” di una leggera vena melodica che rende sicuramente di più facile approccio l’ascolto di questo disco. Infatti anche la seconda “In the Gloomy Feuding” (userò i titoli in inglese forniti dalla band per facilitarne la memorizzazione) parte sparata alla velocità della luce, con ritmiche vertiginose, chitarre in tremolo picking e le classiche screaming vocals, come andava di moda negli anni d’oro del black norvegese, per poi trovare un delizioso break centrale che ne attutisce toni e velocità. L’incipit di “Lunar Path” è cupo e successivamente frastornante a livello ritmico, con una batteria che sferra colpi alla stregua di una mitragliatrice M60 e con la voce del frontman, che esce come proiettili da quello strumento infernale. Fortunatamente, un break atmosferico rende l’aria appena più respirabile, ma ben presto la band ripartirà da ritmi infuocati e acidi vocalizzi. Ecco, diciamo niente di nuovo dal fronte orientale. La proposta dei Drakon va ad appiattire una scena sempre più povera di proposte originali, anche se vorrei sottolineare che quella dei due musicisti russi non è assolutamente una prova da bocciare. Anzi, qualcosa di buono si sente, soprattutto nella più compassata e melodica “In the Murk of Night”, ma il messaggio che deve passare chiaro qui, è che non c’è una sola nota in questo disco che possa dirsi dotato di una certa personalità. Per quanto mi riguarda, i Drakon hanno preso il testimone da alcune realtà norvegesi di 30 anni fa e stanno provando semplicemente a portarne avanti il verbo con risultati accettabili. Un paio di menzioni prima di chiudere vanno all’acuminatissimo riffing di “Above All” e all’epica robustezza di “Ode to North”, quest’ultimo forse l’episodio meglio riuscito di ‘Awakening’, che vanta peraltro un notevole assolo a cura di tal Pavel Sochev, personaggio esterno alla band, cosi come il bassista Vadim Basov e il batterista Vyacheslav Popov. Per concludere, ‘Awakening’ è un lavoro indicato a chi ha amato il black norvegese e ancor oggi insegue i fasti di un genere che sembra non essere più in grado di uscire dalle sabbie mobili della propria storia. (Francesco Scarci)

(Soundage Productions – 2022)
Voto: 64

https://drakonblackmetal.bandcamp.com/album/-