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martedì 23 maggio 2017

By'ce - Reset to Zero

#PER CHI AMA: Rock Progressive, Porcupine Tree
Album particolare e strano questo dei francesi By'ce, che racchiude variegate e tortuose strade del labirinto prog rock/metal, riviste in una veste abbastanza personale. Il risultato è un disco che si fa ascoltare fino alla fine senza mai sfigurare, anche se a volte, i punti di riferimento musicali emergono un po' troppo, come nel caso di "You Must Hang On", dove la composizione fin dalla prima nota, sembra essere rubata ai Pink Floyd, e se aggiungiamo la leggerezza di un certo prog rock alla Porcupine Tree e quell'anima metal con cui Tony Iommi creò il controverso e geniale 'Seven Star' nel lontano 1986, ne escono pezzi sognanti, malinconici ed epici di tutto rispetto, magari non del tutto originali ma molto efficaci. L'album ha una sua personalità, l'abbiamo detto, ed una sua coerenza, tuttavia, anche se ben prodotto, l'intero lotto di brani richiedeva una ancor più patinata gestione sonora per raggiungere la sua massima espressività. La buona idea di armare pezzi come "Self Control" dei richiami giusti, da notare il riff vincente che strizza l'occhio niente meno che agli AC/DC impantanati tra schegge digitali, ambient e atmosfere alla ultimi Muse, è assai carina. E molto interessante è anche la traccia iniziale che dona il titolo al disco, "Reset to Zero", con quelle atmosfere vicine alla vecchia istrionica compagine di Steven Wilson ai tempi di 'Fear of a Blank Planet', paragone che può accarezzare tutto l'operato della band transalpina e farla apparire molto intrigante agli occhi di un pubblico attento e goloso di un rock sofisticato, progressivo e rivolto al futuro. Certamente non stiamo parlando di musica immediata o di facile approccio, il taglio prog le dona una certa classe e le influenze elettroniche contrastano bene nell'insieme, accelerando i battiti cardiaci ed il chiaroscuro dell'umore in ogni pezzo (vedi le sperimentazioni sonore nella lunga e deliziosa "Free"). Un altro tassello da aggiungere nel puzzle del nuovo rock francese, sempre interessante, fantasioso e pieno di sorprese. 38 minuti di metal/rock progressivo che mostrano piena padronanza strumentale e ricerca di originalità e che nella maggior parte dei brani dà sempre buoni frutti. Distribuiti via Dooweet, l'album uscito nel 2015 lo potete trovare anche su bandcamp datato 2016, l'ascolto è consigliato! (Bob Stoner)

Fire Down Below - Viper Vixen Goddess Saint

#PER CHI AMA: Psych/Stoner, Kyuss
Da una landa desertica allucinata, una donna con la testa di mammut e le braccia coperte di funi, mi fissa. Non si tratta di un sogno ma della copertina di 'Viper Vixen Goddess Saint', esordio autoprodotto degli belgi Fire Down Below. Si tratta di un disco stoner sapientemente decorato con derive psych molto riuscite e impregnato di un’energia in grado di spaccare il cemento. I cactus in copertina crescono lentamente sul cimitero di elefanti preistorici battuto senza sosta dal sole e da venti ad altissime temperature. Da questo immaginario secco e allucinogeno nasce il primo pezzo, un intro di chitarra slide in stile vagamente country ma con una vena di trasporto che lascia intuire il peso dei pezzi che verranno. Si continua ad avanzare con la sabbia che arriva al ginocchio, con la gola che arde e alla mercé di una sete tale da ubriacare la vista. Alcune flebili allucinazioni iniziano a formarsi nella mente, ma fortunatamente il sollievo arriva al primo primo pezzo “Throught Dust and Smoke”. Si tratta di una potente cavalcata in pieno stile Kyuss, che porta però con sé un testo pregno di significato sociale. La voce di Jeroen libera dalle pieghe dello spirito quei nodi alla gola intrappolati e incapaci di uscire, “non voglio sentire nessuna notizia”, “meno sai meno senti”. Un grido di allarme comune a tanti artisti a mio avviso molto importante ma anche poco ascoltato perché di portata rivoluzionaria. Il messaggio è che le notizie che ci vengono ogni giorno propinate non solo non servono a nulla, ma contribuiscono ad affossare la qualità dei pensieri nelle persone e a riempirle di paure, insicurezze e dipendenza al sistema sfruttando tra l’altro, una delle qualità più nobili, vale a dire la sensibilità ad immedesimarsi nel dolore altrui. Sono queste le allucinazioni da combattere e il cimitero di mammut in copertina non è altro che la situazione in cui noi umani ci troviamo, simbolo del male che continuiamo consapevolmente ad infliggerci e della vuotezza e aridità dell’anima che il sistema cerca in di incoraggiare. Non per nulla il ritornello del pezzo è uno “shut up!" urlato con veemenza sull’onda di un riff granitico e inarrestabile. Proseguendo il sentiero di liberazione e purificazione che i Fire Down Below hanno inciso sul disco, arriviamo ad una interessante suite psichedelica che porta il titolo di “Universes Crumble”. Parti decisamente stoner si alternano a larghe parti psych che trascinano l’ascoltatore in un caleidoscopio di percezioni totalmente alterate rispetto al normale funzionamento dei cinque sensi. La speranza e la malinconia permeano il pezzo in ogni sua parte, come se il viaggiatore nel deserto ormai quasi vinto dai morsi della fame e dalle allucinazioni oniriche, si renda conto ad un tratto che quell’oasi appena sotto il drago multicolore non è un’allucinazione, l’acqua è limpida e vera e si può bere. C’è ancora tempo per “aprire la porta e andare la fuori” ci dicono i Fire Down Below, e a non farsi ingannare dalle visioni e dai giochi della mente, aggiungerei io. 'Viper Vixen Goddess Saint' è un lavoro solido e ben congegnato sia nello stile musicale che nella poetica sempre densa di significato, capace di elevare la coscienza di chi ascolta ed incoraggiarlo a non mollare e a continuare a cercare quell’oasi nel deserto che toglierà ogni sete. (Matteo Baldi)

sabato 20 maggio 2017

Estetica Noir - Purity

#PER CHI AMA: Dark/New Wave, The Cure
Nelle cupe tonalità sintetiche, nei chitarrismi gorgoglianti, nel basso insistente alla Peter Hook (sentito "Plastic Noosphere"?) è possibile ravvisare una devozione nei confronti di tutto ciò che accadeva alle vostre orecchie nei primissimi ottanta. I primi Depeche Mode ("You Make Life Better), i Cult di 'Love' e 'Dreamtime' ("In Heaven"), i primi New Order ("A Dangerous Perfection") e soprattutto tanti, tantissimi The Cure ("Polarized" e "Deluxe Lies Edition"). Oh, e qualche graffio industrialeggiante, specialmente in quello che sarebbe il lato B del disco. Vocione intriso di spleen, caratterizzato però da un senso epico alla Litfiba-di-Desaparecido ("Hallow's Trick") invero piuttosto insolito nell'ortodossia new-wave. La cover di "I'm not Scared" (scritta, ricorderete, dai sigg. Tennant/Lowe per la surrogate-band di Capezzolino Kensit nell'ottantotto) suona come suonerebbe la versione di "Introspective" però (opportunamente) decurtata e remixata da un improbabile Trent Reznor di buonumore, una volta tanto. (Alberto Calorosi)

(Red Cat Records - 2016)
Voto: 75

https://www.facebook.com/esteticanoir/

giovedì 18 maggio 2017

Dawn of a Dark Age - The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères

#PER CHI AMA: Avantgarde/Black/Teatro, In Tormentata Quiete, Carpathian Forest
Gong! Si parte con il quinto viaggio dei Dawn of a Dark Age e il mantra minaccioso "Il mistero si svela alle porte della città, il mistero si cela dietro l'oscurità". Il polistrumentista Vittorio Sabelli, in compagnia di diversi amici, torna con la sua creatura ed il quinto capitolo della saga che si riferirisce ai sei elementi naturali. Dopo aver svelato tre dei primi quattro qui nel Pozzo, andiamo a scoprire il quinto, 'The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères', forse il più complicato da ascoltare ma d'altro canto anche quello più complesso musicalmente. Dell'intro de "Il Viaggio" abbiamo già detto, da qui in poi è una sorta di rappresentazione teatrale quella che va in scena durante l'ascolto di questa nuova fatica, con il soave suono del clarinetto che si prende il ruolo di protagonista indiscusso in un tuffo nella musica, esplorando sonorità mediterranee (con un che degli In Tormentata Quiete tra le influenze), divagazioni jazz tra suoni di sax, viola e percussioni varie ed infine scorribande black progressive che giungono alle nostre orecchie solamente dopo una decina di minuti, e che non rinunciano ovviamente all'utilizzo di quella strumentazione non  convenzionale, con cui da sempre il buon Vittorio ci ha abituati. Dicevo che l'album è comparabile ad un'opera teatrale e l'ingresso narrato in dialetto molisano di "Dream" lo testimonia. Da qui riparte il tourbillon black, tra raggelanti riff di scuola norvegese, screaming vocals e furenti pattern di batteria, affiancati dall'indiavolato trillo del clarinetto, vero fuoriclasse di questa lunghissima prima traccia di ben oltre 21 minuti. L'opera narrativa prosegue con "Lo Spirito del Deserto" e il recitato malefico di Luca Del Re che s'ispira al poema di Aleister Crowley 'The Soul of the Desert', in una melodica song mid-tempo. "Il Cerchio di Fuoco" è una spettrale ed insana traccia introdotta da un lungo monologo che scivola successivamente in un distesso flusso corale e da qui si lancia in un'iperbole musicale di clarinetto e ritmiche infuocate, per poi affidare la sua coda nuovamente a suggestivi intermezzi recitativi. "Corpus Domini" non lascia alcun dubbio invece sulla sua natura prettamente black, visto l'inizio dirompente tra blast beat e un rifferama thrash black davvero violento, che trova pace solo nell'iniziale break affidato a clarinetto, scacciapensieri e vocals, prima che la violenza torni a sprigionarsi tra ritmi incalzanti, chorus epici, funamboliche azioni percussive e parlati vari, in un rocambolesco finale di miscele jazz, noise, ambient, arte circense e folk. Delizia per i miei padiglioni auricolari, lo ammetto; lo stesso dicasi per la successiva ed inquieta "Il Ritorno", un pezzo semi-strumentale dalle movenze jazz blues rock. Si tratta invece di ritual post rock quello che si sente nell'ultima lunga "Epilogo": un malinconico turbinio di chitarre in tremolo picking, tocchi d'organo che evocano la Quinta Sinfonia di Beethoven, fughe post black e screaming vocals caratterizzano questa magniloquente traccia che chiude con quell'evocativo mantra iniziale "Il mistero si svela alle porte della città, il mistero si cela dietro l'oscurità" che aveva aperto il disco, anzi no, perchè un'altra piccola sorpresa "bandistica" è pronta ad attenderci negli ultimi secondi di 'The Six Elements Volume 5: Spirit/Mystères'. Un disco davvero notevole. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2017)
Voto: 85

http://www.dawnofadarkage.com/

mercoledì 17 maggio 2017

Violet - S/t

#FOR FANS OF: Atmospheric/Post Black Metal, Agalloch, Chiral
Still fine-tuning their sound, Rhode Island black metallers Violet have come upon a rather strong mix of atmospheric black metal and post-rock riffing to leave this a solid if somewhat underwhelming effort. The long, swirling riff-work and churning rhythms present for the majority of the tracks here present a light background for the music to rumble along due to the loose song structures apparent throughout here. It rumbles forth quite nicely and has some solid moments here with the sporadic riffing giving this some life, although it tends to simply come off way too simplistic and repetitive as the exact same rhythms are utilized for the tracks here and it can make these feel too similar to each other. Opener "Haunter" and the rumbling "Kin" are the most expressive and enjoyable tracks, while the frantic outbursts of "Bloodless" offer some strong potential of what’s in store in the future. For the most part, it’s really just the fact that there’s not a whole lot to really distinguish these from each other. (Don Anelli)

(Self - 2017)
Score: 65

https://violetmetal.bandcamp.com/

martedì 16 maggio 2017

Au-Dessus - End of Chapter

#PER CHI AMA: Post Black, Deathspell Omega
Sono stato da un paio di settimane in Lituania, una terra ricca di fascino, storia e tradizioni. Ho colto l'occasione del mio viaggio per visitare un negozio di dischi: con orgoglio il commesso mi parlava delle band locali, gli Obtest, i Dissimulation e anche di questi Au-Dessus. Strano che la Les Acteurs de l'Ombre Productions abbia messo sotto contratto il quartetto di Vilnius, considerata la loro quasi esclusiva predilezione per le band transalpine. Deve esserci quindi qualcosa di assai interessante nell'estremismo sonoro di questi ragazzi, in quello che è il loro full-length d'esordio che segue progressivamente a livello di titoli, l'EP omonimo del 2015. Si parte allora con l'epica ostilità di "VI", un brano di monumentale e arioso black metal, infarcito da atmosfere sognanti, eccellenti e fresche linee di chitarra, vocals epiche, pulite ed in screaming, che mi fanno ben sperare nella qualità del disco. Una opening track tanto melodica quanto assai fuorviante, tant'è che la successiva "VII" mostra la natura bislacca dei quattro musicisti lituani che qui appaiono piuttosto come un ibrido tra il sound dissonante dei Deathspell Omega e le vocals maligne dei Mayhem, altra roba rispetto alla traccia d'apertura, ma di altrettanto caratura. Con "VIII" aumentano le scorribande in territori post black, e non solo: il sound si fa infatti più avvolgente ed ipnotico, in una song matura per stare addirittura in un disco degli Isis. La complessità ritmica va aumentando con la quarta traccia, "IX", in una malefica miscela tra black old school, punk, dilatazioni post-metal e psichedeliche divagazioni droniche, che sembrano perpetrarsi anche nella successiva e riuscitissima "X", proposte però al contrario. La traccia, la più lunga del disco coi suoi nove minuti e mezzo, parte infatti con atmosfere soffuse per poi lanciarsi in pericolose accelerazioni post tra selvaggi vocalizzi e spaventosi rallentamenti, con una seconda parte eterea quanto affascinante, a suggellare la brillante proposta della compagine lituana, che peraltro opta per un'azzeccatissima scelta a livello grafico, con il viso di una bambina con gli occhi coperti da due monete, utili a pagare lo psicopompo Caronte nel traghettare la sua anima nell'Ade. Nel frattempo il disco prosegue con le ultime due song: la darkeggiante "XI" e la mefitica "XII: End of Chapter", il giusto dirompente e schizofrenico finale, ideale epilogo per un album come questo. Bella scoperta gli Au-Dessus, aveva proprio ragione quel tizio del negozio di dischi di Vilnius. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2017)
Voto: 80

lunedì 15 maggio 2017

Vaiya - Remnant Light

#FOR FANS OF: Post Black
Listening to Vaiya's music has been about as rewarding as reading Milton's 'Paradise Lost'. There is an immense heap of dry atonal content that meaninglessly meanders in Vaiya's long-winded catalogue, a simple show of how many words can cover a page without catching the attention of its audience. Luckily, the man behind the band has finally created something of value and come into his own as a musician and, dare I say it, an artist. Rob Allen has shown so much potential and perplexingly thrown it away throughout this project. Years of wallowing in such unremarkable stagnation must have finally pissed him off and snapped something in this musician's mind that motivated him to strive for something better because 'Remnant Light' is finally something that works and captures the potential he had only been hinting at for years.

A one-man act from Australia, Vaiya creates some densely cloistered black metal in 'Remnant Light' that grows outwardly from its intense desperation to invigorate as it expands. Each song steps into the light after indulging the darkness it is bred in and takes a deeply personal journey that is translated into a warmer approach to black metal, but not without its own expressions of anguish through painful evolution. Finally finding focus, Vaiya finds riffs, the drums have become audible, wailing tremolos shine as cymbals crash and embrace the elaborate cacophony of real and palpable black metal rather than shoehorning words into a genre designation for a name without manifestation to back it up. The longer this album steps into the light, the higher the riffs rise, the more captivating is the atmosphere, the higher the score for this album rises, and the more this reviewer appreciates the effort and evolution this musician has gone through to achieve a worthy benchmark. Finally, a band has been born from the fetid womb of a gaseous bedchamber.

The album is split into three equal parts, each exactly thirteen minutes long. This makes for a long-winded and immersive exploration. Despite their length, each song's gradual pace is captivating and entertaining as it emerges from the maw of darkness to bask in the glow of hypnotic singing and beautiful guitar notes. The growth of “Confrontation” is best displayed in its flowering finish while “Banishment” takes wailing tremolos, upping the ante with harmonious intensity and a churning drumming backdrop that is actually audible and uses the space rather than simply fills it in. Later in the song is a fantastic moment where the ambiance of the guitars and synth march the treble notes into a grinder of drumming that gets me thinking of how Emerna layered his “Esoteric Digression”, forging a flourish from the fodder into a fleeting fortress quickly forsaken to its own fragile foundation. The general mix is more bass oriented than your average under-produced black metal release and the guitars fill this role with deeper notes thickened with reverb but in a warmer climate than what is usually expected from the European standard. The highest notes are noticed in a distant rhythm guitar quashed in so much reverb in “Transformation” that its bassy grain becomes a hypnotic meditation for the flowery highs of the lead harmony. The songs sound similar to each other, making for a cohesive thirty-nine minute ride that approaches the same sort of energy with different notes, but the structuring keeps things fresh enough as they evolve and the riffs have their stand-out moments that ensure they shy enough away from each other to forge their own paths.

Like his album's theme, Rob Allen has finally stepped into the light. Languishing in the darkness of a one man band pretentiously prostrating inanity at his audience with one hand outstretched shaking a tip can of oxidized pennies and the other hand tightly cupped around his trembling anus eagerly anticipating the next foul dose that he imbibes from his crack is a snapshot of a time that seems an age ago. 'Remnant Light' has redeemed this musician from the doldrums of barely passable mediocrity to find a man in an age of discovery, introspection, and self-realization. If this album completes Viaya's journey, it was well worth the agony of enduring so many terrible ideas to get to this high water mark. Here tears of joy can be shed as though we have made this journey together and we can rest, contented with where the path has taken us. (Five_Nails)

(Nordvis Produktion - 2017)
Score: 70

https://nordvis.bandcamp.com/album/remnant-light

Repetitor – Gde ćeš

#PER CHI AMA: Alternative/Post Punk, Sonic Youth
Ci sono voluti piú di quattro anni, ai “Sonic Youth serbi”, per dare un seguito al fortunato 'Dobrodošli Na Okean', di cui parlammo ai tempi anche da queste parti. Da allora i tre ragazzi hanno macinato migliaia di chilometri in giro per l’Europa, su e giú dai palchi, sviluppando un’intesa e una resa nell’impatto sonoro che risultano evidentissimi in questo loro nuovo album, come sempre dato alle stampe dall’ottima Moonlee Records. 'Gde ćeš' non perde un briciolo dell’aggressività del suo predecessore, anzi è ancora più cattivo e intransigente nel coniugare le dissonanze dei Sonic Youth più diretti, certe strutture conturbanti dei Nirvana di 'Bleach', il protopunk degli Stooges e certi umori fuzz alla Dead Moon. La lingua serba è affilata e respingente almeno quanto il suono delle chitarre del terzetto, e sembra fatta apposta per questo punk rock strafottente e ultracompresso, tra l’indolenza un po’ svogliata di Ana Marja, sorta di Kim Gordon balcanica e l’aggressività carismatica di Boris. I brani sono potenti, le chitarre sono in grado di staccare la vernice dai muri e non fanno nessuna facile concessione, il basso di Ana Marja martella asciutto mentre Milena dietro le pelli sfodera una prestazione davvero ragguardevole. Rispetto al passato si registra un generale ispessimento del suono, evidente soprattutto nella seconda parte della scaletta, spezzata in due da “Crvena”, la traccia più particolare del lotto col suo incedere solenne e declamatorio proprio di certi Swan. Un album coraggioso, che non cerca facili ammiccamenti alla ricerca di un consenso più ampio ma che sembra quasi respingerlo, rifugiandosi dietro un muro di suono ansioso e violento. Chapeau. (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2016)
Voto: 75

https://repetitor.bandcamp.com/album/gde-e